Quello che può una statua. L’agire politico tra spazio
pubblico e significati storici
di Miriam Aly sabato,
20 giugno 2020 ·
La notte tra il 12 e 13 giugno a
Milano la statua dedicata ad Indro Montanelli è stata cosparsa di vernice
rossa, mentre sulla base della scultura in bronzo è stata lasciata la scritta
‘’razzista stupratore’’. La statua, inaugurata nel 2006 durante la giunta dell’ex
sindaco Gabriele Albertini (al tempo Forza Italia), è tutt’oggi situata in una
zona centrale di Milano, Porta Venezia, all’interno dei giardini pubblici che
dal 2002 sono intitolati al giornalista e fondatore de Il Giornale, quotidiano
che ha avuto la prima sede proprio nei pressi dei giardini, nel Palazzo
dell’informazione di piazza Cavour.
L’atto dello scorso venerdì sera è
stato successivamente rivendicato in quanto azione politica dagli studenti e
dalle studentesse del collettivo milanese LuMee Rete Studenti Milano in un
lungo post su Facebook con cui hanno spiegato le motivazioni del gesto in
relazione principalmente alle idee di lotta, di mondo e di pratica politica
connaturate ai simboli e ai flussi che la storia ha assunto e continua ad
assumere. Hanno infatti dichiarato, tra le varie cose, che ‘’In un momento
globale così importante – che da ogni parte del mondo ci vede capaci di
infrangere barriere e abbattere idoli di un mondo che non deve più
esistere – crediamo che figure come quella di Indro Montanelli siano
dannose per l’immaginario di tuttx. Un colonialista che ha fatto dello
schiavismo una parte importante della sua attività politica non può e non deve
essere celebrato in pubblica piazza.’’
Le principali critiche ed accuse nei
confronti di Montanelli, protratte in modo più deciso nell’ultimo decennio,
riferite alla sua persona e della sua immagine pubblica, sono legate all’aver
comprato, sposato e stuprato una bambina eritrea di dodici anni, Destà – o
Fatima, come chiamò lui stesso in un’intervista pubblicata solo nel 2010 per
Correva l’anno (‘’Indro Montanelli. Storia di un grande provocatore’’) –
nel 1936, durante la guerra colonialista dell’Italia in Etiopia, ex Abissinia.
Il giornalista infatti, dopo aver
collaborato con varie testate in tutto il mondo durante la gioventù, decise di
arruolarsi come volontario nel 1935 in un battaglione coloniale, prima di
rimanere ferito in combattimento ed iniziarea prestare servizio come
giornalista presso l’Ufficio Stampa e Propaganda; negli anni della guerra
d’Etiopia, Montanelli scrisse una delle sue opere di maggior successo, ‘’XX
Battaglione Eritreo’’, in cui nel raccontare l’esperienza di combattente
sostenne: ‘’Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal
Gran Babbo – riferendosi a Mussolini – in premio di tredici anni di
scuola. E, detto fra noi, era ora.’’
Non è però la prima volta che la
statua di Milano viene imbrattata o scritta: già nel 2012 la statua venne
cosparsa di vernice rossa e venne anche fatto trovare all’interno del cappello
di bronzo un finto ordigno; nel 2018 la scritta ‘’giornalista’’ situata sul
piedistallo è stata coperta con la scritta ‘’Stupratore di bambine’’
accompagnata da un cartellovicino alla scultura con scritto ‘’Giardini vittime
del colonialismo’’; l’8 marzo dello scorso anno, durante il corteo trans
femminista del movimento Non Una Di Meno, è stata nuovamente imbrattata dalle
attiviste con della vernice rosa.
L’ultimo atto politico (non
vandalismo) nei confronti della statua di Montanelli e del suo simbolo è stato
proprio quello della settimana scorsa e la cui intenzionalità è stata mossa,
anche, a partire dall’appello dell’associazione Sentinelli di Milano, che
all’inizio del mese aveva chiesto tramite un appello su Facebookal sindaco di
Milano Giuseppe Sala e all’intero Consiglio comunale la rimozione della statua
affermando: ‘’Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla
città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l’intero
consiglio a valutare l’ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i
Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la
memoria della nostra città…’’.
Più in generale, quest’ultimo gesto
ha evidentemente seguito la scia delle attuali proteste negli Stati Uniti, nate
dall’assassiniodi George Floyd da parte di agenti della polizia, lo scorso 25
maggio nella città di Minneapolis. Le proteste, che dal Minnesota si sono
estese gradualmente a tutti gli stati americani e non solo, ad oggi
appartengono ad una pratica politica che si riferisce globalmente al movimento
di Black Lives Matter; questo movimento, che ha avuto un enorme portata
mediatica e politica nell’ultimo mese circa, è nato dalle rivendicazioni degli
afroamericani e delle afroamericane che in seguito all’omicidio di Floyd hanno
dato vita a qualcosa che è molto più di un movimento antirazzista: le persone
nere si sono mobilitate per combattere con la propria voce e i propri corpi il
razzismo intrinseco di un sistema che riproduce le proprie disuguaglianze nelle
direzioni di potere, che si manifesta spesso con la cosiddetta police
brutality e con cui si sono costruiti sistemi socioculturali fondati
sul suprematismo bianco – inteso capillarmente non solo nell’ambito di
discriminazioni razziali ma anche di dinamiche relative ai concetti di whiteness
o white savior complex – in relazione ad istanze che necessitano di
pratiche intersezionali, inevitabilmente femministe, antisessiste e
anticlassiste.
Non si può prescindere da classe e
genere per parlare di razza e per riflettere sul discorso razzista perché
vorrebbe dire eliminare a priori lo spazio di corpi che si muovono all’interno
di strutture sociali, culturali ed istituzionali connesse e che dal passato al
presente agiscono i propri significati in spazi che sfuggono ai processi
assimilazionisti e all’impronta del privilegio bianco. La violenza agita da un
oppresso non è mai uguale alla violenza agita da un oppressore, la violenza che
subisce un nero non è mai uguale alla violenza che subisce un bianco e la
violenza che subisce una donna non è mai uguale a tutto il resto.
L’iconografia delle statue che
vengono buttate giù è attualmente valorizzata a livello planetario proprio a
partire dalle proteste americane e in generale, da più tempo, da un’ostilità
politica e storica nei confronti dei simboli della colonizzazione e dello
schiavismo, nell’idea-movimento del ‘’all monuments must fall’’. Il
colonizzatore e il confederato appartengono e vengono inseriti sistematicamente
all’interno di linee di discendenza razziste e patriarcali, come sostenne nel
2017 la scrittrice e storica Karen Cox in un articolo intitolato ‘’Why
Confederate monuments must fall’’; l’autrice in riferimento all’istituzione di
centinaia di statue di questo tipo presenti sull’intero territorio americano
sostenne che ‘’hanno riproposto i soldati confederati come eroi che
combattevano non per l’istituzione della schiavitù, ma per La causa perduta, la
mitologia della Confederazione come una grande civiltà patriarcale’’
(traduzione dal New York Times).
Negli ultimi giorni sono state
abbattute infatti le statue di Cristoforo Colombo presenti a Richmond (Virgina)
e Minneapolis, mentre altre statue sempre di Colombo sono state attaccate in
vari modi (decapitate, imbrattate, ecc.) ad esempio a Boston o Miami. Anche in
Europa sono state abbattute e imbrattate delle statue: lo scorso 8 giugno a
Bristol, nel Regno Unito, è stata abbattuta la statua di Edward Colston,
inglese mercante di schiavi africani, durante una manifestazione di protesta
molto partecipata; negli stessi giorni a Londra è stata imbrattata la statua di
Winston Churchill, coperta dalla scritta ‘’Era un razzista’’ e per questo
motivo, in vista di nuove manifestazioni del movimento BLM, è stata
successivamente coperta con un involucro, provvedimento che ha generato forti
attriti anche tra il sindaco londinese Sadiq Khan e il primo ministro inglese
Boris Johnson. Ad Anversa sono state le stesse autorità locali a rimuovere e
portare in un museo locale la statua dell’ex re del Belgio Leopoldo II, esponente
della sanguinosa impresa coloniale ed imperialista in Congo; in Belgio inoltre
si sta proponendo tramite una partecipatissima petizione, accolta anche dalla
maggioranza di governo, di rimuovere tutte le statue dell’ex re, chiedendo
anche un gruppo di lavoro parlamentare‘’per decolonizzare gli spazi pubblici’’.
Tutte queste statue e tutte queste azioni hanno in sé l’eredità storica e la
coscienza politica di un passato che non ridefinisce la propria storia bensì i
significati del presente.
La rilevanza di queste azioni
politiche non si trova in un dibattito univoco che si propone in termini di
statua sì o statua no, Montanelli sì o Montanelli no, come quello che si sta
svolgendo tra le penne di alcuni personaggi pubblici italiani riguardo la
statua di Milano; la discussione che si dovrebbe sottolineare è molto più
importante e tratta un problema molto più ampio, proprio perché ha in sé
questioni e nodi problematici che ragionano sul rapporto tra passato e
presente, sul piano politico e storico: il discorso razzista in Italia, il
rapporto tra colonialismo e postcolonialismo, i temi dell’elaborazione e della
rimozione, l’idea di memoria e la gestione dello spazio pubblico, i simboli e
la ritualizzazione.
In Italia è presente un razzismo
legato alla mancata elaborazione pubblica del proprio passato coloniale. Questo
razzismo si esprime nella continua costruzione di sistemi di potere che
riproducono i significati del suprematismo bianco, nelle prospettive di razza,
di genere e di classe; è un razzismo che si nutre dei privilegi che semina e
dell’esclusione sistemica generata dai dispositivi politici degli ultimi venti
anni (il berlusconismo, il populismo, la crisi dei partiti, la rappresentanza e
le rappresentazioni, la precarietà, le logiche meritocratiche, la povertà, la
mancanza di servizi, i Prima gli italiani! che sono sempre un
prima-io-maschio-bianco): quando lo scorso 12 giugno Mohamed Ben Ali muore
carbonizzato, come tanti braccianti prima di lui, a causa di un incendio
divampato nella baraccopoli di Borgo Mezzanone che ospita, in condizioni
pietose e con il riconoscimento neanche minimo di diritti, migliaia di
braccianti sfruttati; quando le morti nel Mediterraneo continuano perché non
c’è alcuna attenzione, che non sia reazionaria, alle politiche migratorie e ai
diritti sociali; quando lo Ius soli è una battaglia di pochi e una richiesta
che si protrae da anni; quando una delle manifestazioni più partecipate degli
ultimi anni è stata quella di Macerata, in seguito all’attentato da parte di
Luca Traini a sei persone nere; quando la maggioranza di governo non ha
evidentemente alcuna intenzione di combattere davvero per la cancellazione dei
Decreti Sicurezza, che impongono ad oggi condizioni legali e burocratiche di
sottomissione etnica; quando il Corriere della Sera, uno dei maggiori giornali
italiani per numeri e tiratura, sottotitola la pagina dedicata
all’imbrattamento della statua nei giardini di Milano con ‘’L’attacco a
Montanelli e i nostri valori messi a rischio’’ (da chi? Quali valori?); quando
raccontare la verità su ciò che è stato Montanelli – per gli atti e per la
storia uno stupratore e un fascista – e pretendere un riconoscimento pubblico
della giustizia rispetto la storia relativa alla sua figura, viene considerato
un oltraggio da parte di importanti rappresentanti delle istituzioni.
In Italia esiste un grande movimento
antirazzista, trasversale, che si interroga molto, che attraversa le lotte e
che si fa attraversare dalle istanze delle femministe, che però non corrisponde
e non si identifica non solo con le destre ma neanche con il centrosinistra e
le sue politiche. Beppe Sala, due giorni dopo l’azione alla statua di
Montanelli, ha pubblicato un video su Facebook in cui tranquillamente e
aprioristicamente sostiene che ‘’Montanelli è stato di più, è stato un grande
giornalista, è stato un giornalista soprattutto che si è battuto per la libertà
di stampa’’ e ancora ‘’Noi quando giudichiamo le nostre vite, possiamo dire che
la nostra vita è senza macchie, senza cose che non rifaremmo?’’.
Non è l’unico a portare avanti una
tesi simile: il gesto dei collettivi studenteschi è stato condannato anche da
persone non propriamente di destra, omaggiando la memoria di Montanelli in
quanto ‘’grande giornalista’’ e riproponendo la retorica disonesta del ‘’ha
fatto anche cose buone’’. L’opera di Montanelli e la sua persona ci pone di
fronte ad un giudizio inevitabilmente politico quando al termine della sua
vita, nel 2000, racconta, peraltro a partire dalla domanda di una lettrice
diciottenne, sulla sua rubrica La stanza di Montanelli per il Corriere,
quella vicenda in Abissinia e il rapporto con Destà, la sposa dodicenne
(secondo fonti precedenti anche dello stesso Montanelli, ma qui definita
quattordicenne) comprata alla convenuta cifra di 350 lire: ‘’La ragazza si chiamava
Destà e aveva 14 anni: particolare che in tempi recenti mi tirò addosso i
furori di alcuni imbecilli ignari che nei Paesi tropicali a quattordici anni
una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. Faticai molto a
superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi
capelli, e ancora di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era
fin dalla nascita infibulata: il che, oltre ad opporre ai miei desideri una
barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale
intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile’’.
L’articolo termina con un messaggio
alla giovane lettrice: ‘’Spero di non averti scandalizzata. Se l’ho fatto, è
colpa tua’’. Forse bisogna ripetere che questo articolo è del 2000, più di
sessant’anni dopo la guerra dell’Italia in Etiopia e dopo l’esperienza del
giovane Montanelli con la bambina. Siamo posti di fronte ad un giudizio
politico anche quando leggiamo i suoi scritti, quando nel 1936 scrive sul
mensile Civiltà Fascista che ‘’non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la
coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si
fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una
civiltà’’, oppure quando in opere come Il generale Della Rovere mente
raccontando la propria presunta condanna a morte, la fuga dal carcere di San
Vittore e l’approdo in Svizzera nel 1944-1945,falsando invece su tutta la linea
la sua collaborazione con il poliziotto dell’Ovra Luca Ostèria, contro i
partigiani prigionieri proprio a San Vittore e successivamente fucilati. Perché
l’ostilità verso la sua statua, dunque il suo simbolo, viene ancora considerata
oltraggiosa? Quali sono le idee che quella statua sottintende? Come si lega
allo spazio del presente e del passato?
Quando si abbattono le statue non si
sta e non si vuole abbattere la storia bensì si sta combattendo – e ridefinendo
sociologicamente –la monumentalizzazione di quella storia, che a differenza
della storia in sé ha, propone ed impone dei significati molto vivi. Forse mai
come oggi è importante aprire una riflessione pubblica sul nostro passato
coloniale, non solo perché è una questione che riguarda tutte e tutti ma anche
perché rappresenta una base profonda del discorso razzista. Capire la storia,
questa storia, vuol dire anche capire di cosa si sta parlando quando si parla
di vittime e colpevoli, ovvero quando si vittimizza o monumentalizza. Anche
quando in Italia pensiamo alle nere e ai neri delle proteste americane sempre
come vittime si tende a sottrarre la valenza autentica delle loro azioni
politiche nel flusso della storia in favore di un processo di appropriazione
culturale che riproduce quei corpi nella dicotomia colonizzatore-colonizzato,
come quando parliamo di migranti e non facciamo parlare loro.
La mancata elaborazione pubblica e
politica dell’esperienza coloniale ed imperialista dell’Italia tra ‘800 e ‘900
ha consegnato al presente ciò che siamo, in tante piccole fette e processi di
significazione che riflettono lo spazio dei corpi e delle intenzioni.
Ridiscutere la questione della rimozione ci pone all’interno di dinamiche di
responsabilizzazione nella considerazione più ancestrale della nostra
esperienza occidentalocentrica. Tutto questo avviene, poi, in una continua
riproduzione di ciò che non siamo stati, dall’idea del corpo sfruttato
politicamente inanimato della donna all’idea di nazione, a quella di Stato. In
Italia molte autrici e autori hanno raccontato benissimo l’esperienza coloniale
aprendo un punto di critica, come L’Africa in casa o Per una
nazione coloniale, entrambi di Valeria Deplano, oppure Sangue giusto
di Francesca Melandri, Colonia per maschi di Giulietta Stefani, L’Italia
postcoloniale a cura di Cristina Lombardi-Diop e Caterina Romeo, Non
desiderare la terra d’altri di Federico Cresti, Roma negata di
Igiaba Scego o testi più lontani e classici come Tempo di uccidere di
Ennio Flaiano o, ancora, L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli, e molti
altri ancora; queste opere di ricostruzione storiografica non hanno però evitato
l’attuale assenza di una ridefinizione collettiva, e non solo pubblica, di quel
passato, che si ripercuote sullo spazio sociale.
Quelle statue hanno ancora valore?
Quel valore va ritrovato nel simbolismo che deriva dai personaggi rappresentati
e, in questo caso, nel rapporto tra colonia e postcolonia. Quando la statua di
Montanelli viene imbrattata è chiaro che l’agire politico di oggi ha un
significato legato alla memoria del passato. L’eredità coloniale rimossa ha
impedito l’elaborazione di un trauma collettivo, che invece è stato possibile
ad esempio in seguito ai totalitarismi del Novecento. Il sociologo statunitense
Jeffrey Alexander in Trauma: la rappresentazione sociale del
dolore sostiene che ‘’è la costruzione sociale, come discorso pubblico
dominante, che coincide con la formazione della memoria pubblica di quel
trauma’’. Forse è proprio questo il cardine dell’attuale rapporto di una certa
politica e coscienza collettiva con la questione migratoria e idea del
Nordafrica: quella mancata elaborazione si ripercuote su altri corpi. Sono
questi i significati del presente, oltre al continuo storytelling, nel lasciar
parlare il movimento di corpi che sfuggono alle narrazioni. La rabbia di oggi,
e le sue gestualità, ha sempre senso perché si oppone alle conservazioni,
inondando inevitabilmente le dinamiche di sfruttamento e appropriazione
diramate, ad oggi, da una certa genealogia storica. Sezionare ed avere chiari i
processi della memoria – o i processi di risignificazione nel continuum storico
– porta a sviluppare un nuovo rapporto con la storia e con il tema della
rimozione, la quale ha come carattere implicito un’idea di alterità e di un
alone repubblicano che impone una sorta di accordo tacito rispetto l’idea di
civiltà, di civilizzatore e, dunque,di buon italiano. Quest’ultima
è usata come un feticcio che propone ripetutamente lo stesso uomo bianco del
passato tramite una liturgia vittimistica espressa nelle direzioni della
civiltà, fardello di un popolo che non ha elaborato e ripensato non tanto le istanze
quanto lo spirito paternalista di un’impresa imperiale che sembra manifestare
visceralmente ed ovunque i propri sintomi, come una malattia congenita.
Proprio per questi motivi la
retorica del ‘’politicamente corretto’’ viene usata nel dibattito pubblico come
un espediente logico di esclusione politica del presente. Chi abbatte le statue
è stato accusato in questi giorni di oscurantismo ma in realtà è proprio la
ritualizzazione nello spazio pubblico a negare, non sempre ma molto spesso, i
contenuti storici del presente e del passato. Non si tratta di vandalismo, ogni
scritta deve essere politicamente legittimata perché ha senso nel sistema
sociale in cui si muove e nel significato che esprime chi la compie, al di là
quindi delle sterili criminalizzazioni, che quasi tutta (o tutta?) l’attuale
classe dirigente sta compiendo, assolvendo il conflitto che ne deriva e ne
deriverebbe in una critica postcolonialista. Chi erge le statue si trova già
in una posizione di dominio in cui la riscrittura della storia porta con sé
i significati delle immagini e dei simboli che trasporta: la statua di
Montanelli è un simbolo espressione di idee che non sono entrate in conflitto
con le istituzioni che l’hanno voluta e che la vogliono, in quanto presidio
dello stesso retaggio politico e culturale. Le dinamiche di dominio proiettate
nella contemporaneità saranno smantellate solo lasciando spazio alle dominate
ed ai dominati, definiti nella storia e dal loro agire, non dalle nostre
posizioni di privilegio. La statua di Montanelli è già il proprio stesso
significato e risignificarla vuol dire interrogarsi, agire ma anche ascoltare e
scegliere.
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