05 giugno 2020

PAOLO FABBRI MAESTRO 1 e 2


Paolo Fabbri ph ripresa da Il Manifesto 



La scomparsa a 81 anni del grande semiologo italiano che aveva insegnato nelle università di mezzo mondo. Aveva studiato a Parigi con Barthes e Goldmann, diretto il Dams e lavorato a lungo con Umberto Eco. Arte, filosofia, linguaggio, comunicazione. Molti erano i temi che attraversava e di cui era maestro tagliente


Paolo Fabbri, l’infinito camouflage dei segni



 
«I morti non sono morti e non stanno in un distante Altrove; ci sono prossimi, ma abitano il diafano. Come figli o genitori prodighi, sono suscettibili di tornare, pronti o incerti, attraverso una liquida iniziazione di acqua e fuoco, intrisi di luce, suono e colore».
Con Paolo Fabbri avevamo visto insieme Ocean Without a Shore, l’installazione di Bill Viola nella chiesetta di San Gallo a Venezia. Era il 2009 e Fabbri pensava allora alla figlia Alessandra, prematuramente scomparsa. L’opera di Viola lo aveva così colpito da scrivere un saggio – fra i suoi più belli – e dedicarlo proprio a lei, «Alexa» e «Sandrine». Oggi che lui non c’è più, le sue lucide parole sui morti che sono virtualmente vivi risuonano.

I TANTI ALLIEVI che ha avuto, in Italia e nel mondo, sanno che solo fisicamente Fabbri non c’è e che si presenterà in altre forme, da chiaroveggente com’era, a indicarci la via. «Ci segue come guida», era la formula con cui ricordava gli intellettuali conosciuti e che lasciano un segno: Greimas, Barthes, Deleuze, Guattari, Marin, Eco.
Fabbri non è mai stato un presentista, di quelli che corrono dietro alle mode del momento pur di apparire visibili. Ha avuto una sagacia straordinaria nell’indovinare temi – la traduzione, la mischia in battaglia, lo spionaggio, il camouflage, il diafano, la combinatoria artistica, il tatuaggio, la competenza – e nel trovare il giusto modo di studiarli. Ma il pensare e il produrre per lui erano aere perennius, lanciati oltre l’arco della singola esistenza. In questo sta la sua «semiotica», sinonimo di insegnamento: cogliere segni, nelle esperienze sociali e personali che facciamo, e lasciarne. Un progetto di vita collettivo e transgenerazionale di respiro, come ce ne sono pochi oggi. Seminale. Non v’è da stupirsi che fosse così orgoglioso della Ray cat solution, la soluzione escogitata con la chimica Françoise Bastide nel 1981, su commissione della Human Interference Task Force del Department of Energy and Bechtel Corp degli Stati Uniti, per informare le generazioni future della presenza di scorie radioattive. I gatti cambiano colore se esposti a radiazioni e quindi un loro improvviso mutamento è il segnale di luoghi pericolosi da abbandonare e con rifiuti da smaltire. Di recente l’articolo scientifico uscito nella rivista Zeitschrift für Semiotik nel 1984 e che spiegava questa proposta è diventato un documentario diretto da Benjamin Huguet e selezionato al Pariscience 2015-International Science Film Festival. Un laboratorio indipendente a Montreal, brico.bio, sta studiando i comportamenti degli animali ad ambienti inquinati in questo senso.

CON UN’INTENSITÀ straordinaria, Paolo Fabbri si è battuto contro la piattezza del pensiero, invitando dal Centro di Urbino da lui fondato nel 1970 e diretto fino alla fine, a non limitarsi a visioni univoche, a guardare le cose per mezzo dei loro contrari, complementari e contraddittori, rovesciandole e smontandole. «Com’è che non ci avevo pensato prima?» – è la domanda più frequente dopo aver incontrato Fabbri, che ha saputo dissipare le nebbie dei processi sociali, intrattenendosi come interlocutore prezioso e richiestissimo di sociologi, antropologi, filosofi, storici dell’arte, professori e tecnici nel campo delle scienze dure.
La limpidezza, la freschezza e lo charme della sua comunicazione orale lo hanno reso indelebile anche nella memoria dei non addetti ai lavori che, scrivendogli per manifestare il loro interesse, hanno sempre ricevuto da lui risposte pronte e generose. La sua capacità di raccontare, l’acume nel descrivere testi letterari, fotografie, fumetti, film, capi d’abbigliamento, manifesti pubblicitari, restano impressi, perché non li ha mai considerati uno strumento di sfoggio della sua bravura, ma veicoli di trasformazione sensoriale, passionale e cognitiva inventati da uomini per altri uomini, nei modi del discorso diretto, indiretto o «indiretto libero», quello del Fellini che gli piaceva di più.

NON GLI PIACEVA INVECE concludere le ricerche, mettere un punto, esprimere sentenze definitive. Ha trasmesso oralmente più che per iscritto, come i grandi vati. Di qui il soprannome di Abbas Agraphicus del personaggio di Paolo da Rimini ne Il nome della rosa, che Umberto Eco ha costruito ispirandosi a lui. Fabbri però ha pubblicato moltissimo: riedizioni di classici della semiotica (Saussure, Hjelmslev, Greimas, Lotman, Barthes) e di interlocutori privilegiati (Cassirer, Lévi-Strauss, Benveniste, Merleau-Ponty, Foucault, Goodman), utili a rinsaldare la disciplina e a mantenere standard qualitativi alti. Nella semiotica «marcata», di cui è stato il luminare, non c’è posto per sintesi telescopiche, per divagazioni in cui tutto fa poltiglia. La descrizione è il veicolo della comprensione, un microscopio critico e clinico in grado di cogliere tessuti di relazioni nelle opere, dimostrando come esse ci significano e significano le nostre esperienze nel mondo.

VUOL DIRE ALZARSI «sulla punta della propria ignoranza» – diceva spesso – e di fronte all’arte sostare, per lasciare emergere quel che immediatamente non si vede. Questo sguardo lento porta ad assaporare l’opera, a riservarsi dei momenti di distacco che possono dar luogo all’estesia, a scoprire la trascendenza nell’immanenza.
Se un discorso finito in Paolo Fabbri è raro, ciò che ha detto o scritto tornerà altrove, spunterà domani dal mezzo di una nostro discutere, per evolversi, rimodularsi. Il sentimento di riconoscenza per quanto ci ha insegnato è immenso e a Urbino e in molte altre sedi e istituzioni nazionali e internazionali si rafforza il desiderio di tramandarlo, in un progetto da sempre fatto per continuare. Ci segue come guida.
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Ricerche, saggi e «The Ray Cat Solution»
Paolo Fabbri ha insegnato Semiotica in molte università italiane (Roma, Venezia, Bologna, Milano, Firenze, Urbino, Palermo) ed estere (Parigi, San Diego, Los Angeles, Toronto e in Australia, Spagna, Brasile, Argentina, Messico, Lituania, Colombia, Perù). È stato direttore del Centro Internazionale di Scienze Semiotiche «Umberto Eco» (CiSS) dell’università di Urbino Carlo Bo, che ha fondato nel 1970. Dal 1992 al 1996 ha diretto l’Istituto italiano di cultura a Parigi e dal 2004 al 2006 ha presieduto l’Institut de la Pensée Contemporaine, Université de Paris VII D. Diderot. È stato direttore della Fondazione Fellini di Rimini (2011-12) e del Mystfest Cattolica (1996-97), consigliere scientifico del Prix Italia (Rai, 1999-2001), presidente del Festival dei Popoli, Firenze (2001-2004). Fra le sue pubblicazioni, «Tactica de los signos» (1996), «La Svolta Semiotica» (1998); «Elogio di Babele» ( 2000), «Segni del tempo» (2004), «L’Efficacia semiotica. Risposte e repliche» (2017), «Sotto il segno di Federico Fellini» (2019), «Vedere ad arte. Iconico e icastico» (2019). Per il Department of Energy and Bechtel Corp degli Stati Uniti ha sviluppato, con la chimica Françoise Bastide, l’originalissimo progetto The Ray Cats Solution, per informare gli umani del futuro della presenza di scorie radioattive, www.theraycatsolution.com

Da Il Manifesto  del 03.06.2020

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Paolo Fabbri: una guida dietro di noi

 
“Il maestro non è qualcuno che educa, o che informa, ma semmai uno con il quale, accanto al quale e grazie al quale poter proseguire nella ricerca: non tanto insegnare a farla ma percorrere insieme, se pure con ruoli differenziati, le medesime direzioni di lavoro. Da un lato, c’è il sapere imposto per autorità, frequentissimo e del tutto ininteressante. Dall’altro c’è l’idea del fidarsi dell’altro, del grado di affidabilità: che è reciproca: l’allievo deve innanzitutto fidarsi del maestro, ma anche il contrario, il maestro deve saper scegliere di chi fidarsi veramente, e sino a che punto”.

Mi sono risuonate in mente, queste sue parole, adesso che Paolo Fabbri non c’è più. Andato via ieri mattina, nella sua casa di Rimini, dopo una malattia che ha fatto di tutto, sino alla fine, per ignorare. Inutilmente. Queste parole stavano in un’intervista sul ruolo attuale dei maestri, che è apparsa proprio qui su doppiozero esattamente quattro anni fa e che val la pena di rileggere per intero. Paolo non era solo un maestro. Così come non era solo un amico. Era molto di più. Era una guida dietro di noi, come amava ribadire, qualcuno che ci precede per perderci. Da lui in molti abbiamo imparato innanzitutto un’etica intellettuale rigorosa, tanto fedele a un progetto di ricerca (la semiotica strutturale come studio della significazione umana e sociale) quanto curiosa verso tutto ciò che le succede intorno (il vasto campo delle scienze umane novecentesche) e che può aiutarla a crescere meglio, a diffondersi in modo non pedissequo. 

Per Paolo la semiotica non era una disciplina come tante altre, non era un lavoro qualunque, poiché si trattava di un progetto di vita. Un progetto che lo ha accompagnato per la sua intera esistenza. Che lo ha formato interamente e intensamente. E che ha provveduto in mille modi a consolidare e a diffondere. La semiotica, si affannava a ripetere, non studia il linguaggio, entità immaginaria parlata da nessuno, ma il senso, le forme del senso, i modi in cui, cioè, le società umane danno ordine al mondo riflettendocisi dentro: le lingue certo, ma con esse innumerevoli altri sistemi, dalle immagini ai miti, dall’abito alla cucina, dall’architettura ai rituali, dai gesti agli oggetti, dai discorsi dei media ai rumors d’ogni giorno. Il senso sta dappertutto, si insinua nei più minimi dettagli della nostra esperienza, appare dove meno ce lo aspettiamo, si trasforma di continuo, ci indica strade da percorrere e passioni da vivere. È la ragione per cui il semiologo è sempre al lavoro, con curiosità ed entusiasmo, pronto a sorprendersi di ritrovare nei più casuali meandri della vita quotidiana sofisticatissimi dispositivi come, poniamo, l’apparato formale dell’enunciazione o la differenza fra linguaggio figurativo e linguaggio plastico.


Ph Dario Mangano.

Per non dire della narratività, chiave di volta dell’intero edificio semiotico. Così, essere sempre al lavoro è tutt’altro che una dannazione: è piuttosto un’opportunità, una condizione di perenne sollecitazione intellettuale, una straordinaria motivazione esistenziale. A chi usava tenere distinto il lavoro del semiologo dai passatempi della vita privata, Paolo amava domandare: perché falciare il prato? è anche questo un sistema di segni?
Così, andando a memoria (dunque tralasciando chissà quanto), Paolo si è occupato di: comunicazioni di massa, linguaggi abbreviati, discorso politico, comunicazione pubblicitaria, testi scientifici, persuasione retorica, informazione ambientale, segreto, strategie, dissimulazione, spionaggio, guerra, cinema (Fellini soprattutto, ma anche Antonioni, Hitchcock e molti altri), arte contemporanea, poesia d’avanguardia, specchi, pittura olandese, ombre, passioni (ira, vendetta, gelosia…), città e frontiere, simboli clinici, atti linguistici, assemblee desideranti, oggetti criptici, blasoni e araldica, procedure di scoperta scientifica, poemi cavallereschi, ragionamenti figurativi, tarocchi, parabole evangeliche, bugie, profezie, labirinti, video, ecologia, lingue dei segni, pragmatica delle cure mediche, traduzione, camouflage, processi percettivi e produzione artistica, anacronie, immagini scientifiche, fotografia digitale, terrorismo… Andate a curiosare nel suo sito (www.paolofabbri.it), troverete molto altro. Ultimamente s’era fissato coi tatuaggi (“con tanto parlare che si fa di post-umano e virtualità, mai visto tanto corpo”), aveva fatto un’analisi straordinaria della bandiera dell’Unione Europea, stava lavorando sull’Ultima Cena e sulla serialità vecchia e nuova. E chissà quant’altro. 

Se pure autore di alcuni libri importanti (Tacticas de los signos, La svolta semiotica, Elogio di Babele, Segni del tempo, Elogio del conflicto) e di moltissimi saggi, curatore di volumi collettivi (Affettività e sistemi semiotici, Semiotica in nuce, Nel nome del senso, Le avventure di Pinocchio, Voci e rumori, Lo schermo manifesto, La competenza semiotica…) o di saggi altrui (Greimas-Courtés, Thom, Jullien, Coquet, Benveniste, Goodman), traduttore di un certo numero di volumi (Barthes, Dumézil, Greimas), direttore di diverse collane editoriali (Segnature, Teoria della cultura, Insegne, La figura nel tappeto), è noto che la maggior parte del suo pensiero, della sua ricerca, del suo insegnamento, è passata per la comunicazione orale: conferenze, interventi, seminari, lezioni, dibattiti, conversazioni e, molto spesso, interviste. Le principali delle quali sono state raccolte nel volume L’efficacia semiotica (Mimesis 2017), che costituisce un punto di riferimento necessario per comprendere a fondo il personaggio e la sua opera immensa e labirintica.


Ph Dario Mangano.

Leggendole di seguito emerge il disegno di un preciso orizzonte di ricerca – quello della teoria critica dei linguaggi –, con alcuni punti fermi della teoria (strutturalismo, testualità, racconto, enunciazione, passioni, semiosfera), ben precise discipline di riferimento (antropologia, linguistica, teoria della comunicazione, storia dell’arte, critica letteraria, epistemologia), alcuni autori di riferimento (Saussure, Hjelmslev, Lévi-Strauss,  Jakobson, Barthes, Greimas, Foucault, Deleuze, Benveniste, Lotman, Goodman, Thom), molti compagni di strada (Calvino, Lyotard, Baudrillard, Stengers, Latour, Jullien, Marin, Coquet, Calabrese), un certo numero di ossessioni (il futuro della semiotica, il confronto con Eco). Fabbri, come è noto, ha lavorato a lungo fra Italia e Francia e, come dire, si vede: per lui dirigere l’Istituto italiano di cultura di Parigi, alla fine degli anni 80, non è stato lavoro diplomatico ma costruzione di un ponte intellettuale fra due Paesi troppo spesso impermeabili fra loro.

Alla fine dello scorso anno l’editore Sossella aveva raccolto in volume i suoi scritti su Fellini, riminese come lui, dove spicca una straordinaria analisi della celebre scena in cui Casanova balla con l’automa (per Barthes era l’epifania del punctum). Si intitola Sotto il segno di Fellini, ed è imperdibile. Come lo è il recentissimo Vedere ad arte. Iconico e icastico (a cura di Tiziana Migliore, Mimesis), raccolta dei suoi scritti (sono una cinquantina) su artisti contemporanei come Adami, Baruchello, Boltanski, Kosuth, Pistoletto, Pomodoro, Viola. Dovevamo presentarlo nelle prossime settimane.
L’ho sentito l’ultima volta una decina di giorni fa: stavamo progettando un seminario a Urbino sul prefisso “post”, ossessione degli intellettuali di mezzo mondo. Oggi tutto è “post”. Dunque nulla lo è. Quel che serve è il “post-post”, mi diceva scherzando. Oggi però quella battuta mi raggela. L’ironia della vita ne ha cambiato il significato.


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