03 agosto 2015

G. BARBERA SUI GIARDINI MEDITERRANEI


Ischia



Orto Botanico  di Palermo





Utilità e bellezza
di Giuseppe Barbera
Gattopardo, n.7, luglio 2015

Alla voce “giardino”, in un’enciclopedia, si trova una lunga sfilza di qualificazioni che lo definiscono sulla base dello stile che lo ispira. In Sicilia, dove la storia e la natura si sono intrecciate componendo una quantità di paesaggi che non ha pari, si possono visitare giardini all’inglese, alla francese, all’italiana, barocchi, islamici, alpini o rocciosi. Si può anche avere un’idea dei giardini medievali (nei chiostri delle chiese), di quelli alla cinese, dei giardini d’inverno realizzati al chiuso di ampie vetrate, dei giardini dei semplici e di quello in stile gardenesque. Si trovano in città o ad adornare ville aristocratiche e si visitano spinti da curiosità culturale, magari sostenuta da una buona guida. Ma se chiedete a un siciliano che abbia presenti o passate ascendenze campagnole (cioè tutti), siate certi che vi porterà in una campagna di alberi da frutta e di orti. Ai contadini sembra inutile la bellezza dei giardini ornamentali, così pieni di alberi “di bellu vidiri”, un lusso da signori. Per chi non è corrotto dal mal gusto dei giardinetti utili solo a prendere fresco nel villino, un giardino per essere tale deve essere insieme utile e bello. In campagna l’utilità sta prima di tutto nella produzione ed è per questo che gli agrumi, molti dei quali mentre maturano i frutti portano anche fiori, sono gli alberi che più ama. Addirittura nella Sicilia orientale, gli agrumeti un tempo si chiamavano “paradisi” e a Pantelleria basta un solo albero di arancio, chiuso in un alto cilindro di pietre a secco, a fare un giardino.
Un viaggio nel paesaggio siciliano può partire dal luogo dove è nata l’idea di “giardino mediterraneo”, stile difficile a definire (non si trova nell’enciclopedia e non chiedete a un esperto: avrà difficoltà a rispondere) ma presente nell’immaginario del numero sempre crescente di amanti del verde. Bisogna andare ad Alesa, l’antica città sul lungo torrente che taglia i Nebrodi tra Tusa e Pettineo e sbocca nel Mar Tirreno. Halaesa, fondata alla fine del V secolo a.C., fu città di frontiera, di scambio economico e culturale tra siculi, greci, punici e romani ed ebbe, sotto il dominio di questi ultimi, il privilegio di essere tra le cinque città siciliane libere da tasse e autorizzate a eleggere un proprio senato e propri magistrati. Era una concessione che derivava dall’importanza strategica: dall’alto di una collina controllava l’ampio vallone lungo il quale si svolgeva il traffico di frumento, olio e vino che dall’interno della Sicilia, granaio di Roma, portava al porto caricatore. Alesa è oggi un sito archeologico regionale facilmente raggiungibile dall’autostrada; il disegno urbano è ben leggibile tra antiche mura, strade e gradonate lastricate, un’agorà chiusa da un portico con pavimenti di marmo colorato. In un piccolo museo, un tempo frantoio per le olive e palmento per il vino, un’elegante statua di Cerere, la dea delle messi, ricchi corredi e cartelli che raccontano la storia del luogo. Tutto è ordinato e pulito, i custodi gentili e l’ingresso è gratuito, anche se qualche euro sarebbe ben speso. Tra le rovine sono state ritrovate grandi lapidi di marmo che riportano la descrizione, quasi catastale, delle sue campagne. Un secolo fa servirono a trarre alcuni disegni che Emilio Sereni utilizzò per definire nel 1961, nella Storia del paesaggio agrario italiano, l’idea di “giardino mediterraneo”: un paesaggio “frammentato, contorto, sminuzzato”, formato da un “intrico di piccoli appezzamenti …, di vigneti, di frutteti, di orti, non di rado anche di seminativi e di pascoli”, diviso da muriccioli o siepi, costellato di edifici di varia natura tra i quali corre l’intrico di viuzze suburbane incassate tra il biancheggiare dei muri di cinta sormontati dal lucido verde della fronda di arancio”, su un “declivio irrigato da ruscelletti. Con l’arrivo degli agrumi, con le lucenti foglie sempreverdi, con gli squisiti frutti d’oro e di fiamma, il giardino mediterraneo di aranci e limoni assumerà un fascino di paradiso”. Ancora oggi, pur con tutte le modifiche e le semplificazioni che nei secoli hanno apportato un centinaio di generazioni di agricoltori, è il paesaggio della fiumara di Alesa. In alto il bosco di querce da sughero, dove si allevano maiali allo stato brado che si nutrono delle ghiande, si apre in pascoli e seminativi. Sulle pendici in terrazza, alberi di olivo dal tronco gigantesco che si può immaginare siano ancora quelli che, ai tempi romani, erano posti sui confini per segnare le proprietà. Si trovano ancora tracce dell’antica rete di distribuzione dell’acqua e fichi, melograni, peri, pruni, mandorli, in frutteti misti (oggi come allora), a formare siepi e allo stato selvatico. Anche la vite è coltivata.
Un paesaggio lungo il quale lo sguardo si perde e dal mare, dove si enumerano le Eolie, supera le montagne e si perde verso l’interno della Sicilia. Un paesaggio che, come tutti, si è modificato nei secoli, ma ha avuto una brusca accelerazione negli ultimi trent’anni, segnata da due grandi viadotti autostradali che tagliano la collina più prossima al mare. Al piede di uno di essi una scultura di Pietro Consagra (oggi ingabbiata per lavori di restauro) che quando fu costruita suscitò scandalo. L’artista l’aveva intitolata “la materia poteva non esserci”, pensando a ragione che l’arte, se è tale, è sempre capace di misurarsi con le proporzioni e le armonie del paesaggio. Intento che ha dato il via alle istallazioni della Fiumara d’arte di Antonio Presti, la cui visita tra paesi e campagne consente di tenere insieme, in un’esperienza unica, arte contemporanea, paesaggio e archeologia. Non so se anche i due viadotti potevano non esserci e forse per collegare le due estremità siciliane non c’erano alternative. Prezzi che il paesaggio paga alla modernità. Ma oggi che si parla di una superstrada che dovrebbe attraversare l’intera fiumara, da Castel di Tusa a Mistretta, bisognerebbe riflettere se il prezzo vale la pena della fine di un sogno.

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