Liliana Cavani: «Io, il sesso e le tante censure. In Italia aprirei solo scuole». Un'intervista di Giuseppina Manin
«Fosse per me in Italia
farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole... Il bene primario, ma da
noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese è lì che
bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso,
civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri” quelli che
ragionano non con la testa ma con le armi». Liliana Cavani, 86 anni
di battaglie, di cinema e di vita, guarda dritta al futuro. E il
futuro per cui val la pena di esistere e sognare per lei comincia
dalla materia prima per diventare cittadini, l’educazione. «Va
difesa, bisogna ridarle peso e qualità, approfondire la conoscenza
del passato. Altro che tagliare storia e storia dell’arte! E poi,
sostenere gli insegnanti, così vilipesi e sottopagati».
Da come ne parla, a
lei la scuola ha dato molto.
«Non sono stata
un’alunna modello. Ho cominciato male, alle elementari a Carpi,
dove sono nata, finivo spesso in castigo. Tutto è cambiato al liceo,
a Modena. Ottima scuola, professori che mi hanno fatta innamorare di
greco, latino, filosofia. E poi Lettere Antiche a Bologna, avrei
voluto fare archeologia ma non conoscendo il tedesco... Mi laureai in
Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione».
A Carpi è rimasta
sempre legata.
«Tutto è cominciato lì.
I miei genitori si sono separati presto, mio padre è sparito, non
porto neanche il suo cognome. Non l’ho voluto. E la mamma era un
po’ naif, spesso in Liguria per sospetta Tbc, quando tornava a
Carpi mi portava al cinema. Sono cresciuta con i nonni e gli zii, in
modo laico e libertario. La passione per la politica, il gusto per la
ribellione li ho respirati in quella famiglia della Romagna di una
volta, il nonno anarchico e sindacalista, la zia Delfina discriminata
a scuola perché si rifiutava di indossare la divisa del fascio, la
nonna che appoggiava la Resistenza. Ero bimbetta quando vidi in
corridoio una borsa piena d’uva, mi avvicinai per piluccare qualche
acino, scoprendo nascoste sotto i grappoli delle bombe. Intanto in
cucina la nonna stava discutendo con due partigiani, loro volevano
sgozzare due prigionieri tedeschi, lei insisteva per un giusto
processo».
Clima rovente,
aveva paura?
«Ma no! Il paese era
piccolo e diviso in due. Tutti sapevano che noi eravamo contro i
fascisti, tutti sapevano che il nostro vicino di casa era un
fascistone. Eppure mia nonna era molto amica di sua madre, la
difendeva, “non ha colpa se il figlio è uno squadrista” diceva.
I valori erano opposti, si è sfiorata la guerra civile, ma ci si
parlava. Una tolleranza oggi perduta, con così tanta gente piena di
odio, incarognita a difendere il proprio piccolo castello».
Quella visione di
stampo sociale l’ha segnata per sempre?
«Mi ha dato le ali per
volare senza tema. Mio nonno, tra una boccata e l’altra di toscano,
ogni tanto mormorava convinto “Eppur si muove”. Una frase che mi
tornò buona quando girai Galileo. Suggerii a chi lo interpretava di
avere, al momento dell’abiura, quell’espressione di certezza».
«Galileo» girato
nel ‘68, vietato ai 18 anni, mai visto in tv...
«Troppo anticlericale
dicevano allora. E anche dopo visto che né Rai né Mediaset l’hanno
mai mandato in onda».
La sua prima
censura per un eretico. Ma anche il santo Francesco d’Assisi non
ebbe vita facile.
«Non piacque che a
interpretarlo fosse Lou Castel, reduce dai Pugni in tasca di
Bellocchio dove faceva fuori tutta la famiglia. Ci fu
un’interpellanza parlamentale, il patrono d’Italia non poteva
avere quella faccia. Ma io volevo raccontare un ribelle, mica un
santino».
Fu il suo film
d’esordio, come riuscì a realizzarlo?
«Grazie alla Rai di un
tempo. Dopo la laurea ero venuta a Roma, tentai il concorso Rai:
11mila partecipanti per 30 posti. Prova finale sul Wilhelm Meister
di Goethe. Oggi sa di fantascienza, ma anche allora non è che
l’avessero letto tutti. Per caso io sì, comprato su una bancarella
pochi giorni prima, edizione Bur. Passai l’esame. Iniziai con dei
documentari, il Terzo Reich, le Donne della Resistenza... Poi mi
capita in mano un altro libro, la Vita di Francesco di Paul
Sabatier, storico eretico messo all’indice dalla chiesa. Vado da
Angelo Guglielmi, gli dico che voglio farne un film. L’idea gli
piace ma bisognava trovare i soldi. Gli viene in mente un giovane,
Leo Pescarolo: “Mangiamo una pizza con lui”. Pescarolo, simpatico
e pure bello, voleva iniziare la carriera da produttore. Il suo primo
film fu il mio. Partii per l’Umbria, cinepresa a mano, troupe di
7-8 persone, ma con un gigante delle luci come Domizio Ercolani.
Abbiamo girato in povertà davvero francescana. Costo totale 30
milioni».
Soldi ben spesi, il
film andò dritto al festival di Venezia.
«Era il ‘66,
Rossellini vi portava La presa del potere da parte di Luigi XIV.
I critici decisero che il suo e il mio erano i due film più belli
della Mostra. Ci intervistarono insieme come il maestro e l’allieva.
Alloggiavo al Des Bains, mi sentivo chissà chi...».
Trasmesso in due
puntate, Francesco fu visto da oltre 20 milioni di spettatori.
«La prima mini-serie
Rai! Un successo che mi permise di andare avanti nella mia indagine,
di girare un secondo (con Mickey Rourke) e poi un terzo film, sempre
su Francesco. Così avanti nei tempi per il suo amore per la natura,
la sua idea di fraternità, ben più interessante dell’uguaglianza
della sinistra. Non si può essere uguali, ma fratelli sì».
Bollata come
cattolica dai comunisti, estremista dai democristiani, messa al rogo
dai benpensanti per «Il portiere di notte», film-scandalo degli
anni Settanta.
«Non era mia intenzione.
Il tema, una donna scampata a un lager che ritrova il suo aguzzino e
inizia con lui un rapporto sado-maso, era disturbante. Ma lo spunto
era reale. Anni prima una signora della Milano borghese sopravvissuta
a Auschwitz mi aveva confidato di una relazione oscura nata lì, che
le aveva permesso di salvare la vita ma l’aveva lasciata morta
dentro. Il Portiere è nato così. Da quel legame melmoso
vittima-carnefice, metafora di tanti conflitti irrisolti. Dirk
Bogarde e Charlotte Rampling hanno saputo interpretarlo con la
dolorosa ambiguità necessaria. Quando il film uscì in Francia, Le
Nouvel Observateur parlò de Il portiere “della” notte, il
custode delle tenebre che hanno generato fascismo e nazismo.
L’irrazionalità e la paura in cui l’Europa è tuttora immersa».
All’estero si
accesero dibattiti sul nazismo sommerso, in Italia la censura vide il
sesso...
«Fu ritirato tre volte.
Poi vietato ai minori di 18 anni. Quando chiesi a uno della
commissione di censura il perché di quel divieto, mi rispose:
“Perché c’è una scena erotica dove la donna sta sopra l’uomo”.
Restai di stucco. Trovai solo la forza di mormorare: “Beh,
capita”».
Cosa è stato il
cinema per lei?
«Una passione e una
salvezza. Lavorare con una troupe è difficile, ma trovi sempre gente
animata dal desiderio. Il cinema salva dal pessimismo».
Vale anche per il
teatro e la lirica?
«Certo. I meccanismi
sono gli stessi. L’opera mi coinvolge, mi emoziona, ne ho dirette
tante... La Traviata realizzata anni fa per la Scala è
diventata uno spettacolo-simbolo, l’anno prossimo la porteranno in
Giappone per le Olimpiadi».
Il cinema italiano
di oggi?
«Mah, mi pare che si
occupi solo di mafia. Film, serie tv, traboccanti di malavitosi
violenti, volgari... Dicono che è denuncia. A me sembrano solo
pessimi modelli da proporre ai giovani. Sono così contraria a questo
genere di film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho
perdonato a Brando di aver offerto il suo talento al Padrino».
E il cinema
italiano di ieri?
«Il più grande è stato
De Sica. Dovessi salvare un film dall’apocalisse non avrei dubbi,
L’oro di Napoli. Dentro c’è tutta l’Italia. Non ho mai
incontrato De Sica ma amo ogni suo film, li proiettavo al cineclub
che tenevo a Carpi».
Ora i cineclub sono
quasi spariti e i grandi film del passato non li conosce nessuno.
«Andrebbero insegnati a
scuola! Se non hai visto tre De Sica, tre Bergman, tre Fellini, non
puoi dire di amare il cinema. I cineclub spariscono? Fossi sindaco,
li darei da gestire agli anziani. I cinema di quartiere dei nonni per
far scoprire i capolavori del passato ai nipoti».
E lei, quale film
vorrebbe ancora realizzare?
«Le idee sono tante...
Avevo in mente un film sul Bosone di Higgs, le nuove frontiere della
fisica sono più affascinanti di qualsiasi fantascienza. Se il tempo
non esiste non esiste neanche la morte... Non finisce nulla, si
cambia! La nuova fisica è come la fede, ti dà speranza di
continuare a vivere in altri modi... E la speranza è la virtù più
civile che ci sia. Ma questo ai produttori fa sbarrare gli occhi.
Adesso ho pronta una storia dei nostri giorni che riunirà due attori
a me cari, Charlotte Rampling e Mickey Rourke. Ho finito di scrivere
il copione, vediamo se riuscirà a andare in porto».
Corriere della Sera, 8
luglio 2019