09 ottobre 2024

F. JAMESON secondo S. ZIZEK

 




Fredric Jameson, l’ultimo genio del pensiero

Slavoj Žižek

7 ottobre 2024,  TESTO ripreso dalla rivista INTERNAZIONALE

 

Fredric Jameson non è stato solo un gigante intellettuale, l’ultimo vero genio del pensiero contemporaneo. È stato il massimo esempio di marxista occidentale, uno che ha saputo attraversare con coraggio gli opposti che definiscono il nostro spazio ideologico: un eurocentrista la cui opera ha avuto grande risonanza in Giappone e Cina, un comunista che amava Hollywood, soprattutto Hitchcock, e i romanzi gialli, in modo particolare Chandler, un amante di Wagner, Bruckner e del pop. Nei suoi lavori e nella sua vita non c’è assolutamente alcuna traccia della cancel culture, e del suo moralismo severo e falso. Si potrebbe dire che è stato l’ultimo esponente del rinascimento.

Jameson ha combattuto sempre la mancanza di quella che lui definiva cognitive mapping (mappa cognitiva), cioè l’incapacità di situare la nostra esperienza in una totalità dotata di significato. Gli istinti che lo hanno guidato in questa sua battaglia sono sempre stati giusti: per esempio in una simpatica stilettata contro il rifiuto della logica binaria di tendenza nei cultural studies, Jameson invocava “una celebrazione generalizzata dell’opposizione binaria”. Per lui la negazione del binarismo di genere va di pari passi con la negazione del binarismo di classe. Ancora profondamente scosso dalla sua morte, posso solo presentare alcune osservazioni per offrire un assaggio delle sue posizioni.

Oggi i marxisti generalmente rifiutano ogni forma di immediatezza in quanto feticcio che oscura la mediazione sociale. Tuttavia, nel suo capolavoro sul filosofo Theodor W. Adorno, Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica (Manifestolibri 1994), Jameson evidenzia come l’analisi dialettica contenga al suo interno un suo punto di sospensione: nel mezzo di una complessa analisi sulle mediazioni, tutto a un tratto Adorno opera un volgare atto di riduzionismo, interrompendo la finezza dialettica con un’argomentazione semplice, quasi a dire “alla fine, è tutta una questione di lotta di classe”. È così che la lotta di classe funziona all’interno di una totalità sociale: non è la sua “base profonda”, il principio fondamentale che ne media tutti i momenti, ma qualcosa di molto più superficiale, il punto debole dell’analisi infinita e complessa, l’atto di saltare direttamente alla conclusione quando, in un moto di disperazione, alziamo le mani e diciamo: “Ma in fin dei conti, è tutta una questione di lotta di classe!”.

Qui dobbiamo tenere bene a mente che questo difetto nell’analisi è parte della realtà stessa: è il modo in cui la società ritrova una totalità attraverso il suo antagonismo costitutivo. In altre parole, la lotta di classe è una sbrigativa pseudo-totalizzazione a cui ricorrere quando una totalità vera e propria è impossibile, è un tentativo disperato di usare l’antagonismo stesso come principio totalizzante.

Tra molte persone di sinistra oggi è di moda anche liquidare le teorie del complotto come soluzioni facili e false. Tuttavia, anni fa Jameson osservò in modo intelligente che nel capitalismo globale succedono cose che non possono sempre essere spiegate ricorrendo a una qualche anonima logica del capitale: per esempio, oggi sappiamo che il tracollo finanziario del 2008 è stato il risultato di un “complotto” ben ordito da alcuni circoli della finanza. Il vero compito dell’analisi sociale è spiegare in che modo il capitalismo contemporaneo ha aperto lo spazio a questi interventi “cospirativi”.

Modernità alternative

Un’altra intuizione di Jameson che entra in contrasto con la tendenza postcoloniale oggi dominante è il suo rifiuto del concetto di “modernità alternative”, cioè la tesi secondo cui la nostra modernità occidentale liberalcapitalista sarebbe una delle possibili traiettorie verso la modernizzazione, e ne sarebbero dunque possibili altre in grado di evitare i punti morti e l’antagonismo. Ma una volta capito che “modernità” non è altro che un nome in codice per “capitalismo”, è facile vedere che questo genere di relativizzazione storicistica della nostra modernità si fonda sul sogno ideologico di un capitalismo che sia in grado di evitare i suoi antagonismi costitutivi.

“Come possono dunque gli ideologi della ‘modernità’ nel senso corrente fare in modo che si distingua il loro prodotto – la rivoluzione dell’informazione e la modernità globalizzata del libero mercato – dalla vecchia rivoluzione, detestabile, senza trovarsi coinvolti nei seri interrogativi politici, economici e di sistema che il concetto di postmodernità rende inevitabili? La risposta è semplice: si parla di modernità ‘alternative’. Ormai tutti conoscono la formula: questo vuol dire che ci può essere una modernità per tutti che è diversa dal modello standard o egemonico anglosassone. Qualunque elemento che non vi piaccia di quest’ultimo, inclusa la posizione subalterna in cui vi lascia, può essere cancellato dal concetto rassicurante e ‘culturale’ che permette di modellare la vostra modernità in un altro modo, così che ci può essere un tipo latinoamericano, indiano o africano, e così via. […] Ma questo significa non vedere l’altro significato fondamentale della modernità, che in sé è quello del capitalismo diffuso in tutto il mondo” (Una modernità singolare, Sansoni 2003).

La rilevanza di questa critica si estende ben oltre il caso della modernità, riguarda i limiti fondamentali della storicizzazione nominalista. Il ricorso alla moltitudine (“Non esiste una modernità con un’essenza data, esistono modernità multiple, ciascuna non riconducibile alle altre”) è falso, non perché non riconosce un’essenza data, specifica, della modernità, ma perché questa moltiplicazione opera come una negazione dell’antagonismo che è intrinseco al concetto stesso di modernità: la falsità della moltiplicazione risiede nel fatto che svuota il concetto universale di modernità del suo antagonismo, che è parte costitutiva del sistema capitalista, riducendo questo aspetto a caratteristica di una soltanto delle sue sottospecie storiche.

Fascismo e comunismo

Non va dimenticato che la prima metà del ventesimo secolo è già stata segnata da due grandi progetti che si conciliano perfettamente con questa idea di modernità alternativa: fascismo e comunismo. L’idea di fondo del fascismo non era forse quella di una modernità alternativa a quella anglosassone liberalcapitalista, che salvasse il nucleo della modernità capitalista sbarazzandosi della sua distorsione “contingente” ebraico-individualista-affarista? E non è stata forse anche la rapida industrializzazione dell’Unione Sovietica tra la fine degli anni venti e gli anni trenta un tentativo di realizzare una modernizzazione diversa da quella capitalista occidentale?

Una cosa da cui Jameson si è tenuto alla larga come un vampiro dall’aglio è stata la forzatura di voler leggere un’unità profonda tra le diverse forme di protesta. Negli anni ottanta offrì un’acuta descrizione dell’impasse nel dialogo tra la new left occidentale e i dissidenti dell’Europa orientale, dell’assenza di un qualsiasi linguaggio comune tra loro: “In breve, l’oriente vuole parlare in termini di potere e oppressione; l’occidente in termini di cultura e mercificazione. Non ci sono denominatori comuni in questa lotta iniziale per le regole del discorso, e alla fine non resta altro che la commedia inevitabile in cui ogni parte biascica repliche irrilevanti nel suo linguaggio preferito” (The seeds of time, Columbia University Press 1994).

In modo simile, lo scrittore di gialli svedese Henning Mankell è uno straordinario artista di quella che io chiamo “visione di parallasse”. Le prospettive della ricca Ystad in Svezia, dove sono ambientati molti suoi romanzi, e quella di Maputo in Mozambico, dove lo scrittore ha vissuto a lungo, sono irrimediabilmente fuori sincrono, al punto che non c’è alcun linguaggio neutrale che permetta di tradurre l’una nell’altra, e ancor meno di postulare una come la verità dell’altra.

Tutto ciò che si può fare è restare fedeli a questa scissione in quanto tale, prenderne atto. Ogni attenzione esclusiva per i temi del mondo ricco, come l’alienazione capitalista e la mercificazione, la crisi ecologica o i nuovi razzismi e intolleranze, non può che apparire cinica di fronte alla povertà brutale di certi paesi, alla fame e alla violenza; d’altra parte i tentativi di liquidare come banali i problemi del mondo ricco in confronto alle vere catastrofi dei paesi poveri non sono meno falsi: concentrarsi sui cosiddetti problemi reali è l’estrema forma di fuga dalla realtà, un modo di sottrarsi alla necessità di affrontare gli antagonismi della propria società. Il divario che separa le due prospettive è la verità della situazione.

Marx e Chandler

Come tutti i bravi marxisti, nella sua analisi dell’arte Jameson è stato un rigoroso formalista. Una volta a proposito dello scrittore Ernest Hemingway disse che il suo stile scarno (frasi brevi, quasi totale assenza di avverbi, eccetera) non serviva a rappresentare un certo tipo di soggettività (narrativa), l’individuo duro cinico e solitario; al contrario, Hemingway aveva inventato un certo tipo di contenuti narrativi (storie di personaggi inaspriti dalla vita) proprio per poter scrivere un certo tipo di frasi (che era il suo obiettivo primario). Allo stesso modo, nel suo fondamentale saggio Raymond Chandler. L’indagine della totalità (Cronopio 2018), Jameson ha descritto la tipica procedura di Chandler: la formula del racconto poliziesco (l’indagine di un detective che lo porta in contatto con ogni genere di persone) era una cornice che permetteva di inserire nella trama intuizioni sociali e psicologiche, ritratti plastici e osservazioni sulle tragedie della vita. Il paradosso propriamente dialettico da non farsi sfuggire qui è che sarebbe sbagliato dire: “Ma allora perché lo scrittore non ha abbandonato questa forma per darci arte pura?”. Questa critica è vittima di una sorta di illusione prospettica: ignora infatti che, se abbandonassimo la cornice formulare, perderemmo proprio quel contenuto “artistico” che la cornice apparentemente distorce.

Un’altra peculiare impresa di Jameson è stata la sua lettura di Marx attraverso il pensiero dello psichiatra Jacques Lacan: per lui gli antagonismi sociali erano il reale di una società. Ricordo ancora lo shock di quando a una conferenza su Lenin che organizzai a Essen nel 2001, Jameson ci colpì tutti tirando in ballo Lacan per interpretare il sogno di Lev Trockij. Nella notte del 25 giugno 1935 Trockij in esilio sognò Lenin, morto dieci anni prima, che lo interrogava con ansia a proposito della sua malattia: “Rispondevo che avevo già chiesto a diversi medici, e cominciavo a dirgli del mio viaggio a Berlino; ma guardando Lenin mi ricordavo all’improvviso che era morto. Immediatamente cercai di allontanare questo pensiero, in modo da finire la conversazione. Quando ebbi finito di dirgli del mio viaggio di cura a Berlino, nel 1926, volevo aggiungere ‘Fu dopo la vostra morte’; ma mi trattenni e dissi, ‘Dopo che vi siete ammalato…’.

Nella sua interpretazione di questo sogno Lacan si concentra sull’evidente legame con il sogno di Sigmund Freud in cui gli appare il padre, che non sa di essere morto. Cosa vuol dire che Lenin non sa di essere morto? Secondo Jameson ci sono due modi radicalmente opposti di leggere il sogno di Trockij. Secondo una prima lettura, la figura terribilmente ridicola del Lenin non morto “non sa che l’immenso esperimento sociale a cui lui, da solo, ha dato vita (e che noi chiamiamo comunismo sovietico) si è concluso. È ancora pieno di energia, anche se morto, e nemmeno tutti i rimproveri dei vivi – di essere stato l’origine del terrore staliniano, una personalità aggressiva piena di odio, un amante del potere e del totalitarismo, e (quel che è peggio) perfino un promotore della riscoperta del mercato con la nuova politica economica adottata nell’Unione Sovietica degli anni venti –, nemmeno tutti questi insulti riescono a dargli la morte, neppure una seconda morte. Come è possibile che pensi di essere ancora vivo? E qual è la nostra posizione qui – che sarebbe poi, senza dubbio, quella di Trockij nel sogno – qual è la nostra non conoscenza, qual è la morte da cui Lenin ci difende?” (Lenin and revisionism, Duke University Press 2007) . Ma c’è un altro senso in cui Lenin è ancora vivo: è vivo in quanto incarna quella che il filosofo Alain Badiou chiama “l’Idea eterna” dell’emancipazione universale, l’immortale aspirazione alla giustizia che né insulti né catastrofi possono uccidere.

Come me, Jameson era un convinto comunista, anche se al tempo stesso era d’accordo con Lacan, secondo il quale giustizia e uguaglianza si fondano sull’invidia: l’invidia per chi possiede quel che noi non possediamo e se lo gode. Sulla scia di Lacan, Jameson rifiutava completamente l’idea ottimista secondo cui nel comunismo l’invidia sarà relegata al passato, come un residuo della competizione capitalistica, per cedere il posto alla collaborazione solidale e al piacere per il piacere altrui; smontando questo mito, Jameson sottolineava che nel comunismo, proprio perché sarà una società più giusta, invidia e risentimento esploderanno. La soluzione di Jameson qui è radicale fino a rasentare la follia: l’unico modo in cui il comunismo potrà sopravvivere sarà attraverso una qualche forma di servizio sociale psicanalitico universale che permetta agli individui di eludere la trappola autodistruttiva dell’invidia.

Un’altra indicazione sul modo in cui Jameson intendeva il comunismo si trova nella sua lettura della storia di Franz Kafka su Josefine, il topo-cantante. La considerava un’utopia sociopolitica, la visione di Kafka di una società comunista radicalmente ugualitaria. Solo che Kafka, per il quale gli esseri umani erano irrimediabilmente segnati dalla colpa del super-io, riusciva a immaginare una società ugualitaria solo tra gli animali. Qui bisogna resistere alla tentazione di proiettare una qualche tragedia sulla scomparsa finale di Josefine e la sua morte: il testo chiarisce che, dopo la sua morte, Josefine “si perderà felicemente nell’incommensurabile moltitudine degli eroi del nostro popolo” (il corsivo è mio).

Nel suo ultimo saggio lungo, Risentimento sociale. Sulle alternative al capitalismo globale (Meltemi 2023), Jameson ha scandalizzato anche molti dei suoi seguaci proponendo l’esercito come modello di una società postcapitalista futura: non un esercito rivoluzionario, ma l’esercito nella sua funzione inerte e burocratica in tempi di pace. Jameson parte da una battuta risalente all’epoca del generale e presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower, quando si scherzava sul fatto che se un cittadino voleva l’assistenza sanitaria pubblica non doveva far altro che entrare nell’esercito. La tesi di Jameson è che l’esercito potrebbe svolgere questo ruolo proprio perché è organizzato in modo non-democratico e non trasparente (gli alti generali non sono eletti, e così via…).

Per la teologia vale lo stesso che per il comunismo. Pur essendo stato uno strenuo materialista, Jameson ha spesso usato nozioni di teologia per gettare nuova luce su alcuni concetti marxisti. Per esempio, sosteneva che la predestinazione è il concetto teologico più interessante per il marxismo: la predestinazione indica la causalità retroattiva che caratterizza un processo storico propriamente dialettico. Un altro nesso insospettabile con la teologia forniva a Jameson lo spunto per affermare che in un processo rivoluzionario la violenza gioca un ruolo simile a quello della ricchezza nella legittimazione protestante del capitalismo: anche se non ha un suo valore intrinseco (e perciò non bisogna farne un feticcio ed esaltarla in sé e per sé, come succede nel fascismo), la violenza è un sintomo dell’autenticità dell’iniziativa rivoluzionaria. Quando il nemico resiste e ci sfida in un conflitto violento, questo vuol dire che abbiamo efficacemente toccato un nervo scoperto.

Forse la più acuta interpretazione teologica in Jameson può trovarsi nel suo saggio semisconosciuto Saint Augustine as a social democrat (Sant’Agostino socialdemocratico). Nel saggio sosteneva che la più celebre acquisizione di Agostino, la sua invenzione della profondità psicologica della personalità del credente, con tutta la complessità dei suoi dubbi e delle sue angosce interiori, è strettamente correlata, anzi è l’altra faccia della legittimazione del cristianesimo in quanto religione di stato, pienamente compatibile con la cancellazione delle ultime tracce di politica radicale dall’edificio della cristianità. Lo stesso può dirsi, tra gli altri, per i transfughi anticomunisti della guerra fredda: solitamente alla loro svolta contro il comunismo si accompagnava anche la svolta verso una certa forma di freudismo, la scoperta della complessità psicologica della vita individuale.

Un’altra categoria introdotta da Jameson è quella del “mediatore che svanisce”, un mediatore tra il vecchio e il nuovo. Il “mediatore che svanisce” indica un elemento caratteristico nel passaggio dal vecchio ordine a uno nuovo: quando il vecchio ordine si disintegra, si manifestano cose inaspettate, non solo gli orrori di cui parlava Antonio Gramsci, ma anche luminosi progetti e pratiche utopiche. Una volta che il nuovo ordine si è assestato, una nuova narrazione emerge e, all’interno di questo nuovo spazio ideologico, il mediatore scompare alla vista. Basta guardare al passaggio dal socialismo al capitalismo in Europa dell’est. Quando negli anni ottanta le persone protestavano contro i regimi comunisti, la maggior parte di loro non pensava al capitalismo. Voleva sicurezza sociale, solidarietà, una forma approssimativa di giustizia; quelle persone aspiravano a vivere libere dal controllo statale, di riunirsi e parlare come preferivano; volevano una vita di semplice onestà e genuinità, liberata da un indottrinamento ideologico primitivo e dalla cinica ipocrisia dominante. In sostanza, i vaghi ideali che guidavano quei dissidenti erano, in larga misura, presi dalla stessa ideologia socialista. E, come abbiamo imparato da Freud, ciò che è represso prima o poi ritorna in forma distorta. In Europa il socialismo represso nell’immaginario dissidente è tornato sotto forma di populismo di destra.

Molte delle formulazioni di Jameson sono diventate dei memi, come l’idea che il postmodernismo sia la logica culturale del tardo capitalismo. Un altro di questi memi è una sua vecchia battuta (a volte attribuita a me), oggi più che mai attuale: ci riesce più facile immaginare una catastrofe totale sulla Terra capace di mettere fine a ogni forma vita che un reale cambiamento nei rapporti capitalisti; come se, anche dopo un cataclisma globale, il capitalismo in qualche modo potesse continuare a vivere. E se applicassimo questa stessa logica anche a Jameson? È più facile immaginare la fine del capitalismo che la morte di Jameson.

 

 


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