10 ottobre 2024

LA POESIA SECONDO VALERIO MAGRELLI

 



Il Questionario poetico di Gisella Blanco per Il Talento di Roma 

In questa rubrica, poniamo ai poeti romani o che risiedono o transitano spesso nella Capitale, due tra le domande più emblematiche tratte dallo storico saggio Il pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli che, dal 1975, per ben tre edizioni, pone ai poeti i doverosi interrogativi sul linguaggio letterario, nonché sul presente e sul futuro della poesia italiana. Dal confronto e dall’intersezione delle risposte potrà emergere la possibilità di fare un quadro, seppur non esaustivo ma almeno verosimile, dello stato dell’arte poetica contemporanea e dell’annosa questione dell’industria della cultura di oggi.


  • Hai idee generali organizzate in ipotesi (e tesi) teoriche intorno allo scrivere poesia in generale e allo scriverla oggi?

 

Valerio Magrelli: Mettere un chiodo nella presa elettrica: questo, per me, significa affrontare la questione della “poetica”. Tanto vale prenderne atto: scrivere di poetica per me non è possibile, poiché non posso sapere in anticipo dove va la mia scrittura – ne scrivo appunto per scoprirlo, come provai a spiegare nella voce Gnarus dell’abbecedario Che cos’è la poesia? (libro e cd, Sossella 2005, Giunti 2013): [Gnarus] è una parola latina che, confesso, non avevo mai sentito, prima di scrivere questo abecedario. Ne utilizziamo spesso la negazione, ovvero l’aggettivo “ignaro”. Ma proviamo a vederla da vicino. Il termine significa “ben informato”, “esperto”, “pratico di”, e deriva dalla radice indoeuropea gna, che sta per “conoscere”. Ad essa è correlato un vocabolo come “gnoseologia”, ma anche termini quali “narratore” e “narrazione”. Dunque, secondo il suo etimo, il narratore è colui che sa, cioè che conosce la storia da narrare. Ora, se questo è vero per chi guida il racconto, sarà lo stesso anche per chi compone versi? Altrimenti detto: che cosa sa il poeta della sua poesia? Insomma, conosce davvero ciò che scrive? Dobbiamo considerarlo gnarus o ignarus? E ancora: siamo poi veramente sicuri che oggi il narratore sia ancora così informato come un tempo sui fatti da narrare?

Mi piacerebbe affidare la risposta a un romanziere, Giuseppe Pontiggia: “Io non metto il messaggio nel testo, ma glielo chiedo. È da lui che lo aspetto, per scoprire ciò che non sapevo di sapere”. I nostri dubbi trovano conferma. Se il narratore stesso è diventato, almeno in parte, ignaro, figuriamoci il poeta…

Come uscire da un tale labirinto? Forse il modo più semplice consiste nel capire che l’opera non va considerata come un oggetto dominato dall’autore, bensì come un processo che trasforma l’autore medesimo. Chi scrive versi, infatti, non lo fa per trasmettere un dispaccio, bensì per cercare qualcosa che non potrebbe mai trovare altrove.

 

Riprendendo la mia testimonianza personale, confesso che di solito mi limito a commentare le mie poesie nelle letture, anzi, accetto di intervenire in pubblico proprio per poter esaminare quei versi “ex post”, improvvisando e prendendo appunti nel corso delle conferenze. Già su questo dettaglio, a ben vedere, ci sarebbe molto da dire. Io tendo a preparare una scaletta, un canovaccio, su cui eseguire variazioni (cadenze, modulazioni, svisate). Il risultato è che le mie note vengono stilate mentre parlo, o dopo aver parlato, quasi mai prima. Questa è la ragione per cui ho sempre detestato il sistema del power-point, ossia quel tipo di relazione che richiede una rigorosa pre-disposizione del materiale iconografico. Viceversa, la mia esperienza di docente è stata rivoluzionata dall’arrivo della rete, che consente aperture improvvise, ricerche estemporanee e spesso inattese per l’insegnante stesso.

Insomma, sono arrivato alla conclusione che il mio motore mentale, come la mia poetica, funziona “a trazione posteriore”. Per questo motivo, scrivere di poetica mi risulta inconcepibile: ritengo anzi che un atto del genere rappresenti il frutto avvelenato dell’avanguardia, e in particolare del dadaismo, un movimento di cui cominciai a occuparmi oltre trent’anni fa (Profilo del dada, Lucarini 1990, Laterza 2006). Ogni manifesto pre-scrive, mentre io posso soltanto produrre post-scritti, ovvero una sterminata serie di addenda (rinvio su questo tema alle acute pagine in cui Michel Jarrety definisce l’intera opera di Paul Valéry come un unico, lungo post-scriptum). Se proprio dovessi capitolare, preferirei allora optare per una “post-poetica”, così come nel cinema si parla di post-produzione.

Ho provato a riassumere tante diverse impressioni, in una poesia tratta da Il sangue amaro e ispirata a una splendida riflessione di Isabelle Stengers (co-autrice, insieme al premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine, del saggio La nuova alleanza). La storica della scienza rifletteva sul fatto che le cavie, in biologia, sono molto diverse dagli oggetti degli esperimenti in fisica. In pratica, Galileo non poteva certo “affezionarsi” alla palla di piombo che gli servì per dimostrare la rotazione della terra. Del pari, uno scienziato di oggi probabilmente non desidererà portarsi a casa il bosone che sta studiando, mentre uno zoologo si legherà alla scimmia su cui lavora, e magari vorrebbe tenerla con sé. Ebbene, ritengo che il poeta, nei riguardi delle poesie che va elaborando, sia un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e animata:

 

Cave cavie!

 

O forse sono cavie,

queste poesie che scrivo,

per qualche esperimento concepite,

che tuttavia non so.

 

Non so perché si formano,

eppure mi affeziono e le chiamo per nome,

topolini vivissimi, allarmati

da che?

 

 

  • Che cosa sono per te il pubblico, il mercato culturale e l’industria editoriale (nel presente quesito vengono unite due distinte domande del questionario, nda)?

 

Valerio Magrelli: Sono tre cose che in poesia esistono a malapena, per l’irrisorio numero di vendite e per la caratteristica di questo linguaggio, che si segnala per la sua complessità. La poesia sta agli antipodi della canzone d’autore: là tutto è dopato dalla musica, qua, spoglia di ogni droga sonora, rimane la parola “in purezza”, come si dice di certi vini. Io amo le letture pubbliche, specie nelle scuole dove i docenti (veri eroi intellettuali del nostro tempo) hanno già arato il terreno della pagina.

Mercato culturale e industria editoriale possono fare cose buone, anche se spesso ne fanno di pessime.

 

In questa parte dell’intervista, approfondiamo il rapporto dei poeti con la letteratura e il territorio.

 

  • Quali sono tre titoli fondamentali, tra narrativa, poesia, saggistica o altro, per il tuo percorso da poeta?

 

Valerio Magrelli: Narrativa: tra mille titoli possibile indico l’opera di un cileno vissuto in Messico e finito a Barcellona – Roberto Bolaño, Detective selvaggi. C’è una corrente vitale irresistibile che mi ha catturato all’istante, e poi è morto appena nel 2003!

Poesia: le poesie di Osip Mandel’štam, vittima dei Gulag staliniani. Leggerle fu un incontro traumatico, un urto, uno choc.

Saggistica: il padre di questo genere letterario, il suo inventore nella Francia della seconda metà del Cinquecento, tra guerre religiose di orrenda violenza. È un cardine della cultura umana, i Saggi di Montaigne.

 

 

  • Che relazione ha la tua scrittura con Roma?

 

Valerio Magrelli: Un nome solo: Giuseppe Gioachino Belli. A metà dell’Ottocento, questo poeta è all’altezza di Foscolo, Leopardi, Porta, il che vuol dire Baudelaire, Keats, Hölderlin. Esagero? Non credo, visto che un grandissimo traduttore dell’autore tedesco fu Giorgio Vigolo, poeta in proprio e sommo commentatore di Belli. Belli è osceno e sacro, turpe e creaturale, ironico e tragico. Non per niente ha provato a tradurlo il romanziere della crudeltà assoluta, l’Anthony Burgess di Arancia meccanica.

 

Pezzo tratto da:  https://www.iltalentodiroma.com/2024/10/09/valerio-magrelli-apre-il-questionario-poetico/

 


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