SCIASCIA IN SICILIA: L' ESILIO DALL'INTERNO
di Sandro Abruzzese
Questo scritto non riguarda il pur riuscito film di Roberto Andò, La stranezza, una prova felice di qualche tempo fa che tratta della vicenda poetica di Luigi Pirandello. Ma nasce dalla dedica che il film reca con sé, indirizzata a Leonardo Sciascia, la quale come una madeleine ci riporta a una serie di considerazioni che hanno per oggetto la Sicilia di Sciascia e l’Italia.
Quest’ultimo più volte ha sottolineato il debito di Pirandello verso Girgenti e i suoi abitanti. Nel farlo riprendeva un’intuizione di Antonio Gramsci che sconfessava la visione intellettualistica di Adriano Tilgher sul contrasto tra vita e forma. I tipi di Pirandello vengono, sosteneva Gramsci, dall’intensa conoscenza e osservazione della realtà siciliana, e Sciascia concorda. Forse è questa la ragione della dedica del regista Andò all’autore delle Parrocchie di Regalpreta?
Sciascia e il paese
Comunque sia, accade con Sciascia, e sbaglia a stupirsene Matteo Collura nella sua biografia del siciliano, che dalla piccola comunità di un remoto paese della Sicilia interna egli riesca come pochi a parlarci del mondo.
A riguardo, sulle tracce di Adorno, sono convinto che invece è solo dal fragile, dalla contro-condotta, dall’imperfetto e non omologabile, – e dall’intreccio con ciò che omologato è – che si offre la comprensione di un paese moderno, e a maggior ragione di un paese così diverso tra le sue parti come il nostro. Dunque, è dai margini, o da territori inespressi (dalla Luzzara di Zavattini, dall’altipiano di Rigoni Stern, dalla Cerreto di Silvio D’Arzo, dalle paludi della Viganò), che si può fornire la prospettiva che manca al mondo urbano per comprendere appieno la realtà.
Sull’argomento, lo stesso scrittore di Racalmuto, interrogandosi sul rapporto tra centri e periferie, chiarisce che cosa sia per lui il provincialismo: “il serrarsi nella provincia con appagamento, con soddisfazione, considerandone impareggiabili e inamovibili i modi di essere, le regole, i comportamenti; e senza mai guardare a quel che fuori della provincia accade, (…) A Roma, a Milano, a Parigi (…) si può essere tanto più provinciali che in un paese della Sardegna, della Sicilia, del Friuli”.
Sciascia dedica alla Sicilia profondo studio e tantissimi scritti, riportando tra l’altro alla mente la medesima attitudine di autori pur diversi, e apparentemente lontani, come Ernesto Sabato e Jorge Luis Borges nei riguardi di Buenos Aires e dell’Argentina. L’Evaristo Carriego di Borges, per esempio, scritto nel ’30, è un’indagine serrata sulla tradizione popolare argentina, sui suoi rapporti di classe, sulla guapperia, tale da far pensare a un illustre precedente delle ricognizioni storiche del racalmutese. Come Borges in Argentina cerca l’Europa primigenia e l’incontro-scontro con gli indigeni, ovvero le origini, così Sciascia fa con la Sicilia andando alla radice della sicilianità.
In questa attitudine egli, stretto tra mito e storia, è attratto dai temi manzoniani della giustizia e della libertà, del potere e della verità, (o forse dovremmo dire che è afflitto dall’idea dell’impossibilità della giustizia e della verità, antitetici rispetto a ogni forma di potere). Come ha scritto Ambroise, per Sciascia la letteratura è “possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur restando in Sicilia: l’esilio dall’interno”.
La sua riflessione si dipana dunque a partire dal paese natale: la Regalpreta letteraria. A riguardo, a Claude Ambroise che lo intervista, egli stesso ricorda: “Ma io credo che tutto quello che per un uomo conta, tutto quello che lo ha fatto com’è, accade nei primi dieci anni di vita: e dunque fatti più piccoli, persone di più piccolo affare. Magari dimenticati”.
Racalmuto viene descritta con spietata lucidità, senza edulcoranti né amnesie, tratteggiando le fattezze di un paese povero, di migrazioni e ingiustizie, di accesi contrasti di classe, e soprattutto di mafia.
Lo scrittore, con un credo nella possibilità di indagine della parola in quanto strumento volto a penetrare le maglie strette della metafisica del potere e della religione, porta alla luce la sua verità sul paese.
Bastino qui due ulteriori cenni a Racalmuto, definito paese di case umide in inverno e torride in estate, lontano dalla ragione e afflitto da miseria e superstizione, “in cui i giorni di festa sono ancor più rissosi e assoluti”. Ebbene, in questo humus, solo la fortuna, sottolinea consapevolmente Sciascia, ha decretato che egli leggesse il mondo attraverso i libri e invece altri carusi come lui servissero a vita sotto padrone.
Inoltre Racalmuto “è un paese di mafia. Una mafia più di atteggiamenti che di fatti; benché i fatti, anche se rari, non si può dire manchino, e nella specie di morti ammazzati”. O, come ricorda nell’incipit di Occhio di capra, un paese “isola nell’isola”, un’isola-paese di silenzi e omertà, prudenze e povertà.
Altrove egli dirà che “è la vita nei paesi, il sentirsi costantemente riflesso e giudicato negli altri, che dà al siciliano quella spietata voglia di frugarsi dentro, di ridurre la propria anima a un solitario, morboso e diabolico passatempo”.
Diversità siciliana
Eppure leggendo l’autore del Giorno della civetta a distanza di decenni, in un mondo occidentale sempre più omologato ed etero-diretto da processi e configurazione tecnologiche monopolistiche, si fa strada il sospetto che gli intellettuali siciliani abbiano speso troppo tempo nella ricerca e definizione della diversità isolana. Senza voler negare i caratteri originali regionali, evidenzio che personalmente, da irpino di un paese rurale (che per vicende familiari ha avuto modo di vivere il crepuscolo della civiltà contadina) buona parte di ciò che Sciascia racconta come sicilitudine risulta simile al vissuto del resto del sud Italia rurale continentale: l’es collettivo durante le festività, il cattolicesimo spagnolesco, la guapperia, la famigerata invidia, onore, rispettabilità, vendetta. Intendiamoci, le differenze esistono, ma sono di gran lunga meno significative rispetto alla grande omogeneità e consonanza.
Anche le dichiarazioni di Pirandello sull’insicurezza e sulla natura chiusa dei siciliani si attagliano al mondo contadino appenninico in generale, basti pensare alla descrizione che Leonardo Sinisgalli, nativo di Montemurro, fornisce nel brano I lucani: “Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra. Dove arriva fa il nido, non mette in subbuglio il vicinato con le minacce e neppure i municipi o le rivendicazioni. È di poche parole. (…) Quando lavora non parla, non canta. Non si capisce dove mai abbia attinto tanta pazienza, tanta sopportazione”.
La ricerca della diversità è pericolosa perché può fungere da alibi sia all’interno di questa regione probabilmente troppo autonoma, come scriveva Consolo, sia perché alimenta il vizio municipale del razzismo antropologico italico, stretto com’è tra ecumenismo cattolico e sciovinismo.
E però è vero che in Sicilia, anche solo per via di questa lontananza, tutto è ammantato di una certa recrudescenza: la questione sociale, la persistente emigrazione, la mafia rurale e poi urbana, l’abbandono e lo spopolamento, le condizioni dei centri storici e del patrimonio immobiliare. Vero è pure che la tradizionale diversità della Sicilia veniva riconosciuta fin dal tempo dei romani che la relegavano a prima provincia del nascente impero; e che le divisioni riguardavano svariati popoli che la abitavano, al punto che l’apertura della corte multiculturale di Federico II risultò l’unico modo per tentare di tenere insieme le sue varie anime, e molti, dopo di lui, falliranno nel cercare di controllarla (I Savoia nel ‘700 preferiranno scambiarla con la Sardegna).
C’è poi, è sempre Sciascia a insistervi, la Sicilia catanese e orientale delle province “babbe” (fesse, perché tradizionalmente prive di organizzazioni mafiose), dove gli arabi non attecchirono profondamente; quella araba di Val di Mazara, dove al contrario gli islamici dominarono per secoli.
Se la cultura greca nella parte orientale produsse la separazione della tragedia dalla commedia, quella araba, a cui tra l’altro si ispirerebbe Pirandello, vive nel rapporto dialettico tra tragico e comico, ricorda lo scrittore. Il quale è convinto che in definitiva la particolarità siciliana derivi dal sicilianismo: un complesso di privilegi accordati al blocco agrario dominante e alla borghesia mafiosa, ai vescovi, fin dalla Apostolica legazia, una tradizione di autonomia che renderà appetibile il gattopardismo della nuova Italia e la pratica clientelare trasformistica in funzione del dominio locale, attraverso l’uso strumentale del nuovo Parlamento italiano.
A completare il quadro, il conflitto che vede le fazioni popolari dei paesi siciliani insorgere ogniqualvolta ci sia l’occasione del riscatto e della vendetta contro l’odiato padrone: confuse istanze di ribellione fanno della Sicilia la polveriera del ’48, della spedizione dei Mille, un luogo dove protesta collettiva e particolare spesso si fondono fino a diventare indistinguibili. Una ribellione volta a volta strumentalizzata dai reazionari, che poggia su contrasti anche pre-politici e si alimenta del politico, da Garibaldi a Giolitti, dai liberali al fascismo, dai democristiani ai socialisti e comunisti.
La Sicilia risulta quindi l’isola-paradigma della disomogeneità italiana. La sua storia riottosa produce, per contrasto e fermentazione, tra i più importanti protagonisti della storia d’Italia e grandissimi autori della letteratura italiana. Così, dalla stagione del verismo al meraviglioso affresco dei Viceré di De Roberto, a cui molto deve il best seller successivo Il Gattopardo, passando per Quasimodo, Brancati e Pirandello, o per Consolo (si pensi al Sorriso dell’ignoto marinaio), Bufalino, Buttitta, D’Arrigo, e ovviamente per il nostro Sciascia, riusciamo a seguire le fasi più importanti del discorso culturale sulla nazione.
Bronte
Dobbiamo per esempio a Giovanni Verga, che si colloca sapientemente tra moderno e premoderno (anche se risultano più felici le novelle rispetto ai romanzi), la narrazione dei problemi dell’Italia post-unitaria e la conseguente delusione delle classi subalterne. Il monarchico catanese, nella novella Libertà, ci racconta la sua versione crispina dei fatti di Bronte. La novella è poi oggetto di una vera e propria indagine filologica da parte di Sciascia che ne ricostruisce pazientemente (Verga e la libertà) le dinamiche e lo sfondo fatto di terribili condizioni degli abitanti, vessati da usurai, tasse, contravvenzioni, pignoramenti.
Bixio, come sappiamo, nella repressione seguita alla ribellione rispose con sollecitudine e efferatezza per compiacere il console inglese che difendeva le terre donate all’ammiraglio Nelson dai Borbone. Ne conseguì la fucilazione, tra gli altri, dell’avvocato Lombardo, noto liberale, nemico storico della fazione ducale.
Denigrare gli abitanti di Bronte per salvare la reputazione garibaldina spinge Verga, questa la tesi di Sciascia, a inserire tra le esecuzioni sommarie la presenza di un nano in luogo del pazzo del paese che, secondo le fonti, Bixio fece fucilare dopo averlo catturato mentre vagava per il paese con in testa un fazzoletto tricolore. La minorazione fisica veniva a essere meno grave di quella mentale, ecco il sospetto di un occultamento che tentava di mitigare l’efferatezza. L’inesorabile e laconica conclusione di Sciascia è che “Con tutto il rispetto per Bixio: nasceva così il vero italiano e l’onesto sentire italiano di cui abbiamo poi visto nel fascismo più perfetti esemplari ed effetti” (Pirandello e la Sicilia).
Questioni sociali
Sempre a Catania, grazie a Vitaliano Brancati, fondamentale per la formazione di Sciascia alla Scuola magistrale di Caltanissetta, sappiamo cos’è la borghesia fascista etnea: una realtà intrisa di gallismo e dabbenaggine, in un sostanziale degrado civile nel passaggio dall’Italia liberale alla dittatura. Il gallismo è, nel Bell’Antonio, metafora dell’insicurezza del siciliano, ma soprattutto della terribile mediocrità del fascismo, e – ricorderà Sciascia – metafora “del dispotismo, della corruzione, della cortigianeria” di una non-società.
Nel romanzo, Brancati, per mezzo del personaggio borghese dello zio Ermenegildo, con un ritmo incalzante e cinematografico, chiosa: “Credi a me: siamo antipatici, siamo stupidi, siamo viziati, e ci annoiamo. Non si può continuare sino alla fine dei tempi coi ricchi da una parte e i poveri dall’altra!”, e alla notizia della nomina di un buono a nulla in qualità di federale di Catania: “Dio, Dio, Dio! Una città che avuto De Felice, Macchi, Verga, Bellini, Angelo Musco, Giovanni Grasso, Capuana, il mio amico De Roberto, si riduce così, sotto i piedi di un Lorenzino Calderara (…) una bestia col pelo sul cervello, al quale gli amici sono riusciti a far credere che nelle farmacie si vendevano i guanti di ferro?”.
La spiegazione irrazionalista di Brancati trova il suo contraltare razionale in uno dei brani più significativi de Gli zii di Sicilia: “pensa alla Sicilia degli zolfatari, dei contadini che vanno a giornata (…) E se i contadini e zolfatari un bel giorno ammazzano il podestà e il segretario del fascio don Giuseppe Catalanotto, che è il padrone della solfara, e il principe di Castro, che è padrone del feudo; se questo succede al mio paese, e se il tuo paese comincia a muoversi, e se in tutti i paesi della Sicilia comincia a soffiare un vento simile, sai che succede?”.
L’amara risposta di Sciascia nel libro è che avverrebbe una nuova contro-rivoluzione sul modello della Comune di Parigi o della guerra civile spagnola, gli italiani del continente verrebbero ad aiutare il notabilato agrario. Per aiuto s’intende la carneficina del proletariato siciliano.
Come vediamo, non c’è Sicilia senza questione sociale. Il suo continuo ritorno nella nostra disamina sembra dire che il lievito dei siciliani proviene dalla violenza di un conflitto latente, generato dall’infinito feudalesimo delle classi dirigenti intrecciate con la mafia rurale, e poi urbana, che diverrà tecnologica e globalizzata. L’ingiustizia è l’elemento dialettico che genera a sua volta grandi risposte. Ed è proprio qui che si annidano le ragioni del successo commerciale di Sciascia, il quale diventa intellettuale noto non tanto per l’indagine di tipo verghiano sul rapporto tra moderno e premoderno (tema che all’Italia urbanizzata e all’industria culturale del post boom economico non interessa, sia per volontà di rimozione, che per via di una separazione culturale ormai in atto, dovuta alle diverse necessità storiche delle due Italie, trauma e separazione tra l’altro tuttora vigenti); quanto per il suo mescolare due elementi di grande interesse per la civiltà urbana: il romanzo poliziesco (si ricordi il saggio di Kracauer) e la spiegazione del fenomeno mafioso. Il successo gli consentirà la visibilità e la libertà per raccontare poi dalla Sicilia il trasformismo, il terrorismo, il rapporto del potere con lo stato, il ruolo del cattolicesimo nella storia nazionale, e via dicendo.
Insieme al metodo, allo storicismo condito con gli idéologues dell’illuminismo, l’essere intellettuale di estrazione popolare in uno dei paesi più remoti della Sicilia interna fornisce la prospettiva particolare per leggere le disfunzioni del paese. Ma dai margini, Sciascia, e qui la grandezza non tanto del romanziere quanto dell’intellettuale e dello scrittore, riesce come pochi altri ad arrivare al cuore delle vicende dello stato.
In questo contesto egli intuisce pure che qualsiasi potere privo di princìpi non è altro che mafia. Dunque che, in qualche modo, meridionali si diventa in un rapporto storico di soggezione: la metafora della linea della palma non è altro che la predizione che, in un regime di interdipendenze socio-economiche come il nostro, lo squilibrio avrebbe finito prima o dopo per travolgere anche il resto del paese. I fatti non potevano che dargli ragione.
Non solo mafia
Oggi, mentre solo strumentalmente si sventola il feticcio del Ponte sullo Stretto, quando in realtà – come attestano gli osservatori dei conti pubblici (per esempio Svimez) – molte delle risorse destinate al Meridione vengono distratte verso altre latitudini, ebbene capita di imbattersi in situazioni che danno ancora la percezione di un isolamento voluto dalla classe dirigente locale, volto alla riduzione al bisogno della popolazione: le autostrade che finiscono nel nulla come tra Siracusa e Ragusa, la mancanza di acqua potabile, l’assenza di zone industriali nel Belice o nel trapanese, lo scarto ridotto delle ferrovie, il consumo del suolo. A questo stato di cose l’Italia mass-mediatica risponde quasi solo con denunce, richieste di repressione o di riduzioni semplicistiche, quando non addirittura denigratorie.
Anche le famigerate polemiche contro i professionisti dell’antimafia sono state strumentalizzate dai mass media e svuotate ad arte delle loro ragioni principali: la prima è che non si può lottare contro la mafia senza l’apporto di una prosperità generale per la Sicilia, fatta di settori industriali produttivi e lavoro, di emancipazione e diritti. La seconda è che non si può lottare, come ai tempi del prefetto Mori, durante il fascismo, esclusivamente sospendendo i diritti dei siciliani, perché qualsiasi potere privo di princìpi in qualche modo diventa – l’abbiamo già ricordato – altra mafia.
Le richieste di repressione e leggi speciali, insieme alle campagne denigratorie contribuiscono a mettere in ombra la grande storia sociale della Sicilia: gli scioperi di Corleone e Piana, le lotte contadine e il fallimento della riforma agraria, la rabbia dei palermitani per la morte annunciata dei magistrati del Pool di Caponnetto. Ad esempio, pochi ricordano (lo fa Anna Ditta in Belice) la funzione progressiva nazionale dell’attività di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. Ovvero, la stagione delle conquiste civili e sociali in Belice, dove comitati popolari e Centro studi Valle del Belice, rifiutando il pagamento delle tasse e al contempo la leva militare obbligatoria, esercitarono una spinta decisiva verso la promulgazione della legge di sospensione del sistema tributario per i territori martoriati da catastrofi, e poi per la legge sull’obiezione di coscienza e servizio civile alternativo, attraverso la spinta di comitati anti-leva. Battaglie di cui in seguito avrebbero beneficiato il Friuli nel post-sisma del ‘76 e l’Irpinia nel 1980. La lezione del Belice è che, con le necessarie competenze, una delle province più remote d’Italia, attraverso un’alta conflittualità derivante dalla grande consapevolezza di sé e delle proprie ragioni, avanzava istanze moderne valide allora come oggi per l’Italia tutta.
Sicilia e mafia
Certo, se il Risorgimento è una rivoluzione mancata, proseguita col tradimento dell’Italia liberale, confluita nel fascismo per inverare l’autobiografia della nazione di gobettiana memoria, con l’8 settembre 1943 lo sbarco alleato promuove la mafia a interlocutrice privilegiata e padrona del mercato nero nascente. Ecco fin dove arriva il potere dei siciliani in America. Ne consegue, tra politica e mafia, un abbraccio perdurante e asfissiante per la repubblica. L’Italia, non bisogna dimenticarlo, è un paese che ha perso la Seconda guerra mondiale. Sono quindi gli interessi particolari ma di carattere nazionale, a volte addirittura internazionale, a produrre e garantire il mondo del potere siciliano, constatazione che fa dire al già citato Consolo: “(…) a pensarci bene, sono stati quei politici a cacciarci al di là dello Stretto, sequestrando ogni spazio, vanificando ogni speranza di vita e di lavoro liberi da schiavitù, da vergognosi compromessi”.
Sciascia a sua volta definisce la mafia “una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza”. Ovviamente tutto questo a beneficio delle forze padronali, senza possibilità di scelta da parte dei lavoratori.
La mafia la si accetta o la si subisce. C’è quella che sopperisce all’assenza di sindacati, quella paramilitare reazionaria volta allo schiacciamento delle masse. L’origine della mafia viene, come abbiamo scritto, così come verrà il fascismo, dalla rivoluzione borghese limitata alla proprietà fondiaria che in Sicilia è borghese-mafiosa, e garantisce l’ordine in un patto di interessi con la borghesia produttiva settentrionale, come denunciava Gaetano Salvemini.
Le indagini sulla stagione delle stragi e Tangentopoli hanno confermato che un grumo intoccabile nel doppio fondo dello stato esisteva fin dalla rocambolesca nascita dell’Italia democratica.
Ma a narrare la storia siciliana esclusivamente per dialettica negativa forse si compie un’ennesima trasfigurazione della realtà.
Viaggiare per i paesi di Sicilia oggi, magari idealmente farlo come il pastore protagonista de Le città del mondo di Vittorini, porterebbe a scoprire che in ogni piazza siciliana non ci sono solo decine di caduti nella lotta contro la mafia, e filosofi, statisti; bensì scuole, insegnanti, famiglie, giovani che emigrano o restano. Insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Franca Viola, Placido Rizzotto, Pio La Torre, a Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, insieme a questo infinito elenco di eroi, abbiamo una lunga schiera di militanti e associazioni vive per l’attuazione della Costituzione italiana. Una per tutte, l’associazione Nun si parti, che cerca come può di arrestare l’emigrazione giovanile.
I siciliani, dunque, come il resto degli isolani o degli abitanti degli Appennini o delle Alpi, nel rapporto con la nazione incarnano al meglio la categoria degli italiani-esuli. Sono proprio gli eroi e le eroine, gli infiniti migranti come di una diaspora, a dirci che nella storia d’Italia c’è un grave fondo di incompiutezza. Ed è questo squilibrio la vera linea della palma, la quale minando la coesione sociale rende fragile e instabile il paese, perché la democrazia non è attuabile né difendibile laddove non è possibile accettarne le regole. In altre parole, per essere un popolo occorre la tensione verso una simmetria, dunque un grado seppur minimo di omogeneità che generi una prospettiva in comune. La grande narrazione dei siciliani ha cercato di dirlo in ogni modo ed epoca. Ecco perché sulla nazione un disilluso Vincenzo Consolo ebbe a scrivere a suo tempo che “Il nome di Italia noi scrittori di estrazione popolare e regionale, e di regioni meridionali, con il bagaglio di risentimento che queste regioni si portano, dall’unità, nei confronti del governo centrale, l’abbiamo sempre pronunciato con esitazione, con pudore, (…).
Bibliografia essenziale
V. Brancati, Il bell’Antonio, Mondadori, Milano, ed. Oscar del 2001; e dello stesso autore Paolo il caldo, Bompiani, Milano, 1955
V. Consolo, Cosa loro, Mafie tra cronaca e riflessione 1970-2010, Bompiani, Milano, 2017. Ma dello stesso autore si veda pure Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, Sellerio, Palermo, 2013; e, tra tutti, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Einaudi, Torino, 1976
J. J. Norwich, Breve storia della Sicilia, Sellerio, Palermo, 2018
S. Lupo, La mafia. Centosessanta anni di storia, Donzelli, Roma, 2018
L. Sciascia, Opere, vol. I, II, III, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano, 2000
G. Verga, I grandi romanzi, Meridiani Mondadori, Milano, 4a ed. del 1991;
e, nella stessa collana, Tutte le novelle, ed. del 2006
Testo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=50681
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