Vivere
insieme, secondo Roland Barthes
di Gilles Nicoli pubblicato
giovedì, 9 Gennaio 2025,
https://www.minimaetmoralia.it/wp/interviste/vivere-insieme-secondo-roland-barthes/
Affacciato alla finestra, il primo dicembre 1976, Roland
Barthes vede in strada una madre che cammina spingendo una carrozzina vuota,
con il figlio a fianco. «Teneva imperturbabile il proprio passo, il bambino
veniva tirato, sballottolato, costretto a correre per tutto il tempo, come un
animale o una vittima sadiana che si castiga. Lei va al suo ritmo, senza sapere
che il ritmo del bambino è un altro», scrive nei suoi appunti per il corso
“Come vivere insieme: simulazioni romanzesche di alcuni spazi quotidiani”. È il
primo seminario che terrà al Collège de France, e alla lezione inaugurale,
prevista per il 7 gennaio 1977, manca poco più di un mese. È sempre nel 1977
che Éditions du Seuil pubblica in Francia la prima edizione di Frammenti di un
discorso amoroso. Il seminario e il libro nascono dunque in parallelo, e non a
caso condividono la medesima impostazione: una serie discontinua di “figure di
discorso” attraverso cui penetrare il cuore della materia trattata; e alcuni
testi-appoggio, testi-tutori, qui in particolare Robinson Crusoe (Defoe) e La
sequestrata di Poitiers (Gide), a cui fare riferimento. Non è solamente un
corso, evidentemente: è un metodo (forse un non-metodo, o ancora meglio un
pre-metodo, suggerisce l’autore). Perché sostituendo le parole chiave e le
opere letterarie con altre, cambierà almeno un poco anche la direzione in cui
andrà lo studio; ma una volta determinati i punti di partenza, per condurre
un’indagine approfondita basterà delinearne i confini. Barthes li traccia
subito: non gli interessa la folla, perché un gran numero di persone è sempre
inscritto in un sistema di potere, e il loro vivere insieme dipenderà da
quello; e non gli interessa nemmeno la coppia, non solo perché se ne è già
occupato («Il libro sul Discorso amoroso è forse più povero rispetto al
seminario, ma io lo ritengo più vero», scrive a un certo punto), ma perché
quando si è in due non esiste alcun rapporto di potere, oppure c’è qualcosa di
profondamente sbagliato (come in Robinson Crusoe, dove la prima parola che il
protagonista insegna a Venerdì è “capo”). La domanda di fondo è questa: dove
inizia il plurale? Siamo abituati a distinguere tra uno (singolare) e molti
(plurale), ma forse dovremmo riservare pure al due, alla coppia, uno statuto
separato. Cosa ci suggerisce la Bibbia, quando nella Genesi l’uomo subisce la
prima operazione chirurgica della storia, con Dio che lo addormenta, gli toglie
una costola, e da quella forma la donna? Secondo una diffusa lettura, che la
donna ha un ruolo secondario rispetto all’uomo; ma questo dimostra solo come il
mito si presti bene a essere letto secondo le convinzioni che già si hanno, o
contro cui si vuole lottare. Per Barthes, il testo della Genesi – così come il
mito dell’androgino raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone – ci dice
innanzitutto che l’Uno è fatto di due, e il due è un’unità. Il seminario
intende invece analizzare tutto ciò che accade dal tre in poi (cioè dal numero
col quale si passa dal personale all’interpersonale). «Qualcosa come una
solitudine interrotta in una maniera regolare: il paradosso, la contraddizione,
l’aporia di una messa in comune delle distanze», scrive Barthes, ed è
interessante il fatto che il punto di partenza sia la solitudine. Nella Genesi
era Dio stesso a notare: «Non è bene che l’uomo sia solo». La Chiesa conosce
bene quali siano i pericoli dell’eremitismo: depressione, eccentricità, follia;
gli stiliti che trascorrono la propria vita in cima a un pilastro, i dendriti
sopra a un albero. Meglio avere una compagnia, come gli anacoreti, che vivono
soli o in piccoli gruppi, ma si fanno visita tra loro; o come i monaci del
Monte Athos, per i quali l’idiorritmia è la chiave per trovare quel ritmo
comune che mancava alla madre col bambino; o come i cenobiti, che nel convento
mostrano obbedienza a un capo, l’abate, e a un regolamento, alternando ore di
preghiera e ore di lavoro. A questo proposito, un’intuizione che ha l’aria di
essere fondamentale: è preferibile darsi una regola, ma non un regolamento. La
prima è «un atto individuale, che può essere messo in comune»; mentre il
secondo «genera l’infrazione, cioè la colpa». Uno dei fili conduttori del
corso, il ritmo, ne incontra così un altro, quello del potere. Se ne può
integrare un terzo: il Telos, lo scopo. I religiosi vivono insieme perché hanno
il fine di migliorarsi, di diventare santi. I membri di un collettivo politico,
un gruppo di studenti, degli amici in vacanza, si uniscono in vista di un fine.
Esiste la possibilità di un vivere insieme senza scopo, per il puro piacere di
farlo? Concediamo che esista: «non c’è al tempo stesso affinità tra idiorritmia
e assenza di Telos, da una parte, e, dall’altra impossibilità di sviluppo di un
gruppo senza Telos?», si domanda Barthes; un bel problema, ma non il solo.
Tante altre insidie minano il vivere insieme; il desiderio, sicuramente, da
contenere a suon di divieti: «Che nessuno unga tutto il corpo, se non a causa
di malattia. E che nessuno si lavi tutto il corpo stando nudo. Nessuno potrà
lavare un altro o ungere il suo corpo; nessuno parli a un altro nell’oscurità»,
stabiliva Pacomio, considerato il fondatore del monachesimo cenobitico. Anche
un avvenimento può facilmente turbare un equilibrio raggiunto; ma si può
immaginare un vivere insieme nel rifiuto dell’agire, del suscitare cambiamenti,
come prevede il principio del Tao chiamato Wu wei? «Il Wu wei ha delle
incidenze politiche completamente scandalose. Per noi nell’ordine politico il
Wu wei è del tutto inconcepibile: tutta la nostra civilità sta nel Voler-
Agire», annota Barthes. Si profilano allora due tipi di allontanamento dal
reale, e cioè «Irrealizzare: io rifiuto la realtà in nome della fantasia. Tutto
ciò che è intorno a me cambia di valore in rapporto al mio immaginario», oppure
«Derealizzare: io perdo egualmente il reale, ma nessuna sostituzione viene a
compensare questa perdita». «L’innamorato va e viene tra queste due
situazioni», non manca di notare. «Probabilmente anche la xeniteia», aggiunge,
vale a dire di lo sradicamento, l’espatrio, l’esilio volontario, che ciascuno
di noi a volte subisce, altre volte insegue. Può voler dire «sentirsi straniero
nel proprio paese, nella propria classe, nell’ambito delle istituzioni in cui
si è collocati», ma può anche diventare «uno stato di erranza intellettuale»,
deliberatamente perseguito quando «un linguaggio, una dottrina, un movimento di
idee, un insieme di posizioni comincia a fissarsi, a solidificarsi, a
cristallizzarsi, a divenire una massa compatta di abitudini, di complicità, di
facilità». Raramente elegante nello stile, talvolta impreciso nel citare le
fonti, ma d’altra parte si tratta di annotazioni, Barthes raggiunge in queste
pagine una densità e una profondità di pensiero che lasciano al lettore
innumerevoli spunti di riflessione e, perché no, di attualizzazione: come
cambia il vivere insieme dopo internet, dopo i social network? La traccia più
vicina che si possa rinvenire qui è questa: «Vi sono dei soggetti individuali
(ciascuno di noi) che possono avere dei fantasmi del Vivere-Insieme. Si
fabbrica allora un Vivere-Insieme fantasmatico prelevandone i partecipanti in
una rete di gente che si conosce». Si può poi immaginare di intraprendere una
quantità di altri esercizi a partire dagli stimoli forniti da questo volume,
pubblicato da Mimesis nella traduzione dal francese di Augusto Ponzio; per
concludere, ecco allora due spunti. Il primo: «Da parte mia, spesso ho
rimpianto di non aver scritto, e ne ho spesso il desiderio, un’utopia
domestica: una maniera ideale (felice) di figurare, di predire il buon rapporto
del soggetto con l’affetto, con il simbolo». Il secondo: «Io non ho una
filosofia del Vivere-Insieme». Che sarebbero poi un progetto incompiuto
(Barthes sarebbe morto tre anni più tardi, investito in strada proprio uscendo
dal Collège de France) e l’idea di una ricerca alla quale non interessa trarre
conclusioni. In questi appunti, l’unica frase che somigli a una definizione del
vivere insieme è, del resto, un’intuizione poetica: «Vivere-Insieme: soltanto
forse per affrontare insieme la tristezza della sera. Essere stranieri, è
inevitabile, necessario, salvo quando cade la sera».
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