10 gennaio 2025

VIVERE INSIEME SECONDO ROLAND BARTHES

 



Vivere insieme, secondo Roland Barthes

di Gilles Nicoli pubblicato giovedì, 9 Gennaio 2025,

 https://www.minimaetmoralia.it/wp/interviste/vivere-insieme-secondo-roland-barthes/

 

Affacciato alla finestra, il primo dicembre 1976, Roland Barthes vede in strada una madre che cammina spingendo una carrozzina vuota, con il figlio a fianco. «Teneva imperturbabile il proprio passo, il bambino veniva tirato, sballottolato, costretto a correre per tutto il tempo, come un animale o una vittima sadiana che si castiga. Lei va al suo ritmo, senza sapere che il ritmo del bambino è un altro», scrive nei suoi appunti per il corso “Come vivere insieme: simulazioni romanzesche di alcuni spazi quotidiani”. È il primo seminario che terrà al Collège de France, e alla lezione inaugurale, prevista per il 7 gennaio 1977, manca poco più di un mese. È sempre nel 1977 che Éditions du Seuil pubblica in Francia la prima edizione di Frammenti di un discorso amoroso. Il seminario e il libro nascono dunque in parallelo, e non a caso condividono la medesima impostazione: una serie discontinua di “figure di discorso” attraverso cui penetrare il cuore della materia trattata; e alcuni testi-appoggio, testi-tutori, qui in particolare Robinson Crusoe (Defoe) e La sequestrata di Poitiers (Gide), a cui fare riferimento. Non è solamente un corso, evidentemente: è un metodo (forse un non-metodo, o ancora meglio un pre-metodo, suggerisce l’autore). Perché sostituendo le parole chiave e le opere letterarie con altre, cambierà almeno un poco anche la direzione in cui andrà lo studio; ma una volta determinati i punti di partenza, per condurre un’indagine approfondita basterà delinearne i confini. Barthes li traccia subito: non gli interessa la folla, perché un gran numero di persone è sempre inscritto in un sistema di potere, e il loro vivere insieme dipenderà da quello; e non gli interessa nemmeno la coppia, non solo perché se ne è già occupato («Il libro sul Discorso amoroso è forse più povero rispetto al seminario, ma io lo ritengo più vero», scrive a un certo punto), ma perché quando si è in due non esiste alcun rapporto di potere, oppure c’è qualcosa di profondamente sbagliato (come in Robinson Crusoe, dove la prima parola che il protagonista insegna a Venerdì è “capo”). La domanda di fondo è questa: dove inizia il plurale? Siamo abituati a distinguere tra uno (singolare) e molti (plurale), ma forse dovremmo riservare pure al due, alla coppia, uno statuto separato. Cosa ci suggerisce la Bibbia, quando nella Genesi l’uomo subisce la prima operazione chirurgica della storia, con Dio che lo addormenta, gli toglie una costola, e da quella forma la donna? Secondo una diffusa lettura, che la donna ha un ruolo secondario rispetto all’uomo; ma questo dimostra solo come il mito si presti bene a essere letto secondo le convinzioni che già si hanno, o contro cui si vuole lottare. Per Barthes, il testo della Genesi – così come il mito dell’androgino raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone – ci dice innanzitutto che l’Uno è fatto di due, e il due è un’unità. Il seminario intende invece analizzare tutto ciò che accade dal tre in poi (cioè dal numero col quale si passa dal personale all’interpersonale). «Qualcosa come una solitudine interrotta in una maniera regolare: il paradosso, la contraddizione, l’aporia di una messa in comune delle distanze», scrive Barthes, ed è interessante il fatto che il punto di partenza sia la solitudine. Nella Genesi era Dio stesso a notare: «Non è bene che l’uomo sia solo». La Chiesa conosce bene quali siano i pericoli dell’eremitismo: depressione, eccentricità, follia; gli stiliti che trascorrono la propria vita in cima a un pilastro, i dendriti sopra a un albero. Meglio avere una compagnia, come gli anacoreti, che vivono soli o in piccoli gruppi, ma si fanno visita tra loro; o come i monaci del Monte Athos, per i quali l’idiorritmia è la chiave per trovare quel ritmo comune che mancava alla madre col bambino; o come i cenobiti, che nel convento mostrano obbedienza a un capo, l’abate, e a un regolamento, alternando ore di preghiera e ore di lavoro. A questo proposito, un’intuizione che ha l’aria di essere fondamentale: è preferibile darsi una regola, ma non un regolamento. La prima è «un atto individuale, che può essere messo in comune»; mentre il secondo «genera l’infrazione, cioè la colpa». Uno dei fili conduttori del corso, il ritmo, ne incontra così un altro, quello del potere. Se ne può integrare un terzo: il Telos, lo scopo. I religiosi vivono insieme perché hanno il fine di migliorarsi, di diventare santi. I membri di un collettivo politico, un gruppo di studenti, degli amici in vacanza, si uniscono in vista di un fine. Esiste la possibilità di un vivere insieme senza scopo, per il puro piacere di farlo? Concediamo che esista: «non c’è al tempo stesso affinità tra idiorritmia e assenza di Telos, da una parte, e, dall’altra impossibilità di sviluppo di un gruppo senza Telos?», si domanda Barthes; un bel problema, ma non il solo. Tante altre insidie minano il vivere insieme; il desiderio, sicuramente, da contenere a suon di divieti: «Che nessuno unga tutto il corpo, se non a causa di malattia. E che nessuno si lavi tutto il corpo stando nudo. Nessuno potrà lavare un altro o ungere il suo corpo; nessuno parli a un altro nell’oscurità», stabiliva Pacomio, considerato il fondatore del monachesimo cenobitico. Anche un avvenimento può facilmente turbare un equilibrio raggiunto; ma si può immaginare un vivere insieme nel rifiuto dell’agire, del suscitare cambiamenti, come prevede il principio del Tao chiamato Wu wei? «Il Wu wei ha delle incidenze politiche completamente scandalose. Per noi nell’ordine politico il Wu wei è del tutto inconcepibile: tutta la nostra civilità sta nel Voler- Agire», annota Barthes. Si profilano allora due tipi di allontanamento dal reale, e cioè «Irrealizzare: io rifiuto la realtà in nome della fantasia. Tutto ciò che è intorno a me cambia di valore in rapporto al mio immaginario», oppure «Derealizzare: io perdo egualmente il reale, ma nessuna sostituzione viene a compensare questa perdita». «L’innamorato va e viene tra queste due situazioni», non manca di notare. «Probabilmente anche la xeniteia», aggiunge, vale a dire di lo sradicamento, l’espatrio, l’esilio volontario, che ciascuno di noi a volte subisce, altre volte insegue. Può voler dire «sentirsi straniero nel proprio paese, nella propria classe, nell’ambito delle istituzioni in cui si è collocati», ma può anche diventare «uno stato di erranza intellettuale», deliberatamente perseguito quando «un linguaggio, una dottrina, un movimento di idee, un insieme di posizioni comincia a fissarsi, a solidificarsi, a cristallizzarsi, a divenire una massa compatta di abitudini, di complicità, di facilità». Raramente elegante nello stile, talvolta impreciso nel citare le fonti, ma d’altra parte si tratta di annotazioni, Barthes raggiunge in queste pagine una densità e una profondità di pensiero che lasciano al lettore innumerevoli spunti di riflessione e, perché no, di attualizzazione: come cambia il vivere insieme dopo internet, dopo i social network? La traccia più vicina che si possa rinvenire qui è questa: «Vi sono dei soggetti individuali (ciascuno di noi) che possono avere dei fantasmi del Vivere-Insieme. Si fabbrica allora un Vivere-Insieme fantasmatico prelevandone i partecipanti in una rete di gente che si conosce». Si può poi immaginare di intraprendere una quantità di altri esercizi a partire dagli stimoli forniti da questo volume, pubblicato da Mimesis nella traduzione dal francese di Augusto Ponzio; per concludere, ecco allora due spunti. Il primo: «Da parte mia, spesso ho rimpianto di non aver scritto, e ne ho spesso il desiderio, un’utopia domestica: una maniera ideale (felice) di figurare, di predire il buon rapporto del soggetto con l’affetto, con il simbolo». Il secondo: «Io non ho una filosofia del Vivere-Insieme». Che sarebbero poi un progetto incompiuto (Barthes sarebbe morto tre anni più tardi, investito in strada proprio uscendo dal Collège de France) e l’idea di una ricerca alla quale non interessa trarre conclusioni. In questi appunti, l’unica frase che somigli a una definizione del vivere insieme è, del resto, un’intuizione poetica: «Vivere-Insieme: soltanto forse per affrontare insieme la tristezza della sera. Essere stranieri, è inevitabile, necessario, salvo quando cade la sera».

 


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