29 aprile 2017

LA SICILIA DI STEFANO VILARDO


        Nino Cangemi con questa bella recensione rompe il vergognoso silenzio che sta accompagnando il nuovo libro del poeta di Delia (CL)

La Sicilia di Stefano Vilardo: selvaggia, aspra, fascinosa, “di luce e di lutto”



Ciascuno racconta la Sicilia che ha viva dentro di sé, che è custodita nel suo cuore, che palpita nella sua memoria, che pulsa nelle sue viscere. Quella che racconta Stefano Vilardo nel suo ultimo singolare romanzo, “Garibaldi e il Cavaliere” edito da Le farfalle, è la Sicilia interna, della sua Delia, del Nisseno e dell’Agrigentino, antica nei suoi riti, nelle tradizioni, nei costumi e nella sua storia fatta di soprusi, vessazioni, dominazioni subite, ingiustizie patite, illusorie conquiste, ribellioni tentate (“terra di conquista, la nostra, di razziatori, di grassatori, di lenoni, di bastardi assassini, che con la loro violenta arroganza hanno indurito, smaliziato, imbastardito il cuore di questo strano bipede orgoglioso e vigliacco; prudente, pavido, ma a volte estremamente violento, ribelle”).
E’ un’isola assolata, aspra, selvaggia, di “luce e di lutto”, fascinosa e terribile, ma vera nelle sue irriducibili dicotomie, la Sicilia protagonista del monologo del cavaliere don Pasquale Nascinbene – appena intervallato da cenni di contraddittorio del dottor Nenè Crescimanno (niente più che un espediente narrativo) –, alter ego dell’autore, vegliardo nonagenario lucido, brillante, estroso nel suo irrequieto e inquieto divagare. Un monologo, il suo, che prende l’abbrivio dalla narrazione dei fatti del bisnonno in epoca garibaldina, ma che poi si disperde nei tanti rivoli dei ricordi che si accavallano e s’intersecano disordinatamente con licenza sulle sequenze temporali perché la memoria di un uomo che ha attraversato lunghe generazioni rivendica il diritto di svincolarsi dalla prigione del tempo e di costruire, nella impetuosa affabulazione, un tempo proprio, esclusivo, autonomo.
Tra le citazioni in esergo, la prima è del fraterno amico di Vilardo Leonardo Sciascia (i due furono compagni di scuola all’Istituto Magistrale di Caltanissetta): “Il racconto è il pretesto per dire certe cose…”. “Garibaldi e il Cavaliere” è, per Vilardo, il pretesto per intrattenere i lettori con la narrazione –franca, ardita, personalissima- della sua Sicilia, che ha l’epicentro nella piccola comunità dove è nato e cresciuto, Delia, come svela il sottotitolo “Storia, racconti e folclore di un paese della profonda Sicilia”.
Ma è anche il pretesto per manifestare liberamente, senza veli, costrizioni, condizionamenti -così come in piena anarchia può esprimersi dall’alto dei suoi novant’anni don Pasquale Nascinbene –, il suo pensiero sulla vita, sugli uomini, sul falso progresso mistificatore di usi genuini, sulla religione, sulla morte. Un pensiero condito di pessimismo e ravvivato da una mai spenta indignazione civile (“Vi supplico di essere sempre indignati”, Martin Luther King, altra citazione in esergo). Sicché si scopre che, per Vilardo, l’uomo è un misto di luce e di buio, di bene e di male: “Siamo impastati, Nenè, di fertile humus o fetida fanchiglia…”, che “il più grande perdente che la storia ricordi” è “Gesù”, che “se un Dio c’è”, è “un Dio di cui non sappiamo nulla…ma se un Dio non dovesse esserci…saremmo amaramente perdenti perché non gli umili erediterebbero la terra, ma questa genia di bricconi, di debosciati che tanto in questi tempi ci deliziano”.
Un discorso a parte merita la lingua di Vilardo. Vilardo, non dimentichiamolo, si è imposto nel panorama letterario con la trascrizione in versi dei discorsi raccolti dagli emigrati di Delia e del Nisseno in Germania, che condusse alla pubblicazione di “Tutti dicono Germania Germania”, Garzanti 1975. Ha scritto diverse sillogi di versi, oltre ad alcuni romanzi e, poeta innanzitutto e poi narratore, è stato sempre attratto dallo sperimentalismo. In questa sua prova narrativa è accentuato il pastiche linguistico, la mescolanza tra l’italiano e il dialetto; ciò dà luogo a una prosa esuberante che potenzia la foga affabulatoria del monologo di don Pasquale Nascinbene. La sua è una lingua “incline alle movenze del colto, all’espressione polita, al lirico”, come nota Nicolò Messina nel risvolto di copertina, mirabile sintesi critica del testo.
Se “Tutti dicono Germania Germania” è l’opera che ha consegnato Vilardo alla storia della letteratura sull’immigrazione, “Garibaldi e il Cavaliere”è il suo testamento, l’opera che tramanda ai posteri il suo pensiero. Perciò merita un posto nelle librerie dei cultori della nostra letteratura.

Recensione ripresa da   http://www.siciliainformazioni.com/ 27 aprile 2017

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