La
sopravvivenza della scuola
di Mario
Ambel
Questi
ultimi vent'anni
Mentre
vengono approvati i decreti delegati che completano l’iter
normativo della legge 107, appare inevitabile una riflessione ampia e
disincantata sul profilo che sta assumendo la scuola italiana. A
vent’anni dalla legge sull’autonomia non possiamo più
permetterci di sottovalutare l’effetto di provvedimenti che ne
stanno profondamente modificando le finalità, le pratiche e la
stessa identità.
Nei vent’anni che ci separano dalla legge sull’autonomia scolastica, ogni volta che si è trattato di fare una scelta relativa alla scuola, tra due possibilità, si è scelta la strada contraria a quell’idea di scuola democratica e inclusiva che abbiamo sempre fatto discendere dall’art. 3 della Costituzione.
Nei vent’anni che ci separano dalla legge sull’autonomia scolastica, ogni volta che si è trattato di fare una scelta relativa alla scuola, tra due possibilità, si è scelta la strada contraria a quell’idea di scuola democratica e inclusiva che abbiamo sempre fatto discendere dall’art. 3 della Costituzione.
E
così ci ritroviamo oggi con un’autonomia doppiamente
tradita: svuotata di reali poteri di scelta e di autodeterminazione
per la realizzazione di un progetto pedagogico e didattico
profondamente democratico, essa è passata all’attuazione di una
progettualità educativa orientata e funzionale a piccoli frammenti
di competitività esterna e interna. Con l’ulteriore beffa di dover
rendicontare processi di innovazione e piani di miglioramento in
condizioni operative falcidiate da tagli di risorse finanziarie e
ristrutturazioni improvvide della professionalità docente; o ancora
entro visioni restrittive e inutili della sussidiarietà territoriale
delle scelte progettuali, e addirittura delle assunzioni e delle
utilizzazioni del personale.
Ci
ritroviamo con un innalzamento dell’obbligo scolastico falso
e ipocrita che in realtà accentua una volontà di canalizzazione e
differenziazione precoce, che non avendo poi il coraggio e le
condizioni per concretizzarsi davvero in un sistema selettivo e
disuguagliante, produce solo un aumento della dispersione scolastica
e la crescita delle strategie complementari di recupero, anziché il
rafforzamento delle condizioni di inclusione nel percorso scolastico.
Ci
ritroviamo con una pratica ossessiva della valutazione di
ogni segmento del sistema ormai malato che ha prodotto guasti e
contraddizioni a ogni suo livello. A partire dalla presunta volontà
dei soggetti di non volere essere valutati, si è costruita una
piramide di valutazioni idiosincratiche. Invece di riconoscere
che fondare i sistemi educativi sulla valutazione premiale e punitiva
del merito individuale è una nefasta e controproducente ipocrisia di
chi non sa immaginare, orientare, organizzare e gestire contesti
cooperativi di insegnamento/apprendimento funzionali ed efficaci,
continuano le patetiche performance dei sostenitori della valutazione
del merito… degli altri: i ministri meritocratici dei presidi, i
presidi meritocratici dei docenti, i docenti meritocratici degli
allievi, ecc. ecc., con paradossi tristemente esilaranti quando si
invocano anche i genitori fra coloro che dovrebbero poter valutare
(oltre ai figli) i docenti, i presidi e (non col voto ma con i voti)
i ministri…
Ci
ritroviamo di conseguenza con una professionalità
docente,
progressivamente allontanata dall’investimento nella qualità dei
processi di insegnamento/apprendimento, a vantaggio di una serie di
attività complementari che anziché realizzare una coerente comunità
educativa affaticano soggetti e strutture in una pletora di mansioni
autoreferenziali e sostanzialmente inutili. Per non parlare della
presunta professionalità
dei dirigenti,
baloccata fra illusioni di poteri dirigenziali e condizioni di
fattibilità impraticabili e sempre più allontanata dalle esigenze
di gestione e coordinamento di attività professionali
complesse.
Non
è certo la prima volta che da queste pagine proviamo a
delineare queste opzioni e le loro conseguenze. Lo facemmo anche
a settembre
del 2014,
quando il confronto sulla buona scuola era agli inizi e forse lo si
poteva fronteggiare con ben altra determinazione e chiarezza di
intenti.
L'inganno della
“buona scuola”
Sono
queste le conseguenze più gravi di una cattiva politica scolastica
ormai ventennale e spesso pericolosamente bipartisan. Ma ultimamente
c’è anche di peggio. La sedicente “buona scuola” è il
suggello ideologico e pragmatico di una scuola asservita al mondo
esterno da un progetto pseudo culturale di adattamento alla “realtà”
e al “lavoro” (che non c’è); meritocratica e competitiva nelle
dinamiche relazionali e nella ricerca delle motivazioni e delle
gratificazioni; eccessivamente fiduciosa nella panacea
della priorità delle metodologie sulla sostanza degli
apprendimenti.
Siamo
di fronte a una scuola che non è più in grado di ricercare nei
processi culturali di insegnamento/apprendimento i propri criteri di
legittimazione e di credibilità, ma che è costantemente chiamata a
proiettarli o ad affidarli fuori di sé, rinunciando a ogni funzione
di rapporto costruttivo e non servente col mondo esterno, e
quindi alla sostanziale autonomia culturale del proprio progetto
educativo, che deve essere dialettico con la realtà esterna
proprio perché rifiuta l’autoreferenzialità e l’isolamento, ma
anche l’asservimento e la funzione adattiva.
La
scuola sembra costretta (e talvolta persino lieta) di affidarsi a un
extrascuola che ormai è orizzonte prospettico e fine strategico di
ogni sua azione, dalla finalità del progetto, alla credibilità
delle metodologie didattiche, ai parametri di verifica e valutazione,
alle condizioni e ai soggetti dei contesti e dei percorsi di
recupero. Come se ci fosse poi, oggi, una qualche realtà, fuori
dalla scuola, dotata di una credibilità etica e culturale tale da
sovrapporsi e imporsi rispetto a quella capacità di indagine critica
e di analisi scientifica che dovrebbe essere alimento e sostanza del
progetto educativo della scuola, che è e deve rimanere
prioritariamente culturale e scientifica (in senso lato) e non
professionale.
Su
questi terreni scontiamo una regressione pseudo modernista assai
preoccupante: anziché orientare la scuola verso la progressiva
estensione a tutti delle capacità critiche e culturali e a età
sempre più elevate, stiamo assistendo da un lato alla
radicalizzazione dei destini individuali e sociali e dall’altro a
un illusorio e spesso demagogico rapporto con il presunto “mondo
dell’impresa e del lavoro”, che anziché irrobustire la coscienza
professionale di ciascuno e di tutti, finirà col diminuirne le
potenzialità analitiche e di immaginazione di un futuro individuale
e collettivo diverso e migliore.
Si
ascrive a questa prospettiva tutta la gestione di prospettive
strategiche assai delicate, che il nostro tempo imponeva di
affrontare con ben altra solidità e coraggio: penso alla questione
delle “competenze”, che non è uscita dal conflitto anacronistico
e spesso sterile fra saperi critici e saperi pratici e pare oggi
eccessivamente orientata a privilegiare la spendibilità e la
mercificazione di quanto appreso rispetto alla trasferibilità e alla
creatività.
O
ancora si ascrive a questa prospettiva la visione minimalista e
spesso vacua di una trasversalità che anziché sostanza e alimento
cognitivo e conoscitivo si è trasformata in un formulario tra il
predittivo, il comportamentale e il metacognitivo, buono più per
riempire certificazioni inconcludenti che per sostenere in modo
adeguato i processi di insegnamento e il dialogo costruttivo fra le
discipline.
E soprattutto si ascrive a questa prospettiva l’incapacità di sciogliere il nodo delle distinzioni e dei rapporti fra istruzione culturale e formazione professionale per le differenti categorie socioculturali di allievi e della distinzione per tutti e per ciascuno fra “tempo della scuola” (che deve tendenzialmente crescere e consolidarsi) e “tempo della preparazione al lavoro” (che deve perennemente ridefinirsi). Anziché affrontare con coraggio etico, culturale e politico questi temi in un tempo di profonda frantumazione e alienazione del lavoro e di crisi della democrazia rappresentativa, siamo arrivati al paradosso di sentire nell’aria progetti di lavoro, di logica d’impresa, di imprenditorialità individuale per la scuola media e primaria! E se questo è il progetto educativo nel quale si pensa di inserire anche il nuovo segmento 0-6, se già si prepara il profilo professionale della prima infanzia, anziché realizzarne un’auspicabile inserimento in un progetto educativo forte, unitario e di lunga durata, allora sarebbe meglio lasciare almeno i neonati alle sole attenzioni dell’affettività e della cura, possibilmente non precocemente canalizzate.
E infine, e non si tratta certamente per la scuola di un guaio minore, le stesse prospettive di innovazione didattica (l’uso delle tecnologie, il superamento della scuola trasmissiva, le modalità organizzative del lavoro d’aula, l’effettiva significatività delle finalità educative, ecc.) appaiono viziate da un male spesso grave e a lungo andare incurabile: la priorità del metodo sul senso e la sostanza dei processi messi in atto. Quando la didattica confonde lo strumento con il fine condanna se stessa all’impotenza autoreferenziale, al godimento del come indipendentemente dal che cosa.
E soprattutto si ascrive a questa prospettiva l’incapacità di sciogliere il nodo delle distinzioni e dei rapporti fra istruzione culturale e formazione professionale per le differenti categorie socioculturali di allievi e della distinzione per tutti e per ciascuno fra “tempo della scuola” (che deve tendenzialmente crescere e consolidarsi) e “tempo della preparazione al lavoro” (che deve perennemente ridefinirsi). Anziché affrontare con coraggio etico, culturale e politico questi temi in un tempo di profonda frantumazione e alienazione del lavoro e di crisi della democrazia rappresentativa, siamo arrivati al paradosso di sentire nell’aria progetti di lavoro, di logica d’impresa, di imprenditorialità individuale per la scuola media e primaria! E se questo è il progetto educativo nel quale si pensa di inserire anche il nuovo segmento 0-6, se già si prepara il profilo professionale della prima infanzia, anziché realizzarne un’auspicabile inserimento in un progetto educativo forte, unitario e di lunga durata, allora sarebbe meglio lasciare almeno i neonati alle sole attenzioni dell’affettività e della cura, possibilmente non precocemente canalizzate.
E infine, e non si tratta certamente per la scuola di un guaio minore, le stesse prospettive di innovazione didattica (l’uso delle tecnologie, il superamento della scuola trasmissiva, le modalità organizzative del lavoro d’aula, l’effettiva significatività delle finalità educative, ecc.) appaiono viziate da un male spesso grave e a lungo andare incurabile: la priorità del metodo sul senso e la sostanza dei processi messi in atto. Quando la didattica confonde lo strumento con il fine condanna se stessa all’impotenza autoreferenziale, al godimento del come indipendentemente dal che cosa.
Ricominciare
invertendo la direzione di marcia
Siamo
quindi a un passaggio assai delicato e complesso. La società esterna
alla scuola preme per scelte che si rivelano poi controproducenti e
dannose. Persino il ricordo di uno dei pochi intellettuali che siano
stati in questi anni dalla parte della scuola si è dovuto
trasformare in una linea
Maginot difensiva,
a fronte del solito attacco contro la scuola di massa da parte dei
difensori di una scuola elitaria, necessaria a fermare in tempo
“coloro che non ce la fanno e non sono portati allo studio” e a
perpetuare se stessa per gruppi ristretti di privilegiati.
Ora,
l’errore più pericoloso che potremmo commettere sarebbe quello di
accontentarsi di qualche fiore nel deserto, di qualche rete di
scuole, di qualche “progetto”, dei molti docenti che ogni giorno
continuano a fare il loro dovere nonostante tutto. Non ci sarebbe
nulla di più acquiescente che accontentarsi della buona volontà dei
singoli, nulla di più ipocrita che appellarsi ancora una volta al
loro impegno.
Per
queste ragioni, è importante continuare ad essere il più possibile
coerenti con il mandato culturale e democratico che la
Costituzione affida alla scuola e possibilmente in nome di una
cultura come coscienza critica e dialettica e non solo come volano
del turismo e della mercificazione del paesaggio e di una democrazia
che non sia solo demagogia demoscopica ma reale istanza perequativa e
partecipativa. Ed è indispensabile ricominciare a rivendicare,
costruire e salvaguardare nei fatti le condizioni per realizzare
quel mandato, per fare davvero della scuola quel presidio di
democrazia reale e di emancipazione per tutti e per ciascuno di
cui il Paese ha sempre più bisogno e dalla cui prospettiva questi
ultimi vent’anni ci hanno talmente allontanato che spesso non
riconosciamo più non solo la strada da percorrere davanti a noi, ma
neppure quella che abbiamo smarrito alle nostre spalle.
Per
farlo c’è una sola strada: chiedere e ottenere la sconfessione di
quasi tutte le prospettive, le scelte e le norme adottate in questi
vent’anni e ricominciare da capo in un’altra direzione. Per
capire qual è la direzione giusta, basta fare, ogni volta, il
contrario di quel che si è fatto: ritornare a una autonomia della
responsabilità e della cooperazione e non della competitività e
dell’individualismo; abolire i voti anche nella scuola superiore;
promuovere competenze culturali di cittadinanza e finalizzare il
progetto educativo alla strumentazione critica necessaria ai
cittadini di domani e non alle competenze professionali o
pseudotrasversali dei non-lavoratori di oggi; affidare all’Invalsi
una priorità di ricerca valutativa e non di valutazione; valutare
in modo ragionevole ciò che si è fatto e non fare ciò che qualcuno
vuole valutare; ricominciare a distinguere fra attività per
apprendere e prove per verificare ciò che si è appreso; promuovere
la ricerca e la sperimentazione di scuole e reti di scuole anziché
penalizzarle; pensare che il che cosa il come e il perché si insegna
e si apprende sono più importanti di come lo si valuta;
ritornare alla dignità e alla realtà dei compiti e non inseguire
fantomatici compiti di realtà simulate; fare della formazione in
servizio una occasione di riflessione e crescita cooperativa per
l’efficacia del sistema e non di aggiornamento individuale a
pagamento sul mercato di una formazione/business; fare della
formazione iniziale la preparazione professionale dei docenti e non
il terreno di scontro fra pedagogisti e disciplinaristi; evitare di
“capovolgere” la classe ma far funzionare una pluralità di
ambienti operativi funzionali all’apprendimento; ricollocare le
tecnologie tutte (anche la penna e la matita) nel ruolo di strumenti;
migliorare la qualità degli insegnanti invece di andare all’incetta
degli insegnanti migliori; abolire l’alternanza scuola/lavoro e
affidare alla scuola il compito di preparare a una cultura critica
del lavoro e della realtà; mantenere e consolidare la scelta
italiana di inserimento delle disabilità nei contesti scolastici
senza limitazioni ed evitare di categorizzare e radicalizzare ogni
forma di disagio e di difficoltà; ecc. ecc. ecc.
Sarà
difficile? Sì, non c’è dubbio, ma non si dica che non è evidente
ciò che ci sarebbe da fare…
Se invece questa scuola, così com’è, come si è andata configurando in questi vent’anni, piace e convince, lo si dica apertamente e si continui così. La destinazione finale è un progetto dis/educativo che avrà ceduto le proprie prerogative costitutive e istituzionali alle regole soprattutto distorte del proprio tempo, anziché fondare sulla conoscenza del passato la basi e le competenze per la realizzazione del futuro.
Se invece questa scuola, così com’è, come si è andata configurando in questi vent’anni, piace e convince, lo si dica apertamente e si continui così. La destinazione finale è un progetto dis/educativo che avrà ceduto le proprie prerogative costitutive e istituzionali alle regole soprattutto distorte del proprio tempo, anziché fondare sulla conoscenza del passato la basi e le competenze per la realizzazione del futuro.
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