07 aprile 2017

UN RICORDO DI CLAUDIO PAVONE (1920-2016)



Dalla fine della prima repubblica ogni anno la celebrazione della Resistenza è occasione di polemiche e anche il 2017 non fa eccezione. La cosa non è poi tanto strana: sulla via della restaurazione del potere assoluto dell'economia e della finanza, senza più i fastidiosi limiti imposti da una democrazia non perfetta certo ma fondata sulla partecipazione, la Resistenza è un ostacolo che occorre eliminare. A questo scopo anche i Pansa non bastano più. E così, avvicinandosi il 25 Aprile, il Giornale , dopo il Mein Kampf, pubblica a puntate l'esaltazione della RSI da parte del fascista repubblichino Pisanò. Un libro che negli anni '60 ci si vergognava anche di esporre nelle librerie di destra. Per questo è ancora più attuale la figura e l'opera di Claudio Pavone, recentemente scomparso.


Giorgio Amico

In ricordo di Claudio Pavone (1920-2016)

É morto alla fine di novembre Claudio Pavone. Se n'è andato proprio il giorno prima del suo novantaseiesimo compleanno. Con lui scompare un pezzo importante della nostra storia, uno studioso anomalo, un uomo schivo, che non amava le cerimonie e i riconoscimenti, sempre ben attento a tenersi lontano dai luoghi del potere, senza tessere di partito in tasca, ma caratterizzato nel suo lavoro di ricercatore e nella sua vita di antifascista da una visione etica dell'impegno politico e civile.

Nato nel 1920 in una famiglia della buona borghesia romana, Pavone cresce sotto la dittatura, ma ciò non gli impedisce di maturare una coscienza antifascista. Laureato in giurisprudenza e chiamato da poco alle armi, assiste il 25 luglio al disfacimento delle forze armate e dell'apparato statale. Dopo l'8 settembre prende contatti con il Psiup - Partito Socialista d'Unità Proletaria. Arrestato, trascorre quasi un anno a Regina Coeli, poi, una volta liberato, passa al Nord dove svolge attività clandestina. Partecipa alla liberazione di Milano e di quella giornata ricorderà l'incredibile anarchia, "tra pulsione di festa e spettacolo di morte".


Nel dopoguerra va a lavorare come funzionario nell' Archivio Centrale dello Stato, dove si mette in luce come ricercatore, fino a diventare responsabile dell'Ufficio studi e pubblicazioni. La frequentazione quotidiana dei documenti e degli archivi gli consente di approfondire il suo interesse per la storia. In questa veste produce numerose pubblicazioni di grande valore per cui alla metà degli anni Settanta viene chiamato dall'università di Pisa a svolgere funzioni di professore associato. Andato in pensione Pavone riveste importanti incarichi: vicepresidente nel 1994-95 dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, presidente della Società italiana per lo studio della storia contemporanea e dal 1993 direttore della rivista “Parolechiave”.
Nel 1991 appare il suo capolavoro, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, un'opera di grande respiro, destinata a segnare una vera e propria rivoluzione negli studi sulla Resistenza vista come l'intreccio, estremamente complesso e contradditorio di tre elementi: guerra civile tra fascisti e antifascisti, guerra di classe tra proletariato e borghesia e guerra patriottica antitedesca. Un'interpretazione che definitivamente infrange il tabù della Resistenza come guerra civile, fino ad allora monopolio della pubblicistica di destra.

Con estremo rigore e non poco coraggio, utilizzando una mole enorme di materiali, Pavone ci dà in questa opera un quadro articolato di cosa è stato veramente il movimento partigiano, fornendo un fondamentale strumento non solo per comprendere cosa effettivamente sia stata la Resistenza, ma anche per capire il dopoguerra e perchè, ad esempio, negli anni Settanta serie minacce alla democrazia venissero anche da ambienti di ex resistenti (Edgardo Sogno) o di antifascisti (Randolfo Pacciardi).

Era inevitabile che un'opera così innovativa suscitasse polemiche anche aspre, ma destinate a breve vita di fronte all'accoglienza entusiastica che il libro ebbe da figure della statura di Vittorio Foa e Norberto Bobbio, tanto per citarne alcune.

Come è stato da più parti affermato, Una guerra civile, è una straordinaria e tragica opera corale, scritta con la fluidità di un romanzo dove neanche una parola è superflua. Un'opera dalle cui pagine scaturisce la forza morale, prima che politica, della Resistenza, cioè delle donne e degli uomini che lottarono, spesso sacrificando la vita, non per odio o per ideologia, ma per la umana speranza di costruire un mondo migliore su cui fondare un futuro di libertà e di pace capace di evitare il ripetersi di simili orrori. In questo sta la morale della Resistenza e la differenza con chi combatteva, magari pensando in buona fede di farlo per l'Italia, dall'altra parte. Un'intuizione profonda, già presente in embrione nelle opere letterarie di Italo Calvino e Beppe Fenoglio.
Un impegno che Pavone continuerà con la raccolta di saggi Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, in cui si spiega nell'Italia appena uscita dagli anni di piombo del terrorismo e delle stragi impunite, come nel dopoguerra gli apparati dello Stato avessero faticato a defascistizzarsi e come la mancata epurazione nella magistratura, nelle forze di polizia, fra gli alti dirigenti dell’amministrazione, avesse condizionato pesantemente per decenni la vita della Repubblica.

In questo libro Pavone parla anche di sé e racconta della sua disillusione, di quando, tornato a Roma, egli cerca inutilmente di cogliere i segni «della mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione [...] Allora, come tanti giovani, ero un estremista, e mi dispiacque il confluire nella nascente nuova Repubblica del personale fascista. In seguito Parri cercò di convincermi che sarebbe stato difficile fare diversamente. [Che] il momento della Liberazione non poteva coincidere con quello della rivoluzione, e si sarebbe dovuto fare una politica di quadri per il futuro».

Intellettuale rigoroso, Pavone fu sempre contrario a ricostruzioni storiche strumentali e superficiali, tanto da intervenire spesso contro un "neorevisionismo" alla Pansa che voleva deformare la storia recente d'Italia, rendendola più adatta al nuovo corso politico inaugurato nel 1994 dalla vittoria elettorale di Silvio Berlusconi.

«La vittoria della destra, di questa destra – dirà in un'intervista - è una ragione che si aggiunge a un motivo presente già da qualche tempo. Al fatto, cioè, che viviamo in un periodo di grave crisi del sistema politico; crisi che si intreccia con una crisi, ancora, della stessa coscienza, della stessa identità nazionale. Tornare alle tavole di fondazione della Repubblica, alla lotta antifascista e alla Resistenza è quindi una cosa positiva, salutare. I guai cominciano quando, in questa rivisitazione, invece di approfondire, distinguere, liberarsi della retorica che indubbiamente si è accumulata, si opera un mero capovolgimento di giudizio.
E invece di capire meglio cos'è stata la guerra di liberazione e quale peso ha avuto nella storia italiana — cosa che la storiografia aveva cominciato a fare, in particolare quella di sinistra — la Resistenza, da atto di fondazione, diventa improvvisamente vizio d'origine della Repubblica.Ritornare ai momenti iniziali è doveroso, anche perché la cancellazione della memoria è un fenomeno negativo, che va contrastato. I giudizi nuovi però non si formulano chiamando bianco ciò che era nero e viceversa. Oppure appiattendo tutto e tutti.
Inutile, in questo senso, fare le pacificazioni tra fascisti e antifascisti mezzo secolo dopo. Si offendono gli stessi fascisti, che se non scherzavano vuol dire che volevano un'Italia diversa da quella venuta dopo il 25 aprile. E che è tanto diversa da permettere ai fascisti, appunto, di dire e fare liberamente ciò che vogliono. Se avessero vinto loro temo che per noi non sarebbe stato lo stesso.»

Affermazioni coraggiose e chiare, di uno studioso che non si è mai nascosto dietro frasi fumose o giri di parole. Uno studioso e un partigiano di cui ci mancherà il rigore e l'esempio.

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