Dalla fine della prima
repubblica ogni anno la celebrazione della Resistenza è occasione di
polemiche e anche il 2017 non fa eccezione. La cosa non è poi tanto
strana: sulla via della restaurazione del potere assoluto
dell'economia e della finanza, senza più i fastidiosi limiti imposti
da una democrazia non perfetta certo ma fondata sulla partecipazione,
la Resistenza è un ostacolo che occorre eliminare. A questo scopo
anche i Pansa non bastano più. E così, avvicinandosi il 25 Aprile,
il Giornale , dopo il Mein Kampf, pubblica a puntate l'esaltazione
della RSI da parte del fascista repubblichino Pisanò. Un libro che
negli anni '60 ci si vergognava anche di esporre nelle librerie di
destra. Per questo è ancora più attuale la figura e l'opera di
Claudio Pavone, recentemente scomparso.
Giorgio
Amico
In
ricordo di Claudio Pavone (1920-2016)
É
morto alla fine di novembre Claudio Pavone. Se n'è andato proprio il
giorno prima del suo novantaseiesimo compleanno. Con lui scompare un
pezzo importante della nostra storia, uno studioso anomalo, un
uomo schivo, che non amava le cerimonie e i
riconoscimenti, sempre ben attento a tenersi lontano dai luoghi del
potere, senza tessere di partito in tasca, ma caratterizzato nel suo
lavoro di ricercatore e nella sua vita di antifascista da una visione
etica dell'impegno politico e civile.
Nato nel 1920 in una
famiglia della buona borghesia romana, Pavone cresce sotto la
dittatura, ma ciò non gli impedisce di maturare una coscienza
antifascista. Laureato in giurisprudenza e chiamato da poco alle
armi, assiste il 25 luglio al disfacimento delle forze armate e
dell'apparato statale. Dopo l'8 settembre prende contatti con il
Psiup - Partito Socialista d'Unità Proletaria. Arrestato, trascorre
quasi un anno a Regina Coeli, poi, una volta liberato, passa al Nord
dove svolge attività clandestina. Partecipa alla liberazione di
Milano e di quella giornata ricorderà l'incredibile anarchia, "tra
pulsione di festa e spettacolo di morte".
Nel dopoguerra va a
lavorare come funzionario nell' Archivio Centrale dello Stato, dove
si mette in luce come ricercatore, fino a diventare responsabile
dell'Ufficio studi e pubblicazioni. La frequentazione quotidiana dei
documenti e degli archivi gli consente di approfondire il suo
interesse per la storia. In questa veste produce numerose
pubblicazioni di grande valore per cui alla metà degli anni Settanta
viene chiamato dall'università di Pisa a svolgere funzioni di
professore associato. Andato in pensione Pavone riveste importanti
incarichi: vicepresidente nel 1994-95 dell'Istituto nazionale per la
storia del movimento di liberazione in Italia, presidente della
Società italiana per lo studio della storia contemporanea e dal 1993
direttore della rivista “Parolechiave”.
Nel 1991 appare il suo
capolavoro, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità
nella Resistenza, un'opera di grande respiro, destinata a segnare
una vera e propria rivoluzione negli studi sulla Resistenza vista
come l'intreccio, estremamente complesso e contradditorio di tre
elementi: guerra civile tra fascisti e antifascisti, guerra di
classe tra proletariato e borghesia e guerra patriottica antitedesca.
Un'interpretazione che definitivamente infrange il tabù della
Resistenza come guerra civile, fino ad allora monopolio della
pubblicistica di destra.
Con estremo rigore e non
poco coraggio, utilizzando una mole enorme di materiali, Pavone ci dà
in questa opera un quadro articolato di cosa è stato veramente il
movimento partigiano, fornendo un fondamentale strumento non solo per
comprendere cosa effettivamente sia stata la Resistenza, ma anche
per capire il dopoguerra e perchè, ad esempio, negli anni Settanta
serie minacce alla democrazia venissero anche da ambienti di ex
resistenti (Edgardo Sogno) o di antifascisti (Randolfo Pacciardi).
Era inevitabile che
un'opera così innovativa suscitasse polemiche anche aspre, ma
destinate a breve vita di fronte all'accoglienza entusiastica che il
libro ebbe da figure della statura di Vittorio Foa e Norberto Bobbio,
tanto per citarne alcune.
Come è stato
da più parti affermato, Una guerra
civile, è una straordinaria e tragica opera corale, scritta con
la fluidità di un romanzo dove neanche una parola è superflua.
Un'opera dalle cui pagine scaturisce la forza morale, prima
che politica, della Resistenza, cioè delle donne e degli
uomini che lottarono, spesso sacrificando la vita, non per odio o per
ideologia, ma per la umana speranza di costruire un mondo migliore su
cui fondare un futuro di libertà e di pace capace di evitare il
ripetersi di simili orrori. In questo sta la morale della Resistenza
e la differenza con chi combatteva, magari pensando in buona fede di
farlo per l'Italia, dall'altra parte. Un'intuizione profonda, già
presente in embrione nelle opere letterarie di Italo Calvino e Beppe
Fenoglio.
Un
impegno che Pavone continuerà con la raccolta di saggi Alle
origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e
continuità dello Stato, in
cui si spiega
nell'Italia appena uscita dagli anni di piombo del terrorismo e delle
stragi impunite, come nel dopoguerra gli apparati dello Stato
avessero faticato a defascistizzarsi
e come la mancata
epurazione nella magistratura, nelle forze di polizia, fra gli alti
dirigenti dell’amministrazione, avesse condizionato pesantemente
per decenni la vita della Repubblica.
In questo libro Pavone parla anche di sé e racconta
della sua disillusione, di quando, tornato a Roma, egli cerca
inutilmente di cogliere i segni «della
mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione [...]
Allora, come tanti giovani, ero un estremista, e mi dispiacque il
confluire nella nascente nuova Repubblica del personale fascista. In
seguito Parri cercò di convincermi che sarebbe stato difficile fare
diversamente. [Che] il momento della Liberazione non poteva
coincidere con quello della rivoluzione, e si sarebbe dovuto fare una
politica di quadri per il futuro».
Intellettuale rigoroso, Pavone fu sempre contrario a ricostruzioni storiche strumentali e superficiali, tanto da intervenire spesso contro un "neorevisionismo" alla Pansa che voleva deformare la storia recente d'Italia, rendendola più adatta al nuovo corso politico inaugurato nel 1994 dalla vittoria elettorale di Silvio Berlusconi.
«La
vittoria della destra, di questa destra – dirà in un'intervista -
è una ragione che si aggiunge a un motivo presente già da qualche
tempo. Al fatto, cioè, che viviamo in un periodo di grave crisi del
sistema politico; crisi che si intreccia con una crisi, ancora, della
stessa coscienza, della stessa identità nazionale. Tornare alle
tavole di fondazione della Repubblica, alla lotta antifascista e alla
Resistenza è quindi una cosa positiva, salutare. I guai cominciano
quando, in questa rivisitazione, invece di approfondire, distinguere,
liberarsi della retorica che indubbiamente si è accumulata, si opera
un mero capovolgimento di giudizio.
E invece di capire meglio
cos'è stata la guerra di liberazione e quale peso ha avuto nella
storia italiana — cosa che la storiografia aveva cominciato a fare,
in particolare quella di sinistra — la Resistenza, da atto di
fondazione, diventa improvvisamente vizio d'origine della Repubblica.Ritornare ai momenti
iniziali è doveroso, anche perché la cancellazione della memoria è
un fenomeno negativo, che va contrastato. I giudizi nuovi però non
si formulano chiamando bianco ciò che era nero e viceversa. Oppure
appiattendo tutto e tutti.
Inutile, in questo senso,
fare le pacificazioni tra fascisti e antifascisti mezzo secolo dopo.
Si offendono gli stessi fascisti, che se non scherzavano vuol dire
che volevano un'Italia diversa da quella venuta dopo il 25 aprile. E
che è tanto diversa da permettere ai fascisti, appunto, di dire e
fare liberamente ciò che vogliono. Se avessero vinto loro temo che
per noi non sarebbe stato lo stesso.»
Affermazioni coraggiose e
chiare, di uno studioso che non si è mai nascosto dietro frasi
fumose o giri di parole. Uno studioso e un partigiano di cui ci
mancherà il rigore e l'esempio.
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