27 dicembre 2020

STEFANO VILARDO RICORDA LEONARDO SCIASCIA

 





Stefano Vilardo tra due mesi compirà 99 anni. L'edizione palermitana di Repubblica oggi pubblica una intervista allo scrittore siciliano a cura di Salvatore Ferlita.
Anche se i redattori del giornale, in prima pagina, sbagliano il nome del grande scrittore di Delia (CL), riproponiamo di seguito la bella intervista di S. Ferlita


Stefano Vilardo "Io e Sciascia amici per sempre"
di Salvatore Ferlita

«Parlare di un’amicizia fraterna non rende: spesso i fratelli litigano, si mettono gli uni contro gli altri.
No, non eravamo amici fraterni: eravamo due persone in una sola».
Stefano Vilardo, alla "tenera età" di novantotto anni, appena torna a parlare di Leonardo Sciascia si infervora, i suoi occhi si accendono, la voce si fa più stentorea.
Tra i due dioscuri della letteratura siciliana del Novecento c’è uno stacco di poco più di un anno: Vilardo è nato il 22 marzo del 1922, mancano tre mesi, quindi, perché scocchi il suo novantanovesimo compleanno. Ma l’autore di "Tutti dicono Germania Germania" è già pronto per festeggiare il centenario della nascita dello scrittore di Racalmuto: «Poi dovrebbe toccare a me: vorrei arrivarci da vivo, quanto meno ci proverò, ho deciso di non mollare».
Ragioniamo per assurdo: cosa direbbe o darebbe a Sciascia, se lui fosse ancora vivo, per onorare degnamente il suo traguardo centennale?
«Più che dirgli (ce ne siamo dette assai nel corso della nostra amicizia) gli darei qualcosa: la marmellata di cotogne, che mia moglie preparava in modo eccellente. Una delizia irresistibile: Nanà ne era ghiotto, io provavo a consolarlo in quel modo nell’ultimo periodo della sua vita».
Anche in quell’occasione le fu possibile stargli vicino?
«Sì, non solo andando a trovarlo, chiacchierando del più e del meno per portare i suoi pensieri da un’altra parte. Io gli facevo le punture: diceva che avevo la mano leggera e che non gli procuravo dolore. Davvero eravamo una cosa sola. Ecco: da un lato ero il suo infermiere, dall’altro un dispensatore di confetture. Gli piaceva assai il buon cibo e io lo viziavo quando potevo».
Quindi, oltre alla cotognata, c’è stato di più…
«Altro che: una volta, in occasione di un suo compleanno, sinceramente non ricordo quale, gli feci preparare da mia moglie un piatto di origine spagnola. Una specie di focaccia ripiena di salsiccia e di erbette aromatiche.
Che strano: ne parlo e mi sembra di sentirne ancora il sapore. Gliela portai a casa in pompa magna e lui la onorò a dovere: era stato invitato a cena dai Sellerio, volle condividerla con loro. Mi disse: non potevi farmi un regalo più bello! Quella focaccia ispanica divenne il piatto principale della serata. Antonio, allora quasi bambino, ne mangiò una grande quantità, sembrava che nessuno potesse fermarlo. Una prelibatezza, mi confermò: il suo sguardo brillava, era quella la spia della sua contentezza. Altri gli regalarono ovvietà: cinture, cravatte. Le cravatte: oggi io le uso come se fossero corde (Vilardo fa una risatina sardonica), mi aiutano a sollevarmi un po’ da questo letto nel quale sono costretto a giacere».
La storia della vostra amicizia contempla, se non ricordo male, pure un coniglio…
«Sì, è vero: fu il mio regalo di nozze. Lo so, sembra una cosa strana, oggi senza senso. Glielo donai assieme a una colomba: erano tempi difficilissimi, nel dopoguerra diventava complicato pure trovare una pagnotta di pane, c’erano alcuni che preparavano le pagnotte mettendo dentro della sabbia, per farle pesare di più.
Quindi il mio fu un regalone, me lo lasci dire. Mi sta venendo quasi l’acquolina in bocca a parlare di queste cose: alla Noce Leonardo preparava un ottimo arrosto quando ci andavo, poi era ghiotto di asparagi e li raccoglievamo insieme. E non mancavano le uova cotte nella cenere, una delizia».
Tante volte lei ha rievocato gli anni dell’adolescenza trascorsi insieme a Sciascia: lei ebbe modo di accorgersi subito della sua marcia in più?
«Ma certo: intanto feci esperienza della sua profonda umanità, quando ci ritrovammo nella stessa classe, al Magistrale di Caltanissetta, io ero stato bocciato per cui lì mi trovavo in veste di ripetente. Nessuno mi voleva quale compagno di banco, solo Nanà mi disse di sedermi accanto a lui. E da quel giorno non ci divise più nessuno».
Sciascia studente: che tipo era?
«Taciturno, come al solito. Ma in grado di sorprendere Granata, il nostro giovanissimo professore di Lettere, quando consegnava il suo tema: all’inizio era convinto che Leonardo copiasse, era stupito dalla qualità della sua scrittura, dall’originalità delle citazioni. Ma va detta una cosa: prima di scrivere e consegnare il suo elaborato, Leonardo aiutava tutti i compagni, regalava un incipit, faceva superare uno stallo. Poi, nell’ultima mezz’ora a disposizione, faceva il suo tema.
Granata trascorse una notte intera per cercare le fonti, poi si rivolse direttamente al preside del Magistrale, che era Luigi Monaco.
Il quale lo rassicurò: è tutta farina del suo sacco».
Ma fuori dall’aula scolastica, com’era Sciascia?
«Un ragazzetto curiosissimo, con le mie stesse passioni: la letteratura, indubbiamente, il cinema e il teatro. Ecco, il teatro: mi diceva che da grande avrei dovuto fare l’attore, mentre lui avrebbe fatto il regista. Nanà aveva una vera passione per il palcoscenico: tra le riviste che leggevamo in quegli anni non potevano mancare Scenario e
Dramma. Che tempi: parlavamo di tutto, spesso anche della morte.
Eravamo convinti che avremmo conquistato il mondo».
A questo proposito, dalle lettere che ciascuno inviava all’altro in quel periodo, viene fuori un’energia dirompente, la voglia di sfondare a tutti i costi. È così?
«Volevamo misurarci con noi stessi, dar prova della nostra tempra. Sì: avevamo l’intenzione di esordire, venir fuori. Abbiamo messo anima e corpo per far questo: i risultati sono sotto gli occhi di tutti, Leonardo ci riuscì alla grande, io provavo a stargli dietro arrancando. E lui mi aiutò un sacco, pubblicando le prime cose, scrivendo prefazioni, sollecitandomi a recuperare dai miei cassetti quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo».
Quale, tra i libri di Sciascia, ha amato di più?
«Oggi, quando penso alle sue opere, mi ritrovo ogni volta a rievocare le pagine del "Consiglio d’Egitto" dedicate alla tortura: lì Leonardo è stato davvero grande, inarrivabile. Penso che quello sia il suo romanzo più importante, quello che ci dà la prova della sua grandezza».
Lei ha continuato a scrivere indefesso, non si è lasciato piegare dal carico degli anni e dagli acciacchi. Ha in serbo per caso qualche sorpresa?
«Nel 2021 uscirà un mio racconto, che ho affidato al nipote di Sciascia, Vito Catalano: vedrà la luce in un volume di autori vari. Ma vorrei pubblicare una raccolta di ricordi legati al mio paese, Delia.
Pensavo di intitolarlo: Preti e personaggi strani del mio paese.
Chissà, forse ci riesco».

LA REPUBBLICA, PALERMO 27 dicembre 2020
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