PRIMA DEL MALE OSCURO: GIUSEPPE BERTO E LA GUERRA IN CAMICIA NERA
di Marco Renzi
A metà degli anni Cinquanta, Giuseppe Berto era per il suo tempo un soggetto assai singolare: benché fosse già uno scrittore noto, era una figura marginale nel mondo culturale, estraneo all’egemonia culturale del Partito Comunista e fuori dalla cerchia dei salotti intellettuali romani. Inoltre, aver pubblicato sia per Longanesi (Il cielo è rosso, sul finire del 1946), sia per Einaudi (Il brigante, 1951), due editori dalla linea politico-culturale pressoché opposta, aumentava la sua ambiguità; e per quanto Leo Longanesi e Giulio Einaudi avessero apprezzato il suo lavoro, Berto non ebbe buoni rapporti né col primo né col secondo.
In seguito all’insuccesso in patria del Brigante, lodato e ben venduto all’estero, soprattutto in Unione Sovietica, a Berto occorreranno altri quattro anni prima di pubblicare un nuovo libro. Continuò a lavorare per il cinema, un mestiere che portava avanti per meri motivi economici; nel mentre, dovette rimettersi in gioco dopo l’abbandono di Einaudi, che a suo dire non lo aveva difeso dalle critiche negative piovutegli addosso tanto da sinistra quanto da destra, coi primi ad accusarlo di essere un destrorso prestato per convenienza al socialismo e i secondi a dargli del comunista-populista.
Tuttavia, il manoscritto di Guerra in camicia nera, come scrive Domenico Scarpa nel prezioso saggio Guerra, Africa e bidoni di pastasciutta che apre questa ristampa a opera di Neri Pozza (che sta lodevolmente riportando in libreria la produzione dello scrittore di Mogliano Veneto), fu dapprincipio ben valutato da due lettori einaudiani d’eccezione: Natalia Ginzburg e Italo Calvino. Ciononostante, non riuscì a trovare spazio nel catalogo dell’editore torinese; e Berto, stando a quanto riportato da Dario Biagi in Vita scandalosa di Giuseppe Berto (Bollati Boringhieri, 1999), tornò a bussare da Longanesi, che però rifiutò. Il libro alla fine uscì nel 1955 per Garzanti, la quale contava tra i suoi autori Parise, Fenoglio, Soldati e Pasolini – quest’ultimo, nello stesso anno, pubblicò Ragazzi di vita, uno dei maggiori successi dell’editore.
Fare uscire un libro intitolato Guerra in camicia nera a soli dieci anni dalla fine del conflitto, in pieno periodo antifascista, fu una scelta azzardata che di certo non aiutò la fortuna editoriale e critica del testo, recepito impropriamente come una sorta di apologia del fascismo, come il residuo di un’epoca che l’Italia voleva lasciarsi alle spalle.
È vero, come molti della sua generazione (era nato nel 1914) Berto fu fascista in gioventù, e anche se cambiò idea non rinnegò mai il suo passato; come in seguito spiegherà in varie interviste, nel suo saggio autobiografico e autocritico L’inconsapevole approccio (1965) e in parte nel pamphlet Modesta proposta per prevenire (1971) e in alcuni scritti giornalistici, non cancellò i suoi trascorsi e le sue colpe di fascista.
Guerra in camicia nera nacque da una serie di appunti presi durante l’esperienza militare in Africa dal settembre 1942 al 13 maggio 1943, giorno in cui le milizie italiane furono prese dagli alleati. Berto scrisse anche altro durante il conflitto, ma perse la macchina da scrivere; gli restò solo un taccuino, che riportò in Italia assieme a quanto aveva scritto nel campo di prigionia (dove stette dal luglio 1943 al gennaio 1946) di Hereford, in Texas, ossia Le opere di Dio (1948), Il cielo è rosso e vari racconti.
Il libro fu innanzitutto un’operazione di recupero di quelle scarne pagine di diario, rappresentative di una ferita e di un senso di colpa per aver preso parte alla guerra che Berto si portava dentro da più di dieci anni.
Come poi sottolinea Scarpa, anche qui lo scrittore «reinventa» la guerra, come già aveva fatto in modo diverso nel Cielo è rosso, dove narrò le vicende di quattro ragazzi tra le macerie di una città senza nome dietro la quale si riconosceva Treviso: un’esperienza che Berto, essendo stato prigioniero degli americani, non poteva aver vissuto. Aveva invece vissuto quanto è finito dentro Guerra in camicia nera che, malgrado l’apparente impostazione da memoir, è un romanzo dove l’invenzione gioca un ruolo fondamentale, come l’autore precisa nella premessa.
Non pretendo né desidero che questo diario abbia valore di documento storico. Mi accorgo benissimo che «io», la prima persona del diario, è un personaggio come di romanzo, e personaggi sono pure gli altri intorno a lui, perché tutti, pur condizionati di avvenimenti che io conosco assolutamente veri, si muovono in un’area di fantasia. Tuttavia spero che il mio lavoro conservi sufficiente sapore di realtà da testimoniare in me, e in tanti altri che come me servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia, una essenza morale valida anche oggi.
È quindi un romanzo sotto forma di diario, una testimonianza che non vuol passare per documento, in parte un residuo dell’ormai archiviata esperienza neorealista, da lui «inconsapevolmente» cominciata con Il cielo è rosso. Se si eccettuano i racconti (per citarne alcuni: La colonna Feletti, Economia di candele, È passata la guerra), è la prima volta che Berto racconta in un testo finzionale qualcosa da lui esperito in prima persona: e con questo libro pose l’accento su un momento che molti italiani avrebbero voluto seppellire ma del quale era necessario parlare.
Guerra in camicia nera è un testo con al centro l’io-narrante e le sue disavventure; non c’è nulla di epico o eroico: il racconto è dimesso, la narrazione è episodica e la prosa è ancor più sobria di quella vista nei romanzi precedenti. La Storia è ovunque, poiché tutto è scandito dalle date; eppure nel contempo la si dà per scontata, facendola rivivere solo attraverso lo sguardo del narratore, per mezzo del quale il lettore carpisce il contesto e le condizioni dei miliziani nel conflitto, comprendenti anche la nullafacenza e le interminabili attese del nemico; un nemico, come tipico della poetica bertiana, mai davvero considerato tale, verso cui non si spendono parole d’odio: «Noi non odiamo né gli inglesi né gli americani, anche se qui non fanno che predicare che bisogna odiarli».
Il soldato-Berto del testo è un militare sui generis; già dalle prime righe rimarca la sua inadeguatezza, la sua irregolarità. Dopo aver brevemente descritto il viaggio dalla Sicilia alle coste tunisine, si sofferma sul suo abbigliamento, che lo connota in modo goffo: non avendo premura d’indossare la divisa d’ordinanza, rispolvera quella della guerra di Etiopia.
Sono un volontario di guerra abbastanza ostinato e, devo confessarlo, sono capitato nella milizia per puro caso. Vesto una bella divisa di panno cachi, coi pantaloni lunghi, che risalente al tempo dell’Africa orientale, quand’ero sottotenente nel 25o battaglione coloniale. […] Sul bavero, alle stellette dell’esercito ho sostituito i fascetti della milizia. Benché non lo voglia, me ne esce una specie di complesso d’inferiorità.
Dettagli analoghi saranno ricorrenti nel romanzo, dove il narratore pare prendersi gioco di se stesso e del suo ruolo di militare volontario: «Sono fiero di essere un volontario, anche se alla fierezza si aggiunge quel che di ridicolo, dal quale sembra non possa andar disgiunta». È da passaggi come questo che s’intuisce un cambiamento importante nella narrativa di Berto: non sono solo i temi a dare rilevanza a Guerra in camicia nera, bensì la comparsa di un’ironia – prima assente nelle sue prose – che segnerà tutta la produzione successiva dell’autore.
In questo caso, la natura intimistica del libro va di pari passo con una cronaca oggettiva, a tratti fredda e distaccata, di quanto il narratore vive: c’è spazio solo per le sue considerazioni, e l’umorismo elimina la retorica che il lettore s’immaginerebbe d’incontrare in un racconto simile, ma non solo: l’ironia cela il senso di colpa individuale e collettivo. E qui risiede la continuità coi romanzi precedenti: nella presa di coscienza da parte dell’autore d’aver partecipato a un’azione sbagliata e di essere parte integrante del Male. Il libro è quindi un modo per far sì che la guerra venga davvero perdonata, un modo per farla rivivere a tutti gli italiani che fecero le stesse scelte di Berto, affinché non dimentichino e facciano i conti col loro passato.
Di questa guerra, io mi sento responsabile nella misura giusta, cioè quanto ne spetta a ciascun italiano che abbia capacità di intendere e di volere. Se non si volevano il fascismo e la guerra, bisognava pensarci prima. Ora ne siamo tutti più o meno responsabili, e starsene inerti a guardare gli avvenimenti è la cosa più vile che si possa fare. Da quando è scoppiata la guerra, e fin che durerà, l’identificazione del fascismo con l’Italia non è da discutersi.
Oltre ai pregiudizi che, a partire dal titolo, poteva portarsi con sé, Guerra in camicia nera era forse un racconto che nessuno voleva sentire. Come spiega Paola Culicelli in La coscienza di Berto (Le Lettere, 2012) si tratta di «una versione dei fatti non solo scomoda ma anche impopolare e anacronistica», e perciò fu stroncato – o ignorato – quasi all’unanimità dalla critica coeva.
Al romanzo, riletto oggi, si può imputare giusto una certa monotonia, ma complessivamente contiene pagine interessanti e degne di essere riscoperte, anche alla luce del testo posto in appendice, sempre firmato da Domenico Scarpa, L’officina di Guerra in camicia nera, dove il libro viene ricostruito e commentato attraverso le sue varie stesure, che furono almeno tre.
Per Berto, all’epoca della sua uscita, Guerra in camicia nera fu comunque un passo falso. Dario Biagi lo definisce come «il suo tracollo, la sua definitiva messa all’indice da parte dell’establishment letterario»; in più, lo portò nuovamente a polemizzare col suo editore. Così scrisse all’amico Gaetano Tumiati in una lettera del 19 giugno 1955: «Quel cretino di Garzanti mi ha messo insieme all’Aga Khan: Vita vissuta! Non so come andrà il libro. Per ora almeno qui a Roma, è fermo nelle librerie e i critici non ne parlano. Solo i miei tre amici personali hanno fatto delle recensioni, naturalmente buone».
Gli amici ai quali si riferiva erano senz’altro Giancarlo Vigorelli, Ornella Sobrero e Alcide Paolini, i quali spesero buone parole per il libro rispettivamente su «La fiera letteraria», «Il Ponte» e «Il caffè». Furono più o meno le sole critiche positive che ricevette: con un romanzo del genere Berto pareva aver fatto un’auto-dichiarazione di fascismo, quando invece, come illustrò Vigorelli, il testo si configurava come «il più patetico ma inesorabile atto d’accusa, d’ordine morale più che politico, contro il fascismo e la sua ottusa corruzione dell’uomo».
Ma interpretazioni come questa non furono sufficienti a salvare l’autore dalle accuse di fascismo, che erano toccate pure a Il deserto della libia di Mario Tobino, che uscì per Einaudi nel 1952 e fu criticato anche all’interno della casa editrice, nonostante contenesse un’esplicita condanna del fascismo. Il messaggio di Berto, per quanto simile, fu recepito in modo ancor più ambiguo: in particolare, destarono parecchie perplessità alcune pagine conclusive, dove una ragazza tunisina fa il saluto romano ai soldati italiani sull’autocarro, ormai fatti prigionieri dagli alleati.
Era una giovane ragazza dall’aspetto di contadina, con un vestito di cotone celeste. Probabilmente nessuno di noi l’avrebbe notata, se non fossimo stati prigionieri, e se il suo comportamento non fosse stato così diverso da quello dell’altra gente. […] Passato qualche minuto, l’autista ingranò la marcia e partì, e dietro a lui gli altri. Allora la ragazza vestita di celeste salì sul gradino della fontana, s’irrigidì sull’attenti e alzò il braccio nel saluto romano, come le avevano insegnato a casa, o alla scuola italiana. La nostra era una colonna lunga, più di settanta autocarri, e anche quelli dell’ultimo autocarro videro la ragazza rigida nel saluto, senza paura degli altri, di quelli che ci insultavano, e che erano diventati i suoi padroni.
Anche in questo brano non c’è alcuna apologia o nostalgia del fascismo, così come in tutto il testo: ma il suo punto di vista non fu compreso, e sarà anche per questo che tornerà qualche anno più tardi sull’argomento, provando a rimettere in discussione le categorie di fascismo e antifascismo e andando a creare la categoria del non-fascismo, o più precisamente dell’«a-fascismo».
Alla fine Guerra in camicia nera ebbe un successo di pubblico insufficiente sia per l’editore sia per l’autore, che da quel momento in poi vide acuirsi la sua nevrosi, dovuta parzialmente anche al suo isolamento dal campo letterario e alla sua marginalità politica.
Il libro rimane tuttavia importante per comprendere al meglio l’opera di Berto: per la sua vena ironica poi meglio sviluppata in seguito, per il racconto anti-epico e anti-retotico della vita militare, qui svelata nel lato nascosto dell’inazione e dell’attesa del nemico. Soprattutto, per quanto Berto abbia voluto insistere nella reinvenzione della sua esperienza, rimane una testimonianza di una guerra sbagliata, colonialista e fascista, com’è bene che ancora oggi venga ricordata.
Sempre nel 1955, Berto prese parte al progetto iniziale del film tratto da Il brigante, ma alla fine la cosa sfumò per delle incomprensioni col produttore Peppino Amato e il regista messicano Emilio Fernandez, che nei giorni in cui fu a Roma non diede alcun contributo alla sceneggiatura e non propose alcuna idea. Berto pensò addirittura di dirigere lui stesso il film, che poi fu girato da Renato Castellani nel 1960.
Fu proprio in quel lustro che Berto si prese una pausa dal cinema, che durò dal 1955 fino alla realizzazione del film Morte di un amico (1959) di Franco Rossi. Nello stesso periodo, per via delle delusioni professionali e a causa del peggioramento delle condizioni di salute, prese in affitto una casetta a Castelgandolfo: volle allontanarsi da Roma e dal caos cittadino.
Per lo scrittore fu l’occasione per avviare la seconda parte della sua formazione culturale e artistica; continuò a mantenersi con collaborazioni giornalistiche, intensificò gli studi e le letture riscoprendo i classici latini, su tutti Orazio con le sue riflessioni sulla tranquillità della vita bucolica.
Furono anche anni segnati dalla precarietà economica, nonché quelli del graduale innamoramento per il Sud Italia: grazie a un reportage che gli fu commissionato nel 1956 da «Il Giornale d’Italia», scoprì Capo Vaticano, vi trovò un terreno e un contadino glielo vendette a un prezzo di favore. Divenutone proprietario, vi edificò la casa che fu la principale abitazione della sua famiglia (lui, la moglie Manuela, la figlia Antonia): lì scrisse il suo capolavoro, Il Male oscuro (1964), che consacrerà Giuseppe Berto come una delle voci più aliene e significative del nostro secondo Novecento.
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