25 dicembre 2020

UN INDIMENTICABILE CAPOLAVORO

 






Riprendo dal sito https://www.minimaetmoralia.it/ un estratto dal libro L’Apocalisse è una festa di Ludovico Cantisani, uscito per Artdigiland, ringraziando editore e autore.

di Ludovico Cantisani

Ci restano da analizzare tre ultime apocalissi cinematografiche, particolarmente pregnanti ai fini del nostro discorso per il loro significato culturale e antropologico. Si tratta di tre film che in qualche modo raccolgono e sviluppano ulteriormente molti dei temi e degli snodi affrontati nei precedenti capitoli, sistematizzandoli e instradandoli ad essere raccolti in un concetto più ampio che svela un lato nascosto delle apocalissi culturali. Il primo dei tre film è Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, uscito nelle sale nel 1970 dopo una complessa produzione. Zabriskie Point non è un film apocalittico nel senso stretto del termine: ciò che mette in scena non è una fine del mondo in senso stretto, bensì un’apocalisse culturale e ideologica sognata, ma non per questo meno violenta e rigenerante delle esplosioni e dei pericoli nucleari immaginati da altri autori.

[…] Zabriskie Point sicuramente è, almeno da un punto di vista drammaturgico, il film più sperimentale di Michelangelo Antonioni; non è un caso che sia tuttora la sua opera più divisiva. La sottrazione antonioniana non aveva mai fuso a tale livello minimalismo, visionarietà e fiaba. La stessa solarità che avvolge quasi tutte le scene del film, fotografate dal recentemente scomparso Alfio Contini, differiva molto dai paesaggi industriali o comunque urbani a cui Antonioni aveva abituato il suo pubblico con i film precedenti. Lo stesso ruolo ambiguo e incontrastato giocato dalla natura è molto diverso da quello che potevano avere le isole Eolie ne L’avventura, di dieci anni anteriore: qui l’evasione, ancorché momentanea, riesce appieno, e i due ragazzi nel bel mezzo della Valle della Morte esplodono in un vitalismo erotico incontrollato.

Anche se attore e personaggio hanno lo stesso nome e al momento dell’arresto si crea un buffo gioco di parole con Marx, c’è chi ha ipotizzato che il nome di Mark vada inteso come un richiamo diretto a Herbert Marcuse, e sicuramente in una scena del film spunta dalla borsetta di Daria un libro del filosofo di Francoforte che, trasferitosi in America a seguito dell’avvento del nazismo, era diventato, a partire dagli anni ’50, una sorta di mito della contestazione giovanile. Zabriskie Point di Antonioni può essere benissimo accostato alla filosofia di Marcuse e in particolare ad Eros e Civiltà, alla contestazione di un modello repressivo di società e alla speranza in un futuro mondo edenico, post-capitalista e anti-capitalista, governato dal principio di piacere.

Tuttavia è assai difficile esaurire tutte le tematiche sfiorate da Zabriskie Point nel richiamo a un singolo filosofo. Un’altra facile lettura, sicuramente valida, si richiama alla dualità freudiana di Eros e Thanatos: il film si apre con Thanatos, ha un intermezzo di puro Eros, segue un ritorno del Thanatos fino all’indimenticabile esplosione finale che sembra unire Eros e Thanatos; ma proprio per questo motivo più che nella chiave di un’abusata oppositio, Eros e Thanatos in Zabriskie Point sembrano intrecciarsi in un più ambiguo rapporto di simbiosi e consecutio. Si tratta ovviamente di un film sull’America, unico film americano di un regista che dopo l’accoglienza feroce ricevuta al momento della presentazione non ha mai più voluto tornare a girare negli States, ma tanto Zabriskie Point non esaurisce il discorso sull’America quanto la tematica americana non esaurisce il discorso di Zabriskie Point.

Sono due le scene più visionarie del film, e queste due scene vanno necessariamente accostate per capire sotto quale ottica Zabriskie Point possa essere definito apocalittico, e quali abissi di senso quest’opera tanto controversa apra: si tratta della sequenza d’amore nel deserto e di quella dell’esplosione finale con la pioggia degli oggetti, due squarci metafisici voracemente onirici come mai erano apparsi nella filmografia di Antonioni. Il “gran rifiuto” che per vie diverse tanto Mark quanto Daria oppongono al regno della Città da cui provengono, e che sarà punito con la morte per il ragazzo ma che apparentemente porterà alla liberazione della ragazza in fuga verso l’orizzonte, via dalla banale quotidianità in cui fino a quel momento aveva trascorso le sue giornate, prende le forme del sogno e assume le logiche del volo: quello di Mark, dice Antonioni, «è un itinerario che percorre sì un lembo dell’America, ma quasi senza toccarla, e non solo perché la sorvola, ma perché, dal momento in cui ruba l’aereo, per Mark l’America coincide con “la terra”, dalla quale appunto be needed to get off, aveva bisogno di staccarsi». Nei precedenti film di Antonioni c’erano diversi accenni al volo come evasione; un meraviglioso correlativo oggettivo del disagio dei protagonisti de La notte erano i razzi inspiegabilmente sparati al cielo da un gruppo di ragazzi da diversi punti della città di Milano, e in Professione: Reporter, l’immagine del volo tentava ora il personaggio di Jack Nicholson, ora la stessa macchina da presa, ma in entrambi i casi si trattava di un conato di volo, destinato subito a collassare, a tornare a terra.

Ciò che di Zabriskie Point letteralmente suscita angoscia, nella sua logica immaginifica spesso esasperata, è invece proprio la soddisfazione, l’assenza di una autentica tensione narrativa almeno per quanto riguarda la trama principale, la facilità con cui i due protagonisti, lontani tanto dal Potere quanto da una Controcultura ormai autoreferenziale, si abbandonano al loro amore muto, prelogico, fisico. L’amplesso di Mark e Daria allora è apocalittico non solo e non tanto nel senso in cui si potevano definire “apocalittiche” le fantasie del Marchese De Sade, su cui pure potrebbe valere la pena dare una lettura biblico-escatologica; l’amplesso dei due è tanto più distruttivo quanto più creativo, e nell’atto stesso di distruggere implicitamente crea. «Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata», profetizzava il Vangelo di Matteo.

In Zabriskie Point un mondo si crea, un mondo si distrugge: un amante muore ammazzato, l’altra si allontana speranzosa verso l’orizzonte. Poco importa che apparentemente in Zabriskie Point ciò che è sostanzialmente Creazione, sia pure nella cessazione del principium individuationis che l’amplesso comporta e che lo sdoppiamento di Mark e Daria in infinite altre coppie rimarca, preceda il momento di Distruzione: si tratta di due momenti di fatto simultanei nel meccanismo ontologico che pare presiedere all’universo antonioniano e a questo film in particolare, una simultaneità che nella linearità del montaggio cinematografico non può che essere separata a livello di immagini e nuovamente accostata a livello di parallelismi e sensazioni. La visione apocalittica che chiude Zabriskie Point è allora la più positiva di quelle affrontate nel corso di questo libro, e, suggerendo già una cessazione dell’individualità e dell’identità che sarebbe stata approfondita nel successivo Professione: Reporter, potrebbe rappresentare una liberazione dal maggiore dei fantasmi dell’Occidente: non solo il consumismo, il capitalismo, la quotidianità stanca della vita che spingeva all’evasione i protagonisti dei precedenti film di Antonioni, ma il concetto stesso di individuo – ciò che in fondo accade nella festa, in ogni festa, dalle feste sacre dell’antichità fino alle moderne discoteche.

Se il personaggio di Mark è preponderante nella prima parte e con il suo carisma da ribelle puro e duro attira più facilmente la simpatia del pubblico, è Dariala vera narratrice, la vera persona loquens, la vera Cassandra: è lei a incarnare la natura profonda dell’opera, l’essenza distruttiva ma al tempo stesso positiva di Zabriskie Point di Antonioni.

È lei a incarnare il carattere festoso dell’apocalisse che scorreva sottotraccia in alcuni dei film precedentemente analizzati e che in Zabriskie affiora più chiaramente.Resta tuttavia un ultimo elemento da analizzare, a proposito del finale, accanto al carattere festoso dell’esplosione. Già Moravia nella sua analisi del film affermava che Zabriskie Point è «una profezia di tipo biblico in forma del film», che annuncia «l’ipotesi nuova e sconvolgente che un fuoco “moralistico” possa un giorno distruggere la superba Babilonia moderna, cioè gli Stati Uniti»; e accennava a un possibile collegamento fra il finale del film e l’episodio della Genesi sulla distruzione di Sodoma e Gomorra, in particolar modo al dettaglio della moglie del pio Lot che si volta indietro per guardare le fiamme che stanno devastando la loro città e che per questo viene trasformata da Dio in una statua di sale. Il riferimento all’“apocalisse localizzata” della pioggia di fuoco che distrusse Sodoma, Gomorra e le città vicine per ordine di Jahvé è evidentissimo in Zabriskie Point, decisamente il film più ricco di echi biblici dell’ateo Antonioni; al tempo stesso, spostandoci dal primo all’ultimo libro della Bibbia, la sequenza finale di Zabriskie rivela un’inaspettata somiglianza anche con una delle più celebri visioni che puntellano l’Apocalisse di Giovanni, quella della “donna vestita di sole” che, incinta di un figlio maschio destinato a governare su tutte le nazioni, si ritirava nel deserto per “milleduecentosessanta giorni” dopo essersi scontrata con il dragone rosso dell’Apocalisse reso celebre anche dai dipinti di Blake.

Stabilire se Antonioni cercasse deliberatamente di richiamare questo passo di San Giovanni è in qualche modo superfluo: ciò che conta non è tanto l’eventuale citazione diretta, quanto il ripresentarsi dell’archetipo: la donna che sta “davanti” all’apocalisse, in una dimensione in cui il Tempo è caduto, pronta ad affrontarla oppure a risorgere dopo di essa, come una fenice dalle ceneri. Lo stesso archetipo di fondo ritorna anchealla fine del primo Terminator o nel recente X-Men: Dark Phoenix, sia pure in una variante più cupa. Apparentemente speculare, in realtà la donna vestita di Sole è l’opposto della moglie di Lot, perché non guarda indietro, come presa da un’oscura nostalgia per ciò che l’apocalisse ha distrutto, ma guarda in faccia l’apocalisse in sé già trascendendola con il figlio che porta in grembo, sia esso veramente un figlio come è il caso di Sarah Connor in Terminator o una nuova consapevolezza del mondo come per la Daria antonioniana. Probabilmente, andando a ricercare nella mitologia classica, nella mitologia egizia o nella mitologia babilonese, senza grosse difficoltà troveremmo esempi ancora più antichi del medesimo archetipo, ma ciò non intacca la sua sostanza: l’apocalisse è una festa ed è spesso la donna vestita di Sole a guidarne la danza. E forse non è un caso che Antonioni, dopo aver rappresentato questo tramonto esplosivo dell’Ovest, e prima di portare Jack Nicholson in fuga da se stesso e dal suo mondo di origine fra il deserto africano e l’entroterra spagnolo, si sarebbe recato a Est, nella Cina maoista a girare un documentario per la RAI.

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