26 luglio 2022

IL "GATTOPARDO" VISTO DA MATTEO COLLURA E DA MARIO PINTACUDA

 

     Oggi mi piace mettere a confronto il corsivo del giornalista Matteo Collura, pubblicato lo scorso 23 luglio sul "Messaggero, con una pagina del diario fb dello scrittore Mario Pintacuda. Entrambi parlano con spirito critico di un capolavoro della nostra letteratura che, com'è noto, ha avuto molteplici ricadute nella vita del nostro Paese.(fv)

SICILIA E NON-SICILIA NEL “GATTOPARDO”

Mario Pintacuda


Nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa emerge, con fin troppa evidenza, una voluta contrapposizione “Sicilia/Continente” o, se vogliamo, “Sicilia/non Sicilia”, che viene sistematicamente portata avanti dall’autore non senza un certo schematismo di fondo.

La Sicilia è presentata come una terra “estrema” nel bene e nel male: il suo ambiente naturale e umano appare affascinante, non privo di mistero, splendido in molte sue manifestazioni, ma al tempo stesso legato all’inganno, all’omertà, alla falsità, al culto dell’apparenza, all’opulenza ostentata e alla miseria più degradante.

Parallelamente, la “non-Sicilia”, per chiamarla così, è connotata come un ambiente privo di grandi misteri, trasparente, esplicito, razionale, animato da (apparenti) buone intenzioni progressiste, ma al tempo stesso mediocre, piatto, burocratico, ambiguo, estraneo, sostanzialmente grigio e deludente.

La differenziazione dei “non-siciliani” è rimarcata a livello lessicale dall’uso insistente, per descriverli, di forme alterate dei nomi e degli aggettivi (soprattutto diminutivi). Basterà fare qualche esempio: Cavriaghi, il giovane ufficiale sognatore invano innamorato di Concetta (figlia del Principe di Salina), è definito “contino” o “tenentino”; Marx viene soprannominato “ebreuccio tedesco” (e qui, oltre alla “non sicilianità”, va notata una sgradevole nota razzista e reazionaria); gli ufficiali della marina inglese (che don Fabrizio guarda dal suo osservatorio astronomico) sono “giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri”; i piemontesi sono descritti dal sovrastante Russo come “liberalucoli di campagna” e, quando fanno visita al Principe, si presentano al suo cospetto con “quei loro berrettucci stazzonati e gualciti quanto quelli degli ufficiali borbonici”; uno dei loro generali appare “in giacchettino rosso con alamari neri”; e via di questo passo…

In questa ottica di contrapposizione “polare” fra Sicilia e “non-Sicilia”, è importante soprattutto l’episodio in cui il Principe riceve la visita del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, incaricato dai piemontesi di offrire a don Fabrizio un seggio in senato.

Chevalley viene subito mostrato nel suo “aspetto esterrefatto”, nel suo “sorrisetto guardingo” e nella sua “natura timida e congenitamente burocratica”; è giunto in Sicilia “dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato” imbevuto di timori e pregiudizi (“individuava un sicario in ciascun usciere del suo ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno sul proprio scrittoio”) ed è devastato dalla pesante cucina isolana (“la cucina all’olio aveva da un mese posto in disordine le sue viscere”).

Al suo arrivo a Donnafugata se ne sta in attesa “con la sua valigetta di tela bigia”, non privo di enormi perplessità sul fatto di trovarsi ancora in Italia, “timoroso di ricevere una gratuita coltellata nelle budella sue, che gli erano care benché sconvolte”.

Prelevato da Francesco Paolo, l’allampanato figlio del Principe, viene accompagnato nella fastosa dimora dei Salina (così diversa dalle abitazioni della piccola nobiltà piemontese, “che viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra”); finisce però per sentirsi a proprio agio (“l’avvenenza delle ragazze, l’austerità di padre Pirrone e le grandi maniere di don Fabrizio lo convinsero che il palazzo di Donnafugata non era l’antro del bandito Capraro e che da esso sarebbe probabilmente uscito vivo”).

L’esplicita ironia dell’autore nei confronti del nobilotto piemontese si accompagna all’elencazione dei “luoghi comuni” sulla Sicilia, ritenuta terra violenta, barbara, sanguinaria, “diversa” e incomprensibile alla mentalità “nordica”.

Nel celebre colloquio con il Principe, Chevalley esordisce subito con una gaffe: “Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna…”; l’operazione di “conquista” dell’isola viene millantata come unione consensuale e ricca di fulgidi auspici.

In un discorso ricco di lusinghe e di accattivanti prospettive, il nobilotto piemontese propone al principe di accettare la carica di senatore; della sostanziale onestà delle sue intenzioni è convinto persino il cane Bendicò che, “meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo, si accovacciò sotto la finestra e dormì”.

Quando il Principe rifiuta la proposta, motivandola con la sua ben nota teoria (tomasiana ma non solo) dell’immobilismo siciliano e invitando invece i piemontesi alla nomina dello spregiudicato don Calogero Sedàra (rappresentante della rampante ed emergente borghesia isolana), Chevalley replica con poche frasi di circostanza (“la Sicilia non è più terra di conquista, ma libera parte di un libero Stato”) e con un estremo invito a vincere la rassegnazione (“il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare”), che cade però inascoltato di fronte al granitico scetticismo di don Fabrizio.

L’indomani mattina, la partenza di Chevalley da Donnafugata viene descritta in una delle pagine più sconcertanti e sgradevoli del romanzo, che presenta la realtà siciliana nei suoi aspetti più degradati: «Intravista nel livido chiarore delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti accumulati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s'incespica agli svolti delle trazzere. Gli uomini, abbrancato lo zappone, uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono e stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l'alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee... Chevalley s'inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio. Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale dei finestrini. Chevalley era solo: fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell'indice, ripulì un vetro per l'ampiezza di un occhio. Guardò: dinanzi a lui, sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile».

Questo passo esageratamente esplicito ostenta (anche troppo) la disperata concezione tomasiana di una Sicilia irrecuperabile e condannata per sempre all’arretratezza e al degrado; il paesaggio “irredimibile” è proiezione didascalica di una sentenza di condanna senza appello.

Per Tomasi, unica oasi “metastorica”, estranea al rivoltante contesto storico e ambientale, è il paesaggio di Donnafugata, idealizzato come terra mitica dell’intimità, dei ricordi d’infanzia (si veda in proposito il racconto tomasiano “I luoghi della mia prima infanzia”, scritto intorno al 1955). Nelle ultime ore di vita, il principe di Salina ripensa ai pochi momenti felici della sua vita: e tra questi “vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il senso di tradizione e di perennità espresso in pietra ed in acqua, il tempo congelato”.

Unica soluzione all’amara disillusione storico-esistenziale dell’autore è il “congelamento” delle memorie private, lo sterile arroccarsi nei ricordi di un’antica e obsoleta esistenza “di casta”, la sfiducia e il fastidio verso tutto ciò che mira a “scongelare” il mondo antico per inaugurare una nuova epoca più borghese, più mediocre e anche (se così si può dire) “più non-siciliana”.

Inutile dire, in conclusione, che tantissimi lettori sottoscriverebbero con gioia le estreme disperate speranze di Chevalley: “questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna, cambierà tutto”.

Qui in Sicilia stiamo ancora aspettando.


Mario Pintacuda


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