“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
20 novembre 2024
KALSA: MOSTRA FOTOGRAFICA di MICHELE DI LEONARDO
LA GRANDEZZA DI J. S. BACH
UNA LETTERA AL PADRE DI F. KAFKA
Franz Kafka, Lettera al padre (1919)
Giustamente hai rivolto il tuo disprezzo alla mia attività di scrittore e a quanto, a te ignoto, le era collegato. Qui davvero mi ero allontanato autonomamente da te di un bel pezzo, anche se questo ricordava un po' il verme che, calpestato sulla coda da un piede, la abbandona e si trascina di lato con la parte anteriore. Un po' di sicurezza ce l'avevo, potevo tirare un sospiro di sollievo, e il disprezzo che naturalmente provavi per il mio scrivere mi era eccezionalmente benvenuto. La mia vanità e il mio amor proprio soffrivano naturalmente per il modo, ormai celebre per noi, con cui salutavi l'arrivo dei miei libri: "Mettilo sul comodino!" (perlopiù giocavi a carte quando arrivava un libro); ma in fondo esso sortiva un effetto benefico, perché quella formula suonava per me come: "Adesso sei libero!". Naturalmente era un'illusione, non ero o, nel più favorevole dei casi, non ero ancora libero. Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata. Ma quanto era poco, tutto ciò! Vale la pena di parlarne soltanto perché si è verificato nella mia vita; altrove non sarebbe minimamente degno di nota, e comunque soltanto perché ha dominato la mia vita, nell'infanzia come presagio, poi come speranza e dopo ancora, spesso, come disperazione, e mi ha dettato alcune piccole decisioni, se si vuole, ancora informate alla tua persona. Ad esempio la scelta della professione. Certo, tu mi hai dato piena libertà, alla tua maniera generosa e in questo senso perfino paziente. Tuttavia nel far ciò hai seguito anche il modo comune di trattare i figli da parte del ceto medio ebraico, che aveva per te un valore normativo, o comunque i giudizi di valore di tale ceto. Infine una certa influenza ha avuto uno dei tuoi fraintendimenti rispetto alla mia personalità. Tu mi ritieni infatti, da sempre, per orgoglio paterno, per ignoranza della mia vera esistenza, per le conclusioni che trai dalla mia debolezza, particolarmente studioso. Secondo te da bambino non facevo altro che studiare e poi non ho fatto altro che scrivere. Non è vero, neppure lontanissimamente. Si può semmai dire, con molta meno esagerazione, che ho studiato poco e non ho appreso niente; il fatto che in molti anni mi sia rimasto qualcosa, con una memoria decente e un'intelligenza non delle peggiori, non è poi molto strano, ma il risultato complessivo quanto alla conoscenza e soprattutto ai suoi fondamenti è comunque estremamente deplorevole, rispetto al dispendio di tempo e denaro e nel contesto di una vita esteriormente spensierata e tranquilla, in particolare anche in confronto a quasi tutta la gente che conosco. E deplorevole, ma per me comprensibile. Ho avuto, da quando so pensare, preoccupazioni così profonde relative all'affermazione spirituale dell'esistenza, che tutto il resto mi era indifferente. I ginnasiali ebrei da noi sono facilmente tipi singolari; tra loro si trovano le persone più improbabili; ma la mia indifferenza fredda, appena velata, indistruttibile, infantilmente inerme, quasi ridicola e animalescamente autocompiaciuta di bambino sufficiente a se stesso ma freddamente fantastico non l'ho ritrovata mai, per quanto qui fosse l'unico riparo contro la distruzione dei nervi da parte della paura e del senso di colpa. L'unica cosa che mi interessava era la preoccupazione per me stesso, che assumeva però le forme più differenti. Ad esempio come preoccupazione per la mia salute: cominciò in sordina, ogni tanto qualche leggera apprensione per la digestione, la caduta dei capelli, una deviazione della spina dorsale e così via; poi tutto ciò si intensificò nel corso di innumerevoli passaggi, fino a divenire una vera malattia. Ma poiché non ero sicuro di niente, avevo bisogno ad ogni momento di una nuova conferma della mia esistenza, niente era veramente e indubbiamente di mia esclusiva proprietà, proprietà che fosse determinata univocamente da me, così divenni naturalmente insicuro anche della cosa a me più vicina, il mio stesso corpo; crebbi molto in altezza ma non sapevo che farmene, il carico era troppo pesante la schiena si curvò; non osavo quasi muovermi o addirittura fare ginnastica, rimasi debole; se tutto quello di cui ancora disponevo sorprendeva, quasi fosse un miracolo, ad esempio la mia buona digestione, questo bastava a farmela perdere, e così era aperta la strada per ogni ipocondria, finché per lo sforzo sovrumano di volermi sposare (tornerò a parlarne) mi è uscito sangue dai polmoni, cosa della quale può essere in parte responsabile anche l'appartamento nel palazzo Schonbirn, che però mi serviva solo perché credevo di averne bisogno per scrivere, e così è attinente a questa lettera. Quindi tutto ciò non è dovuto al superlavoro, come tu immagini da sempre. Ci sono stati anni in cui io, in piena salute, ho trascorso più tempo in ozio sul divano di quanto tu abbia fatto in tutta la tua vita, malattie comprese. Quando fuggivo da te occupatissimo, era in massima parte per andarmi a sdraiare in camera mia. Il mio rendimento complessivo sia in ufficio (dove peraltro la pigrizia non dà molto nell'occhio e inoltre era tenuta entro certi limiti dalla mia pavidità) che a casa è minimo; se tu ne avessi un'idea, rimarresti sconvolto. Probabilmente il mio impianto non è affatto pigro, ma per me non c'era niente da fare. Là dove ho vissuto ero rimproverato, giudicato, sconfitto; e fuggire altrove mi procurava una tensione estrema, ma non era fattibile, si trattava di una cosa impossibile, irraggiungibile con le mie forze, senza eccezioni di sorta. In queste circostanze ho avuto quindi la libertà di scegliermi la professione. Ma ero ancora capace di far davvero uso di una tale libertà? Confidavo davvero di riuscire a raggiungere una vera professione? La mia autostima dipendeva da te più che da qualsiasi altra cosa, ad esempio da un successo esteriore. Quello era il ristoro di un istante, nient'altro, ma dall'altra parte il tuo peso mi trascinava sempre più violentemente verso il basso. Non sarei mai andato al di là della prima elementare, pensavo; eppure ci riuscii, e mi dettero persino un premio; ma certamente non avrei superato l'esame di ammissione al ginnasio; eppure ci riuscii; ma adesso naturalmente all'esame di ammissione al ginnasio mi bocceranno; no, non fui bocciato, e continuai a riuscire. Ma questo non mi dette fiducia alcuna, anzi, fui sempre convinto--e ne avevo la prova formale nel tuo atteggiamento sprezzante-- che tanto più riuscivo tanto peggio sarebbe finita.
http://www.salottoconti.it/public/F.Kafka_Lettera-al-Padre.pdf
STRUTTURA e SOVRASTRUTTURA - MARX e GRAMSCI
STRUTTURA E SOVRASTRUTTURA - lo scheletro e la pelle
UN IMPORTANTE CONVEGNO SUL MONDO CONTADINO A CASA CERVI
19 novembre 2024
IL COMUNISMO DI PASOLINI
LA SAGGEZZA RIVOLUZIONARIA DI MAO
18 novembre 2024
PREMIATA CLARISSA ARVIZZIGNO
Nel congratularci con Clarissa Arvizzigno per il riconoscimento del suo originale spirito creativo, ci piace ricordare che questo blog è stato tra i primi a pubblicare alcuni suoi versi inediti. (fv)
RACCONTARE IL TERRITORIO
Raccontare il territorio
Monica Di Sisto«Non odiare i media, diventa media». Jello Biafra, frontmen della band americana Dead Kennedys, alla fine degli anni Novanta sintetizzò in questo storico verso la scommessa dei media indipendenti nati dall’appropriazione da parte dei movimenti sociali delle nuove opportunità di comunicazione aperte da internet.
La “rete delle reti”, ancora lenta e parzialmente diffusa, aveva offerto ad attivisti e associazioni presenti nelle sale stampa dei grandi vertici internazionali della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale del commercio, la possibilità di raccontare, dal proprio punto di vista, negoziati e decisioni. Storie, analisi, interviste, ma anche istruzioni su come coordinare, dall’interno, nel modo simbolicamente e concretamente più efficace, le proteste che esplodevano in strada.
Il portale Indymedia, che in Italia conobbe in quegli anni una delle esperienze regionali più partecipate ed efficaci, riuscì a offrire letture della globalizzazione diverse ma autorevoli, facendo conoscere a un pubblico più ampio voci di docenti, esperti e scrittori non mainstream: da Noam Chomsky a Amartya Sen, da Susan George a Walden Bello, da Vandana Shiva a Naomi Klein. Indymedia consentiva, per di più, a chiunque si registrasse, con la sicurezza di server indipendenti, la possibilità di produrre e caricare contenuti audiovisivi da ovunque si trovasse nel mondo, anche in forma anonima.
Diventò, così, la prima opportunità nell’epoca digitale, per i portatori di proposte, pratiche, denunce e vertenze anche iperlocali, di presentarsi al mondo e far emergere la propria iniziativa in tempo praticamente reale. Molta stampa e tv internazionale cominciò, così, a “pescare” dai media indipendenti storie e notizie, ma anche conferme o approfondimenti rispetto alle narrazioni ufficiali.
IL RITORNO DELL’INFORMAZIONE LOCALE
Con l’avvento dei social media, la lente attraverso cui osserviamo il mondo si è sempre più avvicinata al nostro naso: la maggioranza dei contenuti informativi che diffondono sono prodotti da abitanti delle piattaforme non professionali, che si contendono l’attenzione degli altri partecipanti anche a colpi di esagerazioni, titoli a effetto e fake news.
Le piattaforme sono proprietà di grandi società digitali che monetizzano e indicizzano i contenuti non secondo trasparenti criteri di qualità o popolarità, ma grazie ad algoritmi e regole in gran parte riservati, perché parte integrante della costruzione della loro ricchezza.
I più giovani, inoltre, come spiegò ormai qualche anno fa l’allora responsabile della direzione “conoscenza e informazione” di Google, per aggiornarsi su quello che succede intorno a loro non interrogano motori e filtri di ricerca, ma si affidano a media prevalentemente visivi come Instagram e TikTok.
Aprono e scrollano, consegnandosi mani e piedi alla profilazione degli algoritmi che tendono a mettere in priorità i video e le informazioni in base alle tendenze, ma anche alla localizzazione di chi si connette.
Le dimensioni territoriale e locale sono, per questo, abbastanza presenti nell’offerta di informazione digitale attuale: attirano click, hanno riportato il centro del newsmaking nella cronaca, spesso anche spicciola e di gossip. Per l’Italia è una sorta di ritorno alle origini.
È la Treccani a ricordarci che il primo giornale italiano stampato è la Gazzetta di Mantova, uscita nel 1664. Il primo quotidiano è il Diario Veneto edito nel 1765 a Venezia, mentre quello più longevo è la Stampa, nato a Torino nel 1797 come Gazzetta Piemontese e ancora solidamente radicato nel capoluogo piemontese.
La dimensione social/local, dunque, è solo un nuovo spazio in cui l’informazione può e deve imparare ad espandersi, in un corpo a corpo con le ragioni delle piattaforme.
L’osservatorio di Harvard dedicato alle “Predizioni” sulle tendenze dell’informazione a livello globale, per quanto riguarda il 2024, ha ricondotto a questa dimensione alcune delle novità più significative. Il “Laboratorio Nieman” indica nei media locali la fonte principale d’informazione per oltre l’80% degli statunitensi perché ritenuta più affidabile.
In Italia il 74,1% degli italiani non rinuncia a informarsi con i media tradizionali – radio, tv e giornali, anche se oltre l’83% dichiara di farlo sul web, spiega il Censis. Sono circa 3 milioni e 300 mila (il 6,7% del totale) gli individui che hanno rinunciato ad avere un’informazione puntuale su ciò che accade, in gran parte per sfiducia rispetto all’attendibilità di tutte le fonti.
Negli Stati Uniti, come contromisura alla disaffezione, molte realtà filantropiche sostengono in modo permanente media locali storici, emergenti o nuove finestre social, per consentire un “ecosistema informativo sano”, lo definiscono, che alimenta la ricucitura sociale locale e l’attivazione di cittadini e realtà del territorio.
A Roma il podcast Sveja, sostenuto dal programma “Periferia capitale” della Fondazione Charlemagne, con la voce di alcuni dei giovani giornalisti più virali, presenta una rassegna stampa delle notizie più significative della cronaca e della politica cittadina con la chiave dell’innovazione sociale e ambientale.
Con il sostegno della Tavola Valdese, Articolo 22 e la casa editrice gli Asini, danno vita a MIP, il Festival di giornalismo di esteri e di comunità “Mondo in periferia”6, anticipato da corsi di giornalismo e tele-radioreporting popolari, per sostenere nuove iniziative di reporting locale.
L’ESPERIENZA DEI GIORNALI DI STRADA
Un’esperienza storica, solida in Italia, è quella dei cosiddetti “giornali di strada”. Piazza Grande a Bologna è il primo, inizialmente scritto e redatto interamente da persone senza fissa dimora, cui si affiancano, nel corso degli anni Novanta, tra gli altri, Scarp’ de tenis a Milano e Fuori binario a Firenze.
La vendita delle copie, affidata alle stesse persone in difficoltà, consente loro una piccola entrata, ma soprattutto la possibilità di dire la propria e di costruire un legame stabile e potenzialmente risocializzante con le realtà comunitarie che li editano.
Tra le loro pagine si trovano storie minime di resistenza quotidiana, ma anche analisi sui sistemi sociali e amministrativi cittadini e nazionali, letti con una prospettiva dal basso verso l’alto. La loro più recente iniziativa comune, tenutasi a Firenze, ha ragionato sul “giornalismo riditributivo”, per l’autorappresentazione dei più poveri.
La sfida, a confronto con le “realtà alternative”, potenzialmente infinite, accelerate dall’introduzione nell’infosfera dell’intelligenza artificiale, è, a giudizio di chi scrive, quella. dell’informazione “lenta e a filiera corta”: radicata, reattiva e ricostituente.
Contro la passivizzazione indotta dalla produzione/fruizione compulsiva e solitaria al cellulare, l’informazione di comunità crea le premesse analitiche, narrative e materiali dell’attivazione sociale.
Con l’usabilità attiva delle “pagine di quartiere”, quelle che ti fanno recuperare la chiave perduta e denunciare violazioni e abusi, ma con quella professionalità e profondità che proteggono lettori e utenti da voyerismo e gogna mediatica stile “diretta dalle favelas”. Una lezione di stile e mestiere che farebbe bene anche a tanto mainstream.
Pubblicato anche su Agenzia Stampa Cult
CROCE, FALCE E MARTELLO PER RICORDARE TURIDDU CARNEVALE
In questo blog abbiamo ricordato più volte Turiddu Carnevale. Oggi vogliamo farlo con queste belle foto di Angelo Pitrone e con i versi famosi di Ignazio Buttitta:
“Ancilu era e nun avia l’ali
….nun era santu e miraculi facia
ncelu acchianava senza cordi e scali
e senza appidamenti nni scinnia
era l’amuri lu so capitali
e sta ricchizza a tutti la spartìa
Turiddu Carnivali nnuminatu
e comu Cristu murìu ammazzatu”
Tramite il motore di ricerca interno al blog si possono facilmente trovare gli articoli che abbiamo pubblicato in memoria di Turiddu. (fv)
17 novembre 2024
COSTRETTI ALLA FUGA
Costretti alla fuga
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) mostra in questo rapporto pubblicato nel mese di novembre 2024, le interazioni tra conflitti, crisi climatica e sfollamenti forzati e lancia un appello: solo interventi urgenti e inclusivi possono arginare una crisi in continua espansione.
«Quella notte è stata indimenticabile perché la nostra casa è stata inondata in pochi minuti. Non avevamo altra scelta che andarcene subito». Per la terza volta nella sua vita Bahadur Khan, un rifugiato afghano di 60 anni che vive nella provincia pachistana di Khyber Pakhtunkhwa, è stato costretto a trasferirsi forzatamente. La prima volta a causa della guerra civile in Afghanistan all’inizio degli anni ‘90, la seconda nel 2010, quando le inondazioni hanno distrutto la sua casa. Due anni fa il campo profughi di Kheshgi, in Pakistan, dove Bahadur si era trasferito, è stato demolito da un’alluvione.
Quella di Bahadur è la storia di tante e tanti sfollati, costretti a migrare più volte a causa delle molteplici interazioni tra conflitti, crisi climatica e sfollamenti forzati. Una persona su 67 nel mondo è sfollata, quasi il doppio rispetto a un decennio fa. Delle oltre 120 milioni di persone in fuga nel mondo, tre quarti vivono in paesi fortemente colpiti dai cambiamenti climatici. La metà si trova in luoghi colpiti gravemente sia dai cambiamenti climatici che dai conflitti: Etiopia, Myanmar, Haiti, Somalia, Sudan, Siria.
I dati contenuti all’interno del rapporto UNHCR: «No Escape: On the Frontlines of Climate Change, Conflict and Forced Displacement» 1, pubblicato lo scorso 12 novembre durante la COP29 a Baku, in Azerbaigian, rivelano che il cambiamento climatico è una minaccia crescente per le persone già in fuga da guerre, violenze e persecuzioni.
Il numero di sfollati forzati nel mondo non è mai stato così alto, in parte a causa della velocità e della portata dei cambiamenti climatici. La situazione è particolarmente allarmante nel Sahel e nel Corno d’Africa. Il conflitto in corso in Sudan ha causato oltre 11 milioni di sfollati, di cui quasi 700.000 in Ciad. Nella zona orientale del paese, dove si trovano molti rifugiati, le forti piogge e le inondazioni distruggono regolarmente i rifugi e le infrastrutture di base. A questo si aggiunge la presenza di gruppi armati lungo il confine tra Sudan e Ciad.
Secondo il rapporto, il quadro è destinato ad aggravarsi: entro il 2040, il numero di paesi che dovrà affrontare rischi estremi legati al clima è destinato a passare da 3 a 65, la maggior parte dei quali ospiterà – o già ospita – rifugiati e sfollati interni. Come Camerun, Ciad, Sud Sudan, Nigeria, Brasile, India e Iraq.
«L’emergenza climatica rappresenta una profonda ingiustizia», ha dichiarato Filippo Grandi 2, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. «Le persone costrette a fuggire, e le comunità che le ospitano, sono le meno responsabili delle emissioni di carbonio, eppure stanno pagando il prezzo più alto. I miliardi di dollari di finanziamenti per il clima non arrivano mai a loro e l’assistenza umanitaria non riesce a coprire adeguatamente il divario sempre più ampio. Le soluzioni sono a portata di mano, ma è necessaria un’azione urgente. Senza risorse e sostegno adeguati, le persone colpite rimarranno intrappolate».
Secondo i dati UNHCR contenuti nel report, attualmente gli Stati più fragili ricevono solo 2 dollari a persona per i piani di adattamento, a fronte dei 161 dollari pro capite destinati agli Stati non fragili. In più, la maggior parte dei finanziamenti viene destinata alle capitali, lasciando le aree rurali completamente scoperte. Dove ricostruire edifici e mezzi di sussistenza a seguito di disastri ambientali diventa pressoché impossibile. Come impossibile è il ritorno a casa per chi è sfollato.
In ogni rapporto, torna centrale il tema del raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi: questo perché gli impegni delle Parti a mitigare le emissioni di gas serra sono ancora tristemente al di sotto di quanto necessario per rimanere entro il limite di 1,5°C. Le conseguenze sono tangibili: gli eventi climatici estremi continuano ad aumentare, anche in territorio europeo.
Proteggere, includere, investire, accelerare: le parole chiave per invertire la rotta
La crescente influenza degli impatti della crisi climatica richiede misure innovative e urgenti: per questo, secondo UNHCR, gli scenari peggiori possono essere evitati attraverso approcci integrati, incentrati sulla protezione e sul genere, sui diritti umani e sulla pace.
L’Agenzia ONU propone allora un forte invito all’azione. Basato sulla protezione delle persone sfollate, applicando e adattando gli strumenti giuridici esistenti. C’è bisogno che gli stati garantiscano che il diritto internazionale sui rifugiati, il diritto internazionale umanitario e i diritti umani in senso ampio vengano rispettati. I Piani nazionali di adattamento e sviluppo, che affrontano la crisi climatica, dovrebbero poi incorporare disposizioni per la protezione delle persone sfollate, soprattutto in quei contesti dove conflitti e disastri ambientali allo stesso modo mettono a rischio i diritti umani.
Per realizzare strumenti efficaci, le voci e le esigenze specifiche delle popolazioni sfollate e delle comunità ospitanti devono avere un ruolo di primo piano. I paesi riuniti alla COP29 dovrebbero allora consentire alle comunità altamente vulnerabili sul clima di partecipare in modo significativo alle discussioni politiche, riconoscendo le capacità e la leadership di cui sono portatori. Infine, ulteriori investimenti nelle comunità più fragili e nei paesi più a rischio devono essere accompagnati da una forte accelerazione nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica per prevenire ulteriori disastri climatici.
Alla COP29 in Azerbaigian si sta parlando soprattutto di soldi. Più nello specifico, del “Nuovo obiettivo finanziario per il clima”: i paesi delle Nazioni Unite devono stabilire quanti soldi dovranno essere impegnati nei prossimi anni, e con quali tempistiche. Quelli messi a disposizione finora sono stati utilizzati soprattutto per programmi di mitigazione, e non di adattamento. A cui è stato dedicato un Fondo speciale, il Fondo Loss and Damage 3, istituito ufficialmente alla COP28. Lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha lanciato un appello 4 per aumentare i finanziamenti del Fondo. Entrerà in funzione nel 2025, comincerà quindi a erogare tra 215 e 387 miliardi di dollari l’anno fino al 2030. Lo ha annunciato il presidente della COP29 e ministro dell’Ecologia e delle Risorse Naturali dell’Azerbaigian, Mukhtar Babayev 5.
Restano aperti numerosi interrogativi: i Paesi più colpiti dai disastri ambientali si sono opposti soprattutto alla scelta di affidarne il funzionamento alla Banca Mondiale, che potrebbe dare priorità alle scelte dei paesi europei e dell’America del Nord. C’è poi il timore che i fondi non siano sufficienti, o che sia già troppo tardi.
- No Escape: On the Frontlines of Climate Change, Conflict and Forced Displacement, novembre 2024 ↩︎
- Dichiarazione Filippo Grandi, 12 nov 2024 ↩︎
- Articolo di Lifegate sul fondo “Loss and Damage” Cop28 ↩︎
- Appello SG Antònio Guterres, 13 novembre 2024 ↩︎
- Annuncio Presidente della COP29 e Ministro dell’Ecologia e delle Risorse Naturali Azerbaigian, Ansa, 13 novembre 2024 ↩︎
IL DENARO NON E' SOLO UNA COSA
Il denaro non è solo una cosa
Quasi tutti i rapporti tra la persone sono ormai mediati dal denaro. Sembra impossibile che non lo siano. Ma il denaro è prima di tutta un tipo di relazione sociale, una relazione enormemente distruttiva, che provoca la morte di migliaia di persone ogni giorno, per fame, mancanza d’accesso alle cure, per violenza. Come possiamo aprire crepe in queste dominio? Una risposta è: non è più possibile. Un’altra dice: l’unica possibilità è costruire una organizzazione che un giorno, nel futuro, avrà la forza di rovesciare il sistema. Un’altra ancora, parte dal presupposto che qualsiasi dominazione nasconde dentro di sé le forze di opposizione che tendono alla rottura. Quello che viene chiamato marxismo aperto, ad esempio, è una scommessa teorica e politica, dice John Holloway, che si concentra nella ricerca, attraverso forme diverse di resistenza e ribellione, di punti di rottura. “Ciò ci porta a un’altra comprensione della rivoluzione, non tanto come qualcosa di futuribile ma come un processo…”. Il rischio di questo approccio? Favorire una valutazione esagerata e romantica delle lotte, ma nella situazione in cui ci troviamo di distruzione accelerata, non sembra sufficiente per scoraggiare nuove forme di resistenza
Si può intendere il capitalismo come una coesione sociale o una totalità di relazioni sociali. Ciò che facciamo forma parte di un insieme sociale che non controlliamo ma che si regge su una certa struttura con una propria logica e dinamica. Per Marx, il fondamento di questa struttura sociale è il fatto che ci rapportiamo attraverso lo scambio di mercanzia. Questo fondamento genera una serie di forme sociali come il valore, i soldi, il lavoro, il capitale. E specialmente, genera una società dominata per il denaro e caratterizzata per lo sfruttamento di gran parte della popolazione, obbligata a lavorare per aumentare l’accumulazione del capitale. Questa logica sociale è criticata da Marx nella sua opera “Il Capitale” ed è il tema centrale della cosiddetta Nuova Lettura di Marx, sviluppata durante ultimi quarant’anni. Fino a qui nessun problema. Siamo tutti d’accordo che la società attuale ha una coerenza o coesione che la spinge a una logica di sviluppo, in una dinamica che non controlliamo. È anche chiaro che questa dinamica è enormemente distruttiva, che impone limiti rispetto a ciò che possiamo realizzare nella vita, di quello che pensiamo, e che è la causa di morte e miseria tutti i giorni, che così pure distrugge la biodiversità e che molto probabilmente ci sta portando all’estinzione della specie umana.
Quello che il marxismo aperto questiona è il significato di questa logica; non la sua esistenza. Il fatto che ci relazioniamo per mezzo dello scambio delle merci, ossia attraverso il denaro, produce una dinamica sociale che si può interpretare come un oggetto in sé, una totalità, come una logica. La forza di quest’oggetto, di questa totalità, di questa logica, la sperimentiamo di fatto tutti i giorni della nostra vita. Non si tratta di negare questa logica, ma bensì di metterla in discussione, perché ci interessa interromperla, non continuare a riprodurla.
Come spezzare la forza di questa coesione sociale che ci confronta come un “Oggetto immutabile”, come una Logica schiacciante, come una Totalità onnipotente? Una delle risposte è che non è più possibile, che la forza dell’Oggetto è tale che le rivoluzioni falliscono e l’unica cosa che possiamo fare è capire il funzionamento del sistema di dominazione. Un’altra risposta è affermare che è vero, che le ribellioni popolari non ci porteranno lontano, che l’unica cosa che possiamo fare è costruire una organizzazione (partito) che un giorno, nel futuro, avrà la forza di rovesciare il sistema.
Il marxismo aperto cerca di infrangere ambedue le prospettive. Non si può capire il Capitalismo unicamente come sistema di dominazione, dato che qualsiasi dominazione è una lotta, un processo che confronta e provoca una risposta, una resistenza e una ribellione. La logica del capitale e del denaro, è una processo di imposizione costante, un processo che si contrappone con la resistenza e la ribellione. Allora è bene capire le categorie di questa logica, come concettualizzazioni della lotta, e approfondirle per scoprire l’antagonismo sociale che nascondono. Il denaro per esempio, non è solo una cosa, è una relazione sociale, ma è una relazione sociale antagonistica, e la sua propria esistenza e riproduzione non si possono dare per scontate. L’imposizione del denaro come relazione sociale, causa la morte di migliaia di persone ogni giorno, per fame, mancanza d’accesso alle medicine, per violenza. Inoltre suppone una costante resistenza nello sviluppo di tutti gli altri modi di fare le cose, nella lotta contro la monetizzazione dell’educazione, dell’attenzione medica, dell’accesso alla musica, dei furti.
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Il denaro ha un’enorme forza come espressione centrale della coesione sociale attuale, però è anche un processo di lotta costante, non di fatto. Le categorie della dominazione nascondono dentro di sé le stesse forze che spingono nella direzione opposta e che tendono alla rottura. Le identità occultano (o ci provano) una anti-identità che rompe con la sua logica. L’identità è una lotta – mai pienamente riuscita – per integrare le anti-identità nella sua logica. La logica del capitale è una logica identitaria e la speranza con la scienza e la lotta, sono anti-identitarie.
Il marxismo aperto, in questo contesto, comincia dalla resistenza e dalla ribellione, non tanto per negare l’esistenza della dominazione e la sua dinamica logica, quanto per capire la dominazione e la sua logica come processi aperti e non pre-determinati. Dietro a questo argomento teorico, c’è una differenza di prospettiva politica. Dietro alla teoria della Nuova Lettura di Marx, o non si tratta della questione della rivoluzione o si dice che la rivoluzione è necessaria senza complicare il suo significato come la sua possibilità. Si stabilisce una distinzione tra la logica del sistema e le lotte sociali e si assume che queste ultime siano incluse nella logica sistemica fino a un prossimo e agognato futuro della rivoluzione. Si attribuisce una enorme forza alla coesione sociale esistente. Il pericolo di questo approccio è che potrebbe scoraggiare le ribellioni sociali e contribuire all’accettazione della logica distruttrice del capitalismo.
L’approccio del marxismo aperto intende la totalità come un processo totalitario costantemente in discussione; si centra nella resistenza e nella ribellione e cerca i punti di rottura in questo processo totalizzante. Ciò ci porta a un’altra comprensione della rivoluzione, non tanto come qualcosa di futuribile ma come un processo attuale di “screpolamento” della coesione sociale, intaccando l’essenza del Denaro e lo Stato. Il pericolo di questo approccio è che potrebbe portare a una valutazione esagerata e romantica delle lotte, anche se nella situazione attuale in cui ci troviamo di distruzione accelerata, quello mi sembra il minor pericolo per scoraggiare la lotta.
È un dibattito teorico-politico da sviluppare.
Questo articolo è stato scritto per la presentazione (marzo 2024) del libro Open Marxism. Against a Closing World (Pluto Press e Ediciones Tool) che raccoglie interventi di Ana Cecilia Dinerstein, Alfonso García Vela, Edith González e John Holloway.
Traduzione per Comune di Antonella Scano.
PARTIGIANI PER LA PACE