28 ottobre 2024

IL PROSSIMO 2 NOVEMBRE L' OPERA DEI PUPI A PALERMO

 


I FALLIMENTI DI TUTTE LE FILOSOFIE DELLA STORIA

 




     Le Monde des livres pubblica questa settimana due schede su libri che hanno per tema il senso della storia. Qualcosa che sembra comportare il riferimento a una più generale filosofia della storia e che oggi viene per lo più vista come l'oggetto di una vana speculazione. Stando, infatti, a una ormai classica opera di Karl Löwith, la filosofia della storia in tutte le sue accezioni non si dà, non è in  grado di assumere una forma razionalmente accettabile. Naturalmente delle speculazioni in materia esistono e continuano a circolare dando alimento a previsioni tanto generose quanto stravaganti. I libri considerati nella rassegna non pretendono di riproporre chissà quale sviluppo destinato a compiersi in futuro. Il primo dei due ragiona al passato sulla caduta della fede nel progresso e non va molto oltre. Il secondo, di un filosofo che fu uno tra i seguaci di Althusser, assume la forma di un testo letterario e punta tutto sul mantenimento di un orizzonte, senza nulla promettere quanto all'approdo finale in un universo di redenzione o di salvezza. 

Florian Larminach, « Histoire de “la fin de l’histoire”. Une enquête philosophique »,
PUF, 298 p.  

 

La pubblicazione nel 1992 di La fine della storia e l'ultimo uomo, di Francis Fukuyama (Flammarion),

ebbe un tale impatto che molti attribuirono la paternità di questa espressione al ricercatore americano.

Tuttavia con lui visse la sua “apoteosi”, scrive Florian Larminach, se non il canto del cigno, dopo due

secoli di teorizzazioni successive, da Kant a Fukuyama, passando per Marx, Comte e Kojève. È questo

lento viaggio che il filosofo ripercorre, ricordando che interessarsi alla “fine della storia” equivale a

chiedersi cosa resta dell’idea che essa avrebbe un significato – altrimenti è difficile vedere come

finirebbe per trovare la sua destinazione. Il che rende questo lavoro colto e preciso un'indagine sull'idea

di progresso, e sulla sua cancellazione, al centro di una storia che forse ora dovrà fare a meno di una

fine, vale a dire di una meta.

 

Jacques Rancière, « Au loin la liberté. Essai sur Tchekhov », La Fabrique, 128 p.

Cosa può fare la letteratura di fronte alla questione del senso della storia? Non creando

personaggi che fungessero da "portavoce" delle erudite profezie dello scrittore, dimostra

Jacques Rancière in questo breve e brillante saggio sulla politica della letteratura, basato

su un'attenta lettura dei racconti di Anton Cechov (1860 -1904). Dispiegata tra l'abolizione

della servitù della gleba e il periodo dei sollevamenti rivoluzionari, l'opera del russo funge

qui da spazio in cui leggere, anche nei movimenti contraddittori dei suoi personaggi, le

condizioni di una libertà che non potrà mai essere promessa. Compito dello scrittore, scrive

Rancière, è quello di inserire “lo strappo della libertà lontana nel tempo della servitù”. 

Prospettiva modesta ma preziosa, mostra il filosofo, perché riesce a mantenere il senso

di una libertà possibile, facendoci “tenere gli occhi aperti sulla sua presenza

in lontananza”.

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Karl Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia,

il Saggiatore, Milano 2010

L’esigenza di attribuire un significato ultimo all’incessante scorrere degli eventi ha condotto il pensiero moderno a individuare nella storia un progresso, uno sviluppo che potesse giustificarne ogni crisi, ogni male e ogni inevitabile dolore. Eppure, molto prima del metodo storiografico di Voltaire o della grande filosofia dello spirito di Hegel, gli storici dell’età classica Erodoto, Tucidide e Polibio avevano già rinunciato a questa monumentale prospettiva. Per il pensiero classico, infatti, le gesta degli uomini seguono il corso dell’eterna ciclicità del cosmo; non il corso della rivoluzione sociale, ma della rivoluzione immutabile degli astri. Fra queste due visioni antitetiche della storia si colloca, secondo Karl Löwith, la prospettiva giudaico-cristiana, che opera una rottura fondamentale: tanto per il credente quanto per il filosofo della storia, il senso degli eventi non è racchiuso nel passato, ma in un futuro escatologico sempre a venire, capace di determinare ogni fatto alla luce di una storia della salvezza, al cui termine è attesa la redenzione. Ma se il primo è in grado di portare la croce, il secondo secolarizza la speranza religiosa nell’incondizionata fede nel progresso, tanto «cristiana nella sua origine» quanto «anti-cristiana nelle sue conseguenze». Accolto fin dalla pubblicazione nel 1949 come un classico della filosofia contemporanea, e riproposto dal Saggiatore per la sua limpida attualità, Significato e fine della storia è l’avvincente archeologia dei presupposti teologici che operano in ogni filosofia della storia, decretandone drammaticamente il fallimento. Uno smascheramento – dall’ebraismo di Marx fino alla lettura storica della Bibbia – che non ha rinunciato a evidenziare quelle rare e amate eccezioni, come Burckhardt e Vico, capaci di mantenere sotto il peso dell’eredità storica una prospettiva più umana, e che porta a una tesi di sconcertante radicalità: l’impossibilità della filosofia della storia. (presentazione editoriale)

 

Pubblicato da Giovanni Carpinelli  in  https://machiave.blogspot.com/2024/10/dove-va-la-storia.html

 

 


NECESSARIO UN NUOVO GOVERNO DEL TERRITORIO

 

Un nuovo governo del territorio


Guido Viale
28 Ottobre 2024

In Romagna e poi in Emilia, come in altre regioni italiane o negli Stati Uniti dopo gli ultimi uragani, e ancor più in molti altri Paesi del mondo, con tanta più efficacia quanto più sono poveri, si sono formate delle squadre e delle reti di mutuo soccorso che tendono a farsi permanenti con il ripetersi degli eventi estremi. Di fronte alla crisi climatica e alle devastazioni ambientali accumulate nel tempo, l’intervento sulle cause del riscaldamento globale infatti non basta, scrive Guido Viale, occorre intrecciarlo con l’adattamento, cioè con la capacità di creare le condizioni della convivenza con un ambiente molto più ostico. Serve un modo nuovo di occuparsi del territorio. Ovviamente occorrono anche interventi di portata generale, ma è solo nel locale che possono essere importanti

Foto di Bologna for Climate Justice. Per avere informazioni e aggiornamenti su dove andare a dare una mano nelle aree alluvionate in Emilia Romagna è possibile seguire il canale Telegram PLAT – Piattaforma di Intervento Sociale

In ritirata di fronte all’evidenza dei fatti, il negazionismo climatico e ambientale torna con forza alla ribalta ovunque, favorito dall’inerzia, dalla pochezza o dall’opportunismo dei governi e delle élite di quasi tutto il mondo. Un contesto in cui il governo italiano sguazza. Ma se – dicono – l’Italia concorre solo per lo 0,7 per cento alle emissioni climalteranti globali, che senso ha adoperarsi tanto per ridurle, perdendo competitività, se altri non lo fanno per niente o con il dovuto impegno?

Di fronte alla crisi climatica la competitività è un concetto da abbandonare. In questo ambito serve la cooperazione: tutti devono fare la loro parte. Nemmeno i maggiori emettitori di gas di serra potrebbero imporre da soli una svolta significativa alla crisi climatica senza il concorso della maggior parte degli altri Paesi.

Ormai è chiaro che non si riuscirà a mantenere la temperatura globale al di sotto del +1,5 C° rispetto all’epoca preindustriale e nemmeno “ben al di sotto” dei +2 C°, come auspicato dagli accordi di Parigi (CoP 26, 2015), anche se non è ancora chiaro qual è il punto di non ritorno, oltre il quale qualsiasi tentativo di fermare il deterioramento del clima sarà vano. In questo lasso di tempo la mitigazione (intervenire sulle cause del riscaldamento globale) dovrà fare la sua parte, ma sempre più intrecciata con l’adattamento, cioè creare le condizioni della convivenza con un ambiente molto più ostico.

Occorre dunque attrezzarsi per vivere in un mondo non solo senza combustibili fossili, ma con meno energia disponibile, meno acqua, e discontinua, meno colture, meno allevamenti e meno alimenti (o con alimenti molto diversi); con un’interruzione frequente delle forniture di beni, attrezzature, materie prime e semilavorati anche essenziali, come si è già sperimentato durante e dopo il covid; con case, strade, impianti e posti di lavoro periodicamente distrutti, come durante e dopo un’alluvione, un grande incendio o un terremoto e con molte parti del territorio diventate impraticabili. È ciò che ci aspetta mano a mano che gli eventi estremi si faranno più frequenti e più intensi. Ma è anche ciò di cui oggi nessuno vuol sentir parlare: dai politici all’uomo della strada, dai giornalisti agli scrittori e agli accademici.

In un contesto del genere l’ambito operativo principale è necessariamente locale, mentre i grandi disegni di geoingegneria, oggi contrabbandati per adattamento – non a condizioni più ostiche dell’ambiente, ma al businnes as usual dei fossili – dalla cattura e sequestro del carbonio alla fertilizzazione degli oceani o alla schermatura dell’atmosfera, quand’anche praticabili sono carichi di rischi.


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Adattamento significa allora riduzione dei consumi energetici e materiali superflui, recupero integrale di scarti e prodotti dismessi, copertura del fabbisogno energetico con fonti rinnovabili, riassetto idrogeologico e rinaturalizzazione del territorio, agricoltura e allevamenti di prossimità e alimentazione conseguente, trasporto pubblico flessibile, reti urbane facilmente riparabili, sostegno al reddito e ricollocazione di chi rimane senza lavoro (cose da fare non mancheranno certo). E squadre di intervento sempre pronte per ogni evenienza con il coinvolgimento di tutta la popolazione. Per ottenerlo occorre promuovere, creare e consolidare relazioni personali e dirette, “fare comunità”.

Ma chi si può far carico di tutto questo? Dalle attuali classi dirigenti politiche e imprenditoriali non c’è nulla da aspettarsi. Ma in Romagna, e poi in Emilia, come in altre regioni italiane, o negli Stati Uniti dopo gli ultimi uragani, e ancor più in molti altri Paesi del mondo, con tanta più efficacia quanto più sono poveri, si sono formate delle squadre e delle reti di mutuo soccorso che tendono a farsi permanenti con il ripetersi degli eventi estremi. La solidarietà diventa un fattore formidabile di adattamento al contesto. È questo, insieme alle aggregazioni che si formano intorno alle lotte contro la chiusura di una fabbrica o una Grande Opera devastante, il nucleo elementare di una nuova governance del territorio, intorno alla quale può crescere una rete di comitati, associazioni ed enti impegnati nella ridefinizione delle politiche locali, fino al coinvolgimento dei livelli amministrativi. Certo l’ambito locale non basta: occorre arrivare alla formulazione di progetti, programmi, rivendicazioni e proposte di respiro e portata generali, ma la possibilità di imporle ricade esclusivamente sull’iniziativa locale.


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LA RADIO DEI POVERI CRISTI DI DANILO DOLCI

 





Non ci vorrebbe anche oggi una "radio dei poveri cristi"? (fv)

"IL LIMONE LUNARE" di Danilo Dolci

 


Limone lunare
Anche le piante dopo scaricate, si riposano.
Mi sento come un limone lunare
che non riposa mai.
Si chiamano lunari perché ogni luna butta le sue zagare
senza risparmio, non tutte infruttano –
casca la vecchia foglia dalle nuove,
gialle le deperite, come noi.
Quando si coglie l’ultimo limone
giallo maturo, è verde il piccolo
e affaccia il nuovo fiore, in ogni tempo
senza darci la secca.
Si raccolgono quando non c’è altri
e hanno altro valore.
Arrivano a cent’anni come noi
se si è sinceri, non ci viene il male
si resiste meglio:
a guardare una pianta di lunari
non pare mai inverno.
Danilo Dolci, Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi, Laterza, Bari 1970

27 ottobre 2024

CONTRO IL DOMINIO DEL DENARO

 


Vita contro denaro. Elogio delle follie necessarie


John Holloway
27 Ottobre 2024

Il denaro, silenzioso e incontestato, colora il mondo con un grigio che non percepiamo perché non ne conosciamo altro. Tuttavia la ribellione contro il dominio del denaro è costante, diffusa in tutto il mondo e assume ogni giorno direzioni diverse, alcune sono alimentate perfino dalle nuove destre. Ma come fa il denaro a governare il mondo? Perché è possibile sostenere che la vita è contro il denaro? Prendere le parti della vita contro il denaro è follia? Un testo di John Holloway fa sue queste domande

Le foto di questo articolo si riferiscono alla festa del microcredito promossa dalla Comunità delle Piagge il 19 ottobre 2024. In questa periferia fiorentina sono nati il Fondo etico e sociale e Mag Firenze (info@magfirenze.it) che fanno solo prestiti per progetti sociali a chi è escluso dal sistema di credito, senza chiedere garanzie patrimoniali e senza interessi. La foto in alto è dedicata allo sketch ispirato a una scena (“In banca“) del film Tu mi turbi del 1983, diretto da un allora straordinario Roberto Benigni

Nella serie di comunicati del 2021 che annunciavano il loro Viaggio per la vita, iniziato in Europa, gli zapatisti hanno parlato del “conflitto attuale in tutto il mondo: denaro contro la vita. E in questo conflitto, in questa guerra, nessuna persona onesta dovrebbe essere neutrale: con il denaro o con la vita”. Probabilmente la maggior parte di noi riconosce una verità in questo. E allo stesso tempo, sentiamo che è ridicolo, impossibile. Come possiamo pensare una verità impossibile? Soldi contro la vita, la vita contro il denaro: follia. Voglio esplorare questa follia.

Il denaro pervade le nostre vite così profondamente che non lo vediamo. È una seconda natura: una costruzione sociale data per scontata come l’aria che respiriamo. Il centro stesso del potere, ma non appare quasi mai nelle discussioni sul potere. Pur essendo la chiave per il modo in cui le persone si relazionano tra loro, è quasi assente dalla sociologia. È il più grande tabù, più della sessualità o del genere. Possiamo mettere in discussione i ricchi, ma non il denaro come forma di relazione sociale. Possiamo studiare i dettagli dei movimenti finanziari, ma la nozione di una società senza denaro è assurda. Il denaro, silenzioso e incontestato, colora il mondo con un grigio che non percepiamo perché non ne conosciamo altro. Modella la grammatica del nostro pensiero e del nostro discorso con la stessa sicurezza che i paraocchi mettono sugli occhi di un cavallo.

Il denaro è l’armatura dell’attività sociale. Ogni società è un modello di coesione sociale o, meglio, una confluenza sociale di attività. Le attività umane sono socializzate, in qualche modo messe in relazione. Nel capitalismo, come ha sottolineato Marx, questa confluenza è realizzata prevalentemente attraverso lo scambio di merci e questa confluenza di merci genera ed è facilitata dal denaro. È soprattutto attraverso il denaro che le attività umane sono messe in relazione tra loro.

Come modo di sfruttare le attività, il denaro è enormemente potente. Come dice Ferguson (2019), “il denaro è la radice del maggior progresso… l’ascesa del denaro è stata essenziale per l’ascesa dell’uomo … l’innovazione finanziaria è stata un fattore indispensabile nell’avanzamento dell’uomo dalla misera sussistenza alle vertiginose vette della prosperità materiale che oggi hanno così tante persone…”. Oppure, come Marx ed Engels lo definiscono, la regola del denaro, concentrata nelle mani della borghesia “è stata la prima a mostrare ciò che l’attività dell’uomo può produrre. Ha compiuto meraviglie ben superiori alle piramidi egiziane, agli acquedotti romani e alle cattedrali gotiche” (1848/1976, 487). Se confrontiamo le meraviglie che l’attività umana ha realizzato da allora attraverso la gestione del denaro con ciò che Marx ed Engels avevano visto, un progresso ben al di là di qualsiasi cosa avrebbero potuto immaginare, diventa chiaro quanto sia folle proporre l’abolizione del denaro.

Il problema sta nell’imbracatura. Un’imbracatura viene messa su un cavallo (o su una coppia di cavalli) per imporre una certa direzione ai suoi movimenti. Se due cavalli sono imbrigliati (o aggiogati) insieme per tirare un aratro, ad esempio, questo dirige il loro movimento, su e giù, su e giù, in modo molto efficace per lo scopo di coltivare i raccolti, ma molto lontano da quello che sarebbero le loro attività in assenza dell’imbracatura (o giogo). Nel denaro abbiamo un cablaggio che impone una direzione all’attività umana. Converte l’attività in lavoro, o ciò che Marx chiamava “lavoro astratto” o “alienato”. Le attività sono legate tra loro in un certo modo, determinato non dagli attori stessi ma dalla socialità impersonale del denaro-vincolo: questa socialità impersonale che è la regola del denaro è spinta avanti non da una decisione consapevole ma dal perseguimento della propria espansione personale. Il progresso umano è modellato dall’impulso costante dell’auto-espansione del denaro, o del valore (di cui il denaro è l’espressione più visibile).

L’enorme progresso compiuto senza dubbio dalla capitalizzazione del denaro non è un progresso neutro: esso è determinato dal perseguimento del profitto (l’auto-espansione del valore/denaro). Ciò crea due grossi problemiPrimo, quello che fa all’attività umana: costringendo all’attività-lavoro, impone alle persone un’attività-vita che non controllano né per contenuto né per ritmo e il cui prodotto è appropriato al servizio del profitto. In altre parole, il progresso monetario è basato sullo sfruttamento. Oltre a questo, il progresso monetario è enormemente distruttivo. “I prezzi economici delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa sbatte giù tutte le mura cinesi” (Marx ed Engels 1848/1976, 488). Distrugge comunità, lingue, foreste, modi di relazionarsi con altre forme di vita. Abbatte la possibilità di sopravvivere fuori dal denaro: milioni di agricoltori di sussistenza sono costretti a integrarsi nel dominio del denaro lasciando le loro fattorie e trasferendosi nei bassifondi delle grandi città. Ed è sempre più evidente che la sua artiglieria pesante sta distruggendo le condizioni necessarie per l’esistenza umana, sta distruggendo l’ambiente naturale.

Soldi contro la vita. Ovvio, ma difficile da dire. La preoccupazione per il futuro della vita umana è cresciuta enormemente negli ultimi anni, ma il tabù del denaro è enormemente potente. Moltissime persone dedicano la loro vita alla lotta contro la distruzione dell’ambiente, lottano per la conservazione delle specie vegetali e animali, lavorano per la sostituzione dei combustibili fossili con altre fonti di energia. Tutto questo è molto importante, ma resta entro i limiti imposti non mettendo in discussione l’incontestabile, non menzionando l’indicibile: la regola del denaro.

Il cavallo armato va su e giù tirando l’aratro, su e giù. L’umano armato va al lavoro la mattina, va al lavoro la mattina, va al lavoro la mattina…

“Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. […] la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle leggi naturali della produzione, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse”.

La regola del denaro è la regola della ottusa compulsione delle relazioni economiche. Marx ha ragione. Ma Marx ha torto.

Quali che siano i pensieri e le azioni ribelli dei cavalli, non è certo vero che per gli esseri umani la ottusa compulsione delle relazioni economiche sia totale. La ribellione contro il dominio del denaro è costante. Si esprime nei sogni, nel sabotaggio, negli scioperi, nelle malattie reali o finte, nei collassi mentali, negli studenti che fanno il dottorato come fuga temporanea, nei progetti che sviluppano modi alternativi di vivere senza denaro, in relazioni d’amore e di amicizia dalle quali il denaro è escluso, nell’evidenza speculare di tutto l’apparato di contenimento e controllo, dalla polizia alle carceri, dalle scuole agli psicologi. Il denaro governa, ma la vita reagisce. Il denaro non è solo dominio, ma antagonismo, un processo di attacco affrontato da contrattacco.

La vita contro il denaro è insita nel dominio antagonista del denaro. Il denaro contiene ma la vita trabocca. La vita è più che la sopravvivenza: la sopravvivenza è la vita contenuta da una ottusa compulsione, per seguire la distinzione di Raoul Vaneigem, ma la vita è più di questo. La vita è il traboccamento di ricchezza dal denaro-ricchezza, la presenza oggi del mondo che non è ancora, ma potrebbe essere. Il grigiore con cui il denaro riempie il mondo nasconde un milione di lotte, aneliti appassionati, resistenze disperate e ribellioni. Ma non è sufficiente.


La Bottega Equazione della Comunità delle Piagge
Reading di Saverio Tommasi “I quattrini non fanno la resistenza”

Non è abbastanza. Il denaro governa ancora. Perché permettiamo a questa peculiare forma di organizzazione chiamata denaro, a questo porcile, di entrare in noi e di spingerci verso la nostra stessa estinzione? In parte è semplicemente violenza. Il governo del denaro è sostenuto quotidianamente dall’uso e dalla minaccia della violenza, molto più di quanto suggerisca la citazione di Marx. Ma c’è anche un elemento di compulsione ottusa. La compulsione ottusa implica una nozione di contratto. Nel caso del cavallo imbrigliato, c’è un implicito accordo che il proprietario del cavallo nutrirà il cavallo e fornirà riparo. Nel caso dei lavoratori umani, esiste un contratto esplicito di lavoro che fornisce al lavoratore cibo e riparo e assicura la ripetizione quotidiana del lavoro.
Al di là del contratto salariale, esiste una sorta di contratto sociale. La nozione liberale di contratto sociale è fuorviante, in quanto suggerisce l’esistenza di un popolo omogeneo che accetta il sistema attuale di governo. Eppure la riproduzione del dominio del denaro non è basata solo sulla violenza diretta o sull’egemonia ideologica. Esiste un compromesso materiale (o contratto sociale) che sottende il contenimento della vita all’interno del denaro. Esiste una sorta di accordo in base al quale le persone (compresi i lavoratori oppressi) dicono “chiuderemo gli occhi alla violenza e all’ingiustizia e agli orrori del sistema, a condizione che…”. Il “purché” possa essere “purché noi abbiamo abbastanza da mangiare, purché i nostri figli abbiano una vita più facile di quella che abbiamo avuto, purché noi siamo in grado di avere gli smartphone, purché ci sia un buon servizio sanitario, purché il riscaldamento globale sia tenuto sotto controllo, a condizione che la crescita economica consenta di soddisfare le nostre aspettative”. “Chiuderemo gli occhi su Gaza e sul coinvolgimento attivo nel genocidio di tanti governi, a condizione che possiamo andare a casa ogni giorno e avere una buona cena”.

L’ottusa costrizione della vita quotidiana che mantiene in vigore il governo del denaro è assicurata non solo dalla violenza o dall’ideologia ma da un compromesso materiale e in continuo cambiamento che varia enormemente per diversi gruppi di persone, ma è sufficiente a tenere gli occhi chiusi, per mantenere i nostri paraocchi al loro posto. Si è detto che il governo cinese accetta di dover mantenere un tasso di crescita annuo del 6 per cento per garantire la stabilità sociale: questo può non essere vero, ma esprime graficamente la nozione di un compromesso materiale tra la nostra accettazione e un certo livello di ricompensa materiale.

Che cosa succede se questo contratto si rompe? Sta succedendo?
Il contratto sociale è un contratto di contenimento: manterremo la nostra attività entro certi limiti, a condizione che ci dia quello di cui abbiamo bisogno per vivere. Questa è l’essenza del contratto di lavoro (il contratto per la vendita della nostra forza-lavoro) e del contratto sociale in generale. Un fallimento del contratto significherebbe che il contenimento non contiene più.

Le due parti del contratto sono fragili. Il capitale è la costante ridefinizione di “certi limiti” entro i quali deve essere contenuta la nostra attività. Questo fenomeno è spesso indicato come “la tendenza al calo del tasso di profitto”. Il denaro (o la sua forma sviluppata, capitale) lega insieme l’attività umana in un modo che contemporaneamente espelle quell’attività e la sostituisce con le macchine che ha prodotto. Ciò crea una pressione per intensificare il lavoro di coloro che rimangono a coprire i costi della macchina. Se ciò non può essere fatto, l’auto espansione del valore rallenterà e il tasso di profitto diminuirà. Per riprodursi, il capitale è costretto a diventare sempre più esigente, a intensificare lo sfruttamento ed eliminare ogni uso di risorse che non contribuisca alla redditività. Il capitale è una spinta costante a stringere i limiti entro cui si trova la nostra attività, a subordinare la vita umana e non umana alla sua logica. Sembra che questo contenimento stia diventando più difficile, che il capitale non sia in grado di sfruttarci a sufficienza per mantenere un tasso di crescita allo stesso livello del passato.

L’altro lato del contratto, il “a condizione che ci dia quello di cui abbiamo bisogno per vivere…” è anche fragile. Il salario reale è cresciuto poco negli ultimi quarant’anni. I sistemi statali di sostegno sociale sono diminuiti. La pandemia e le restrizioni sociali che l’accompagnavano non hanno soddisfatto le nostre aspettative della vita di cui potevamo godere. Quando pensiamo al futuro e alla vita dei nostri figli, c’è una sensazione ancora più forte che il sistema non ci stia fornendo ciò di cui abbiamo bisogno. Poi vediamo orrori come Gaza e pensiamo che va ben oltre quello che possiamo accettare. Terremo gli occhi chiusi a condizione che … , ma a condizione che … non sia soddisfatta.

“Articolo Femminile. Analisi illogica della carta stampata”, concerto lettura con Daniela Morozzi e Stefano Cocco Cantini
“Da dove vengono i soldi che utilizziamo” è stata la chiacchierata introdotta e facilitata da Gianluca Carmosino (redazione di Comune) che ha coinvolto Fuori Binario, Collettivo di Fabbrica – Lavoratori Gkn, Associazione Prima materia, Ultima Generazione, Comunità delle Piagge, Mondeggi Bene Comune e Fondo etico e sociale

Il contratto sociale è un contratto tra denaro e vita: noi ti diamo del denaro, tu ci dai la vita. Noi ti diamo i soldi e tu accetti l’ottusa costrizione della vita quotidiana, giorno dopo giorno, su e giù, su e giù… Vi diamo i soldi e accettate una vita di sfruttamento, una vita che è soggetta e definita dalla logica della nostra auto-espansione.

Ma il capitale non si sta espandendo abbastanza. Questo ci dice che non siamo sfruttati abbastanza, che il capitale deve sfruttarci di più. Oppure, se questo non può essere raggiunto, allora deve mantenere il sistema in funzione fingendo di sfruttarci sufficientemente. Ciò si ottiene separando la rappresentazione monetaria del valore dal valore effettivamente prodotto. In altre parole, aumentando il debito. Il debito permette la riproduzione del capitale sulla base di un plusvalore che non è ancora stato prodotto, ma che si prevede sarà prodotto domani. La riproduzione del capitale negli ultimi quarant’anni o giù di lì è stata fortemente basata sull’espansione globale del debito su scala senza precedenti. Si tratta di un’espansione del capitale fittizio, capitale che non è basato sulla produzione reale di valore. Ciò favorisce la riproduzione del contratto sociale, ma lo fa sulla base di una crescente fragilità, volubilità e inefficienza.

Un lato del tentativo di mantenere la stabilità del sistema è finto basato sull’espansione del debito. L’altro lato è semplicemente la violenza: l’ascesa di Stati sempre più autoritari, il crescente potere della polizia e dell’esercito, il divieto e la repressione delle proteste.

Il contratto sociale si sta spezzando? O, come viene talvolta detto, siamo nel bel mezzo di una crisi della civiltà? La domanda diventa più interessante se aggiungiamo: la civiltà è basata sulla regola del denaro che si rompe? È la regola del denaro sopra la vita in crisi? La vita trabocca dal suo contenitore, il denaro?

Esiste certamente una concezione liberale della crisi della civiltà che ha molto peso. In questa prospettiva, la tolleranza civile che ha prevalso nel dopoguerra è ora minacciata. Si registrano alti livelli di occupazione, si riduce la povertà, si registra una limitata migrazione, non si verificano guerre importanti, la posizione delle donne e delle minoranze sessuali è migliorata in modo evidente. Questo è ora messo in pericolo dalla crescita della nuova destra in molte parti del mondo, con le loro dottrine di odio contro i migranti, le donne, i gay e i loro attacchi alla democrazia. Di conseguenza, dobbiamo difendere la democrazia, la civiltà, la tolleranza, combattere la nuova destra e votare contro di essa in ogni occasione.

L’argomento liberale è enormemente potente. Ma poi ricordiamo che la civiltà di cui parlano è una civiltà basata sul governo del denaro, sul governo del capitale. La regola del denaro “abbatte tutti i muri cinesi”, come hanno detto Marx ed Engels, e ora sta abbattendo la civiltà che lo ha sostenuto. Difendere la civiltà significa difendere il dominio del denaro che sta distruggendo la civiltà.

Meglio, allora, partire dalla vita, non dalla civiltà-denaro. La vita è ricchezza contro denaro. È il nostro che-cosa-potremmo-fare contro la trappola imposta su di noi dal denaro. Il nostro che-potremmo-fare, la nostra potenza di creazione, le nostre forze produttive contro i rapporti di produzione imposti dal denaro. È antagonistico, è rabbia, rabbia contro il dominio del denaro. Vogliamo rompere questa civiltà-denaro, non difenderla.

Ma la rabbia scorre in direzioni diverse. Questo è il problema. C’è la rabbia dignitosa, la digna rabia degli zapatisti: una rabbia che lotta per la vita e contro il dominio del denaro, una rabbia che trabocca. Ma poi c’è anche l’identificazione della rabbia, la rabbia che si muove all’interno dell’identificazione del contenimento del denaro-stato-capitale. L’ascesa della Nuova Destra è l’ascesa dell’identificazione, dell’attribuzione di un’identificazione astratta alle persone, del loro etichettamento, del loro essere altro. Una volta etichettati, le persone sono disumanizzate, diventano eliminabili, homo sacer. Le etichette sono gli occhiali sui nostri occhi che ci impediscono di vedere le persone nei loro dolori e nelle loro passioni, nelle loro speranze e nei loro amori. La rabbia dignitosa lotta per far cadere quei paraocchi, per riconoscere il dolore nascosto dall’identità. Questo significa non etichettare i sostenitori della nuova destra, ma riconoscere il dolore nascosto da quella identità.

Il denaro si identifica, la vita trabocca. Identificando, la rivolta contro la civiltà-denaro rafforza il denaro. La vita va nella direzione opposta. La sfida non è difendere la civiltà (la civiltà del denaro, della morte), ma lottare contro l’identificazione della rabbia. Anche noi siamo arrabbiati, contro un sistema che sfrutta e distrugge, non contro i migranti o le donne o gli arabi. La rabbia scorre e si trasforma: negli ultimi dieci anni si è contorta e trasformata in modo spaventoso in forme identitarie che causano miseria e minacciano di accelerare la corsa verso l’estinzione.

Follia. Siamo tornati da dove abbiamo iniziato: la vita contro il denaro. Prendere le parti della vita contro il denaro è follia. La follia dell’impossibilità necessaria, della necessità impossibile.

La lotta della vita contro il denaro è costante e onnipresente. Amore, amicizia, fratellanza, unirsi per fare le cose in modo diverso, camminare nella direzione sbagliata, resistere, lottare… Zapatisti, Rojava, tante lotte che lottano per trovare una via d’uscita. Meraviglioso. Ma non abbastanza.

Le lotte si riproducono nel capitale, si manifestano nella crisi delle forme capitalistiche, nella crisi del denaro e dell’espansione del debito per accogliere la ribellione, nella crisi degli stati i cui confini sono invasi dal crescente flusso di persone. Le lotte della vita e del denaro rendono più fragile la regola del denaro. Ma non è abbastanza. Siamo ancora pazzi.
Siamo costretti a una sorta di idea di punto di svolta. Non un crollo del capitale a causa delle sue contraddizioni interne: non è questo, perché noi siamo la contraddizione interna, il nostro rifiuto o incapacità di produrre più plusvalore. Non una rivoluzione futura, perché questo significa un momento impossibile di rottura tra subordinazione ora e poi vittoria e cambiamento. Piuttosto un punto di svolta: un accumulo di resistenze e ribellioni, di ricchezze, di non-ancora, di aneliti e pensieri e lotte e condivisioni, di creare crepe nella trama del dominio, di rifiutare di identificare la nostra rabbia, di trasformarla in odio. Una crescente consapevolezza che la vita è incompatibile con il mantenimento del dominio del denaro: una consapevolezza derivante da un reale cambiamento nel rapporto tra “progresso” e distruzione. Un sussulto di ricchezze, resistenze e ribellioni che si è scatenato sulla collina, nella speranza e con la determinazione di non venire più a rotolare giù come Sisifo, ma vadano oltre, acquistando slancio, spingendosi verso un mondo non governato da soldi: non con un decreto di abolizione di Pol Pot, ma con l’espulsione del denaro dall’istruzione, dall’assistenza sanitaria, dal diritto all’abitare, dal cibo, dalla progettazione urbana, quindi fuori dal mondo. E in questo sussulto e spinta si moltiplicano discorsi come questo, in elogio delle follie, delle follie necessarie.


Testo preparato per una lezione web (traduzione di Comune) promossa dalla rivista Resistance. A Journal of Radical Environmental Humanities, diretta da Marco Armiero e nata all’interno della casa editrice statunitense University of Nebraska Press. Qui il video-intervento di Holloway. Il tema della ribellione al dominio del denaro è al centro anche del suo ultimo libro, La speranza. In un tempo senza speranza (ed. Punto Rosso), di cui è possibile leggere un capitolo qui (il 29 ottobre, h 21, viene presentato sul canale youtube del Collettivo La gauche):

Nell’archivio di Comune, gli articoli di John Holloway sono leggibili qui


PIRANDELLO DI SBIECO


 

     Leonardo Sciascia, anche grazie al giovane Gramsci, ha colto immediatamente la grandezza di Pirandello. Grandezza riconosciuta da tutti nel mondo intero.

       Dopo tutto quello che è stato scritto sull’agrigentino  sembrava che non ci fosse più altro da dire. Invece bisogna riconoscere che Salvatore Ferlita, in un agile libretto di 120 pagine, è riuscito a dire cose nuove sul grande autore guardandolo "di sbieco"... (fv)


25 ottobre 2024

LE CONDIZIONI DI BASE NECESSARIE PER L'AFFERMAZIONE DELLA DEMOCRAZIA

 


ROUSSEAU E VOLTAIRE SULL' ORIGINE DELLA DISUGUAGLIANZA DEGLI UOMINI

 


Voltaire a Rousseau, lettera del 30 agosto 1755, a ringraziamento per l' invio del Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes.

 

"Signore, ho ricevuto il vostro nuovo libro contro il genere umano e ve ne ringrazio. Piacerete agli uomini cui dite le verità che li riguardano, senza peraltro correggerli. Vi rappresentate con colori molto persuasivi gli orrori della società umana, la cui ignoranza e debolezza si ripromettono tante delizie. Nessuno ha mai impiegato tanto ingegno per farci diventare bestie. A leggere il vostro libro, viene voglia di andare a quattro zampe. Ma avendone sfortunatamente persa l' abitudine da più di sessant' anni, mi è impossibile riprenderla ora, e lascio questa andatura naturale a coloro che ne sono più degni di voi e di me. Non posso nemmeno imbarcarmi per andare a visitare i selvaggi del Canada, prima di tutto perché i malanni ai quali sono condannato rendono indispensabile un medico europeo; e poi perché la guerra è già arrivata in quei paesi e l'esempio delle nostre nazioni ha reso i selvaggi quasi malvagi quanto noi; mi limito ad essere un selvaggio pacifico nella solitudine che mi sono scelto nella vostra patria, dove anche voi dovreste essere. Devo ammettere con voi che le belle lettere e le scienze hanno talvolta causato il male in grande misura". La lettera continua sullo stesso tono di feroce ironia.

«J'ai reçu, Monsieur, votre nouveau livre contre le genre humain; je vous en remercie; vous plairez aux hommes à qui vous dites leurs vérités, et vous ne les corrigerez pas. Vous peignez avec des couleurs bien vraies les horreurs de la société humaine dont l'ignorance et la faiblesse se promettent tant de douceurs. On n'a jamais employé tant d'esprit à vouloir nous rendre Bêtes. Il prend envie de marcher à quatre pattes quand on lit votre ouvrage. Cependant, comme il y a plus de soixante ans que j'en ai perdu l'habitude, je sens malheureusement qu'il m'est impossible de la reprendre. Et je laisse cette allure naturelle à ceux qui en sont plus dignes, que vous et moi. Je ne peux non plus m'embarquer pour aller trouver les sauvages du Canada, premièrement parce que les maladies auxquelles je suis condamné me rendent un médecin d'Europe nécessaire, secondement parce que la guerre est portée dans ce pays-là, et que les exemples de nos nations ont rendu les sauvages presque aussi méchants que nous. Je me borne à être un sauvage paisible dans la solitude que j'ai choisie auprès de votre patrie où vous devriez être. J'avoue avec vous que les belles lettres, et les sciences ont causé quelquefois beaucoup de mal....» (Aux Délices, près de Genève, 30 août 1755).

Rousseau, il più serio e malinconico uomo della Terra, non se n' accorge o finge di non accorgersene. E dieci giorni dopo, risponde devotamente: "Tocca a me, Signore, ringraziarvi sotto ogni riguardo. Offrendovi l' abbozzo delle mie tristi fantasie, non ho certo pensato di farvi un dono degno di voi, ma di adempiere a un dovere e rendervi quell' omaggio che noi tutti vi dobbiamo come al nostro capo". La risposta continua per tre lunghe pagine.

«Spetta a me, Signore, ringraziarvi sotto ogni aspetto. Nell'offrirvi l'abbozzo delle mie tristi fantasticherie, non ho creduto di farvi un regalo degno di voi, ma di compiere un dovere e rendervi un omaggio che tutti dobbiamo come al nostro capo. [...] Il gusto per le scienze e le arti nasce in un popolo da un vizio interiore che esso accentua, e se è vero che ogni progresso umano è pernicioso alla specie, quello della mente e della conoscenza, che gonfia il nostro orgoglio e moltiplica i nostri errori, presto accelera le nostre sventure: ma viene un tempo in cui il male è tale che le stesse cause che lo hanno generato sono necessarie per impedirgli di accentuarsi: è come il ferro che bisogna lasciare nella ferita nel timore che la persona ferita strappandolo muoia. Quanto a me, se avessi seguito la mia prima vocazione e non avessi né letto né scritto, sarei stato senza dubbio più felice. Ma se le lettere adesso venissero distrutte, sarei privato dell'unico piacere che mi resta: è nel loro seno che mi consolo di tutti i mali; è tra i loro figli illustri che gusto la dolcezza dell'amicizia, che imparo a godere della vita e a disprezzare la morte; Devo loro quel poco che sono, devo loro anche l'onore di essere da voi conosciuto..."

«C'est à moi, Monsieur, de vous remercier à tous égards. En vous offrant l'ébauche de mes tristes rêveries, je n'ai point cru vous faire un présent digne de vous, mais m'acquitter d'un devoir et vous rendre un hommage que nous devons tous comme à notre chef. [...] Le goût des sciences et des arts naît chez un peuple d'un vice intérieur qu'il augmente bientôt à son tour, et s'il est vrai que tous les progrès humains sont pernicieux à l'espèce, ceux de l'esprit et des connaissances, qui augmentent notre orgueil et multiplient nos égarements, accélèrent bientôt nos malheurs : mais il vient un temps où le mal est tel que les causes mêmes qui l'ont fait naître sont nécessaires pour l'empêcher d'augmenter : c'est le fer qu'il faut laisser dans la plaie, de peur que le blessé n'expire en l'arrachant.
Quant à moi, si j'avais suivi ma première vocation et que je n'eusse ni lu ni écrit, j'en aurais sans doute été plus heureux. Cependant, si les lettres étaient maintenant anéanties, je serais privé de l'unique plaisir qui me reste : c'est dans leur sein que je me console de tous les maux ; c'est parmi leurs illustres enfants que je goûte les douceurs de l'amitié, que j'apprends à jouir de la vie et à mépriser la mort ; je leur dois le peu que je suis, je leur dois même l'honneur d'être connu de vous...»
 (Paris, le 10 septembre 1755).

C’est à moi, monsieur, de vous remercier à tous égards. En vous offrant l’ébauche de mes tristes rêveries, je n’ai point cru vous faire un présent digne de vous, mais m’acquitter d’un devoir et vous rendre un hommage que nous vous devons tous comme à notre chef. Sensible, d’ailleurs, à l’honneur que vous faites à ma patrie, je partage la reconnaissance de mes concitoyens ; et j’espère qu’elle ne fera qu’augmenter encore, lorsqu’ils auront profité des instructions que vous pouvez leur donner. Embellissez l’asile que vous avez choisi ; éclairez un peuple digne de vos leçons ; et vous, qui savez si bien peindre les vertus et la liberté, apprenez-nous à les chérir dans nos murs comme dans vos écrits. Tout ce qui vous approche doit apprendre de vous le chemin de la gloire.

Vous voyez que je n’aspire pas à nous rétablir dans notre bêtise, quoique je regrette beaucoup, pour ma part, le peu que j’en ai perdu. À votre égard, monsieur, ce retour serait un miracle si grand à la fois, et si nuisible, qu’il n’appartiendrait qu’à Dieu de le faire, et qu’au diable de le vouloir. Ne tentez donc pas de retomber à quatre pattes ; personne au monde n’y réussirait moins que vous. Vous nous redressez trop bien sur nos deux pieds, pour cesser de vous tenir sur les vôtres.

Je conviens de toutes les disgrâces qui poursuivent les hommes célèbres dans les lettres; je conviens même de tous les maux attachés à l’humanité, et qui semblent indépendants de nos vaines connaissances. Les hommes ont ouvert sur eux-mêmes tant de sources de misères que, quand le hasard en détourne quelqu’une, ils n’en sont guère moins inondés. D’ailleurs il y a dans le progrès des choses, des liaisons cachées que le vulgaire n’aperçoit pas, mais qui n’échapperont point à l’œil du sage quand il y voudra réfléchir. Ce n’est ni Térence, ni Cicéron, ni Virgile, ni Sénèque, ni Tacite ; ce ne sont ni les savants ni les poëtes qui ont produit les malheurs de Rome et les crimes des Romains ; mais sans le poison lent et secret qui corrompit peu à peu le plus vigoureux gouvernement dont l’histoire ait fait mention, Cicéron, ni Lucrèce, ni Salluste, n’eussent point existé, ou n’eussent point écrit. Le siècle aimable de Lélius et de Térence amenait de loin le siècle brillant d’Auguste et d’Horace, et enfin les siècles horribles de Sénèque et de Néron, de Domitien et de Martial. Le goût des lettres et des arts naît chez un peuple d’un vice intérieur qu’il augmente ; et s’il est vrai que tous les progrès humains sont pernicieux à l’espèce, ceux de l’esprit et des connaissances qui augmentent notre orgueil et multiplient nos égarements accélèrent bientôt nos malheurs. Mais il vient un temps où le mal est tel que les causes mêmes qui l’ont fait naître sont nécessaires pour l’empêcher d’augmenter ; c’est le fer qu’il faut laisser dans la plaie, de peur que le blessé n’expire en l’arrachant.

Quant à moi, si j’avais suivi ma première vocation, et que je n’eusse ni lu ni écrit, j’en aurais sans doute été plus heureux. Cependant, si les lettres étaient maintenant anéanties, je serais privé du seul plaisir qui me reste. C’est dans leur sein que je me console de tous mes maux ; c’est parmi ceux qui les cultivent que je goûte les douceurs de l’amitié, et que j’apprends à jouir de la vie sans craindre la mort. Je leur dois le peu que je suis : je leur dois même l’honneur d’être connu de vous. Mais consultons l’intérêt dans nos affaires, et la vérité dans nos écrits. Quoiqu’il faille des philosophes, des historiens, des savants, pour éclairer le monde et conduire ses aveugles habitants, si le sage Memnon m’a dit vrai, je ne connais rien de si fou qu’un peuple de sages.

Convenez-en, monsieur, s’il est bon que les grands génies instruisent les hommes, il faut que le vulgaire reçoive leurs instructions ; si chacun se mêle d’en donner, qui les voudra recevoir ? « Les boiteux, dit Montaigne, sont mal propres aux exercices du corps ; et aux exercices de l’esprit, les âmes boiteuses. » Mais, en ce siècle savant, on ne voit que boiteux vouloir apprendre à marcher aux autres.

Le peuple reçoit les écrits des sages pour les juger, non pour s’instruire. Jamais on ne vit tant de Dandins : le théâtre en fourmille, les cafés retentissent de leurs sentences, ils les affichent dans les journaux, les quais sont couverts de leurs écrits ; et j’entends critiquer l’Orphelin, parce qu’on l’applaudit, à tel grimaud si peu capable d’en voir les défauts qu’à peine en sent-il les beautés. Recherchons la première source des désordres de la société, nous trouverons que tous les maux des hommes leur viennent de l’erreur bien plus que de l’ignorance, et que ce que nous ne savons point nous nuit beaucoup moins que ce que nous croyons savoir. Or quel plus sûr moyen de courir d’erreurs en erreurs, que la fureur de savoir tout ? Si l’on n’eût prétendu savoir que la terre ne tournait pas, on n’eût point puni Galilée pour avoir dit qu’elle tournait. Si les seuls philosophes en eussent réclamé le titre, l’Encyclopédie n’eût point eu de persécuteurs. Si cent mirmidons n’aspiraient à la gloire, vous jouiriez en paix de la vôtre, ou du moins vous n’auriez que des rivaux dignes de vous.

Ne soyez donc pas surpris de sentir quelques épines inséparables des fleurs qui couronnent les grands talents. Les injures de vos ennemis sont les acclamations satiriques qui suivent le cortège des triomphateurs : c’est l’empressement du public pour tous vos écrits qui produit les vols dont vous vous plaignez ; mais les falsifications n’y sont pas faciles, car le fer ni le plomb ne s’allient pas avec l’or. Permettez-moi de vous le dire, par l’intérêt que je prends à votre repos et à notre instruction ; méprisez de vaines clameurs par lesquelles on cherche moins à vous faire du mal qu’à vous détourner de bien faire. Plus on vous critiquera, plus vous devez vous faire admirer. Un bon livre est une terrible réponse à des injures imprimées ; et qui vous oserait attribuer des écrits que vous n’aurez point faits, tant que vous n’en ferez que d’inimitables ?

Je suis sensible à votre invitation ; et si cet hiver me laisse en état d’aller, au printemps, habiter ma patrie, j’y profiterai de vos bontés. Mais j’aimerais mieux boire de l’eau de votre fontaine que du lait de vos vaches ; et quant aux herbes de votre verger, je crains bien de n’y en trouver d’autres que le lotos, qui n’est pas la pâture des bêtes, et le moly, qui empêche les hommes de le devenir.

Je suis de tout mon cœur et avec respect, etc.

 

Testi ripresi da[VF1] l blog Belfagor di  Giovanni Carpinelli

 


 [VF1]


COSA VUOL DIRE "TRANSCULTURALE"?

 


Che cosa vuol dire transculturale? Parte I

Alfredo Ancora
25 Ottobre 2024

Il termine transculturale non vuole indicare nuove etichette nel campo già affollato delle discipline psicologiche, psichiatriche, sociali. Con la parola transculturale si vuole cercare di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione di un dato fenomeno scientifico e non, passando attraverso (trans) e non sopra i modi di pensare e le loro manifestazioni culturali

Foto ed elaborazione di Giovanni Izzo

Spesso si avverte un certo disagio da parte di coloro che sentono i limiti dei mezzi di osservazione di fronte al nuovo mondo multiculturale che si sta configurando. Come ben dice Michel Serres «Il vecchio mondo non comprende ancora, cercando di gestire il nuovo mondo, la nuova società, i nuovi uomini con mezzi politici, economici, finanziari culturali… tratti dal mondo scomparso!» (in G. Polizzi e M. Porro 2015). Un diverso approccio potrebbe iniziare dal considerare i migranti e i rifugiati come rappresentanti di altri mondi e modi di conoscenza con cui rapportarsi e non una minaccia da cui difendersi. Diventa importante (e necessario) disegnare nuove traiettorie per procedere nell’attuale dibattito, proponendo direzioni verso le quali incrociarsi e inter-correlarsi, senza tracciare solo campi d’azione ben definiti nei loro confini e quindi più rassicuranti. Una società complessa e in trasformazione – a dispetto di chi voglia ancora negarlo – può mettere in difficoltà l’operatore psico-sociale, evidenziandone anche i limiti dei servizi in cui lavora. Una “modalità transculturale” è importante per attraversare nuove contesti di conoscenza nella ricerca, nella cura, nell’assistenza a persone di diverse culture . Non aiuta certo rimanere ancorati ad una posizione culturocentrica, secondo cui ogni società pensa che la sua cultura sia “centrale” rispetto al “resto” con cui viene in contatto.

È quindi necessario un viaggio mentale, una mobilitazione dentro e fuori di sé per prepararsi a un nomadismo di pensiero-azione, necessario per bagnarsi in altro e nell’altro, contaminando e contaminandosi. La cultura, concetto quanto mai vago e insieme complesso, può diventare allora un momento di materializzazione dell’incontro con l’altro, con tutti i rischi che una sfida conoscitiva comporta, previa sospensione o adeguamento delle sue vecchie categorie di pensiero.

Il termine transculturale non vuole indicare nuove etichette nel campo già affollato delle discipline psicologiche, psichiatriche, sociali. Con la parola transculturale si vuole cercare di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione di un dato fenomeno scientifico e non, passando attraverso (trans) e non sopra i modi di pensare e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio da pratiche e saperi diversi, si assiste a contaminazioni ed adattamenti che ogni incontro/scontro con culture altre sollecita e provoca. Tale attraversamento crea la possibilità di mettersi in discussione, di “scommettersi” da parte dell’operatore-terapeuta-ricercatore (secondo il pensiero/azione che viene adoperato). In caso contrario si rischia di riproporre la solita immobilità, frutto di rigide griglie conoscitive di “un oggetto” sempre più lontano e sempre più da studiare, tanto caro a teorie eurocentriche e etnocentriche dure a morire.

In realtà, “l’oggetto è diventato da tempo soggetto! È qui fra noi, con tutto il suo carico di sofferenza, di diversità e anche di ricchezza. La sua presenza, fra l’altro, pare continuamente chiederci come ci poniamo di fronte a quel “qualcosa che avanza”, a quello straniero che irrompe nei nostri pensieri, oltre che nei nostri servizi ambulatoriali, centri di accoglienza, comunità, e che spesso ci fa riflettere su quanto noi ci sentiamo stranieri a noi stessi! È soltanto uno scontro/incontro culturale con le sue visioni del mondo, con le sue concezioni sulla malattia e sulla cura, con le sue credenze? O anche qualcosa che ci muove dentro? Una società mobile mette sicuramente a dura prova la tenuta dell’operatore e i contesti nei quali egli lavora. Un quadro necessariamente dinamico, permeabile a flussi migratori forieri di attraversamenti “altri”, oltre atteggiamenti difensivistici, non connessi con la realtà in movimento. Per questo parliamo di una modalità “transculturale”, di un atteggiamento mentale capace di sospendere codici di conoscenza noti e di acquistarne di nuovi, senza la paura di smarrirne quelli precedenti.

Urge un passaggio a una posizione multicentrica in cui il “centro” non sia appannaggio di una sola cultura (come sosteneva l ‘antropologo cubano Ferdinando Ortiz creatore del concetto di “transculturacion”, per rappresentare la trasformazione delle culture, senza alcuna gerarchia).

L’operatore di una società molteplice deve essere pronto a una mobilitazione dentro e fuori di sé, a una preparazione ad un nomadismo di pensiero/azione, necessario per bagnarsi in altro e nell’altro, perdendo forse un po’ di purezza metodologica e aprendosi a ricche contaminazioni. È da tempo ormai che l’immagine dell’osservatore inerme non va più bene; egli ha bisogno, nel momento che interagisce con il contesto della sua ricerca, di ingranare un’ulteriore marcia: quella dell’”esploratore”, un po’ “sporco”, con delle macchie addosso e segni “del contagio”! Il viaggio diventa allora meno esotico e mitico per assumere le sembianze di un processo di trasformazione all’interno dei propri pregiudizi e delle proprie visioni del mondo, toccando veramente quanto sia difficile superare le dogane interne. Tale processo richiede una mobilità mentale necessaria a costruire quei ponti di collegamento “fra i fatti della vita e ciò che sappiamo oggi sulla natura della struttura e dell’ordine” di cui parlava Gregory Bateson nel suo verso un ecologia della mente per coniugare menti e persone, malati e contesti di cura, sconfinando in territori dove ”il cosiddetto intervento tecnico” non sembra essere sufficiente.

Il mondo dei migranti rappresenta un occasione per sperimentare nuove modalità per entrare in contatto con “l’altro”, non con il “diverso di turno”. Una esperienza a tutto campo per la ricerca di nuove chiavi d’apertura e l’attivazione di canali comunicativi, fondamentali per chi si pone in una relazione di aiuto e cura. L’incontro diventa un “luogo fisico, psichico ed emotivo” dove espletare una comunicazione in carne d’ossa, aperta a nuove acquisizioni nel processo di conoscenza reciproca, sia di chi chiede, sia di chi dà. L’operatore dovrebbe poter usufruire di strumenti formativi idonei ad affrontare i disagi con cui viene a contatto, dove l’elemento culturale (e sociale) connota la relazione di cura. I “nuovi utenti” con problematiche psichiche come migranti, rifugiati, richiedenti asilo, spesso trovano di fronte “vecchi servizi”, in difficoltà nel ridefinire domande complesse.

L’operatore transculturale del terzo millennio è la nuova figura di cui deve disporre la società che si va delineando – nonostante “compressioni” e opposizioni di vario tipo – in cui contesti di cura, sistemi culturali e sociali si intersecano (e influenzano)a vicenda. L’approccio verso “lo straniero” può divenire un’occasione di crescita, oltre che di confronto con altre culture, necessario a un pensiero arroccato a difendere solo la sua “unicità” e quanto mai bisognoso di linfa vitale.

Vorremmo qui raffigurare il percorso transculturale come una possibile direzione nel processo di conoscenza. Ci serviamo quindi di un breve percorso per illustrarne tappe e significati: a) Origini e passaggi; b) Le possibili applicazioni: psichiatria e psicoterapia transculturale; c) Per approfondire attraversamenti culturali.

Se volessimo cercare un quadro di riferimento del termine Transculturale, una parola/pensiero, dovremmo prendere in esame – fra i tanti – almeno tre autori per noi significativi. Precisamente: lo psichiatra Emile Kraepelin (1856-1926), l’antropologo Ferdinando Ortiz (1881-1969) e il filosofo Wolfang Welsch (1944). Ognuno nella sua opera ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale per ogni ricercatore, indipendentemente dai suoi interessi specifici (filosofici, psicoterapici, antropologici etc.). Per quanto riguarda il mio campo di ricerca ho tenuto presente soprattutto Ferdinando Ortiz, antropologo cubano, il cui concetto di transculturacion mi è sembrato più idoneo a esprimere la mobilità e la dinamicità dei processi psichici e culturali, alla base della psichiatria e psicoterapia transculturale (ben rappresentati in Europa da Julian Leff  [2] George Devereux [3].      

Emile Kraepelin [4], psichiatra e psicologo tedesco, noto anche per i suoi studi sulla dementia precox e mania depressiva, scrisse Vergleichende psychiatrie, psichiatria comparata. Un’opera sicuramente “rivoluzionaria” per quei tempi. Come è noto l’autore dopo un viaggio a Giava nel 1904, dove visitò l’ospedale psichiatrico locale, notò differenze nelle manifestazioni cliniche fra i pazienti giavanesi rispetto a quelli tedeschi (rarità del quadro catatonico, di allucinazioni uditive, etc.). Più precisamente ipotizzò che l’assenza di idee di colpa e tendenze suicidarie nei quadri depressivi fossero da rapportarsi anche a una “diseguaglianza di razza” fra quella tedesca e indonesiana. Kraepelin resta una pietra miliare nella storia della psichiatria e non possiamo certamente trascurare le sue ricerche pionieristiche svolte fuori dalla Germania (che oggi possono sembrare “anacronistiche”). Basti pensare che il suo illustre connazionale Sigmund Freud, pur non rimanendo indifferente alle tematiche antropologiche [5],  non si staccò mai da Vienna (a differenza di C. Gustav Jung che fece ricerche anche fuori dal suo Paese).

Con il concetto di transculturalità Wolfang Welsch [6], filosofo tedesco postmoderno esperto di estetica, intendeva focalizzare come le culture odierne non sono più omogenee e monolitiche ma mostrano diverse connessioni e interdipendenze. Sul piano dell’identità, su cui si sono cimentati diversi autori, egli sostiene che non è fissa e immobile, ma il prodotto di fattori di diversa origine culturale. Quindi, gli individui di oggi, compresi migranti e rifugiati, sono necessariamente transculturali. L’essere un concetto mobile [7] consente ad essa (l’identità) di interagire meglio perché più aperta alle diverse modalità comunicative di un mondo in continuo movimento. Il merito del filosofo tedesco è quello anche di aver riconosciuto a un suo illustre connazionale, Friedrich Nietzsche, sostenitore del «soggetto come moltitudine» un’analogia con il concetto della transculturalità. In sintesi Welsch afferma come la società moderna, complessa e transculturale, sia necessariamente inclusiva e sempre più interconnessa e per questo un baluardo contro teorie etnocentriche che difendono pretestuose purezze dure a riconoscere l’esistenza di un mondo sempre più ibrido e meticciato.

Ferdinando Ortiz, antropologo ed etnomusicologo, utilizzò il termine transculturación (transculturazione)per la prima volta nell’opera Contrapunteo [8] cubano del tabaco y el azúcar pubblicata nel 1940 per indicare il fenomeno della convergenza e della fusione di culture differenti. In particolare, evidenziò il dinamismo della cultura cubana attraverso la pratica del «toma y daca» (“prendi e dai!”) [9]. Egli attinge a questa metafora musicale (il contrappunto) per accentuare l’originalità e la dignità delle diverse culture, ognuna con il suo valore specifico indipendentemente dall’eventuale accordo finale fra di esse. Riconoscere ad ognuna cultura ricchezza e diversità vuol dire mettere da parte pretese egemoniche. Non c’è spazio per culture “superiori”!

Più approfonditamente Ortiz descrive la società cubana utilizzando la diversità (e contrapposizione) di due prodotti caratteristici dell’isola: tabacco e zucchero. L’obiettivo del saggio è di esporre attraverso questa dettagliata analisi – per contrappunto – la sua teoria della transculturazione, fenomeno di commistione e contatto di culture diverse che si influenzano reciprocamente. Come è noto zucchero e tabacco sono due prodotti che si contrappongono sia a livello economico sia a livello sociale, ma nella suggestiva raffigurazione dell’autore prendono le sembianze di due personaggi importanti della storia cubana: Don tabacco e Donna Zucchera (asucar in spagnolo è femminile!). Il tabacco è amaro e possiede un aroma. Lo zucchero è dolce e non ha odore, il tabacco è audacia, lo zucchero è prudenza. Il tabacco è maschile, lo zucchero è femminile.

Uscendo dalla rappresentazione scenica (e originale) dei personaggi che si contrappongono e interagiscono fra di loro, resta il messaggio fondante dell’autore divenuto nucleo fondante delle nostre ricerche teorico-cliniche. La dimensione transculturale ha caratterizzato un filone di pensiero del mondo “psy” (fra cui chi scrive) attento alle contaminazioni, al meticciamento per cui ogni segno/sintomo viene inserito nel suo contesto culturale e sociale – non decontestualizzato – in nome di cosiddette linee guida oggettivanti e neutrali. Le applicazioni cliniche della psichiatria e psicoterapia transculturale [10] sono uno dei suoi possibili sviluppi. Riprendendo anche Deleuze e Guattari (2017) [11] consideriamo la psichiatria transculturale come «una scienza dei margini, degli interstizi, della liminarità connaturata alla dimensione dell’incontro e della relazione con tutti gli imponderabili a cui questa linearità conduce». In questa direzione la consideriamo come una scienza di confine e di confini [12], un percorso, un andirivieni attraverso le culture, con l’acquisto di nuovi codici senza la paura di smarrire la chiave della cassetta di sicurezza del nostro sapere! Parliamo di “modalità transculturale” per connotarne un atteggiamento mentale aperto e flessibile, atto a costruire un pensare/agire transculturale, necessario ad avvicinarsi ai nuovi fenomeni che una società sempre più in movimento pone, richiedendo uno “sguardo più da vicino”. Con la proposizione Trans riusciamo meglio a raffigurare l’idea di processo conferendogli un senso attivo e progettuale.

In sintesi l’espressione “psichiatria transculturale” non vuole introdurre una nuova etichetta nel campo già affollato di termini tecnici delle discipline psicologiche e psichiatriche, bensì cercare di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione, passando attraverso (non sopra) i vari stili di pensiero e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio fra pratiche e saperi diversi, si assiste spesso a contaminazioni e adattamenti che ogni incontro/scontro con culture altre sollecita e provoca. Tale attraversamento rende possibile all’osservatore, al terapeuta, al ricercatore, di mettersi in discussione, di scommettersi. Se non si coglie questa opportunità, si rischia di ingabbiare in rigide griglie conoscitive “un oggetto”, sempre più lontano e sempre più “da studiare”, tanto caro a teorie etnocentriche dure a morire. In realtà, l’oggetto è diventato da tempo soggetto! È qui fra noi, con tutto il suo carico di sofferenza e di diversità. La sua presenza, tra l’altro, pare continuamente chiederci come ci poniamo di fronte a quel “qualcosa che avanza”, a “quello straniero” che irrompe nei nostri pensieri oltre che nei nostri servizi ospedalieri e ambulatoriali con la sua visione del mondo, con la sua concezione della malattia e della cura, con le sue credenze.

Una società complessa, divenuta da tempo multiculturale e multietnica – a dispetto di chi voglia ancora negarlo – può mettere in difficoltà l’operatore non preparato [13] e porre in forse l’adeguatezza dei servizi in cui lavora. Una “modalità transculturale” forse può aiutare in quegli attraversamenti verso altri mondi e modi di conoscenza, rendendo possibile una modificazione dell’orizzonte della ricerca, della cura e, in generale, dell’approccio ad eventi e persone di diverse culture [14]. Non aiuta certo rimanere ancorati a una posizione culturocentrica, secondo cui ogni società pensa che la sua cultura sia “centrale” rispetto al “resto con cui viene in contatto”.

È quindi necessario un viaggio mentale, una mobilitazione dentro e fuori di sé per prepararsi a un nomadismo di pensiero-azione, necessario per bagnarsi in altro e nell’altro, contaminando e contaminandosi. La cultura, concetto quanto mai vago e insieme complesso, può diventare allora un momento di materializzazione dell’incontro con l’altro, con tutti i rischi che una sfida conoscitiva comporta, previa sospensione o adeguamento delle sue vecchie categorie di pensiero [15]. La questione si sposta sul pensare/agire dell’operatore transculturale del terzo millennio, calato in un processo trasformativo che connota ogni incontro di conoscenza e di cura. Una figura simile a quella “del terapeuta del deserto” precisando che la parola terapeuta non si riferisce solo al medico o allo psicologo sensu strictu. Esso va allargato, prendendo spunto dai padri del deserto che erano anche medici, psicologi, educatori: «Ognuno di noi è invitato ad essere terapeuta, cioè quella persona che si prende cura del corpo, della psiche, della dimensione poetica, alimentandosi alla fonte del soffio» (2010) [16].

Alla luce di quanto detto finora volevamo accennare a una iniziativa che vorrebbe intercettare le richieste in questo campo di strumenti formativi. La nascita di una collana di testo ad hoc, di «ingegneria epistemologica» (Gregory Bateson) vorrebbe contribuire a costruire ponti e collegamenti fra differenti saperi. L’obiettivo è di disegnare direzioni verso le quali incrociarsi e inter-correlarsi, mettendo a fuoco mondi e i modi nuovi di studio, di ricerca, di cura “per seguire il passo” del nuovo che avanza: processi migratori, società multiculturali, nuovi nuclei familiari, di gruppo, di coppia, etc.. Il mondo in movimento rappresentato da popoli, culture, costumi, credenze invia segnali e bisogni di nuovi approcci atti ad attraversamenti di culture. Per cui si vuole dare voce a tutte quelle perturbazioni proprie di ogni sapere, senza la prevaricazione di uno sull’altro ma nel rispetto della pari dignità. Non esiste una cultura migliore dell’altra: «potenzialmente ogni cultura è tutte le culture» (Paul Feyerabend).

Questa proposta vorrebbe posizionarsi su spazi aperti dove le culture si definiscono e vengono ridefinite. Gli stranieri, i migranti sono espressione di prodotti culturali (Bateson) con cui è necessario confrontarsi reciprocamente più che difendersi da un possibile attentato alla integrità della propria cultura. Abitiamo tutti in una terra di frontiera e dovremmo, di conseguenza, essere consapevoli di pensare, agire, educare, curare su una linea di confine fisica e invisibile, concreta ed utopica. Lì in uno spazio reale ed ideale, l’osservatore/ricercatore/terapeuta si colloca come methòrios, ossia colui che sta sulla frontiera con lo sguardo rivolto al suo territorio e allo stesso tempo proteso oltre il confine, pronto con il suo orecchio ad ascoltare le ragioni dell’altro. Il confine, il limen, la soglia, sono anche luoghi dell’anima che ci fanno sentire con gli occhi le diverse esperienze, i valori e le strategie di sopravvivenza e con la mente la loro forza contaminante e trasformativa.

Nelle nostre società “autocentrate” c’è bisogno di un decentramento osservativo, di tentativi di “dissoluzione del centro”, perché vengano fuori istanze periferiche di noi, degli altri e di tutti quei fenomeni culturali definiti minori. In queste “terre del pensiero” pullulano fermenti, movimenti dalle forti tensioni, scambi e contatti, collisioni e collusioni, trasformazioni e resistenze dove nuovi e vecchi saperi vengono continuamente in contatto. La collana Attraversamenti culturali vuole intercettare questi “germogli creativi” e offrire un nuovo ritmo del conoscere, polifonico, aperto a pause, interruzioni e contrappunti.

Un’ultima considerazione: alla luce di queste premesse, possiamo chiederci cosa significhi occuparsi di scienza oggi, in un mondo di passaggi e di gente di passaggio? Siamo veramente sicuri che il tipo di società che stiamo cercando di costruire preveda (anche) l’uomo, inteso come “animale epistemologico” con le sue sfumature, i suoi dettagli, le sue debolezze, le sue domande e le sue diverse “anime” di cui è composto: la socialità, la culturalità, l’etica, la spiritualità? 


Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024


Note

[1] in Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Riga 35, Marcos Y Marcos Milano, 2015.

[2] J. Leff, Psichiatria e culture una prospettiva transculturale, Sonda Torino, 2008

[3] G. Devereux, Saggi di etnopsicoanalisi complementarista, FrancoAngeli Milano, 2013 (nuova ed.)

[4] Considerato da molti il fondatore della psichiatria moderna scrisse Vergleichende psychiatrie (Psichiatria comparata) Centralblatt für Nervenheilkunde und Psychiatrie, 27 (15): 433-437  (1904a) e Psychiatrisches aus Java: 231, in: Jahresversammlung des vereins bayrischer irrenarzte. Centralblatt für Nervenheilkunde und Psychiatrie, 27 (15): 468-471. (1904b)

[5] Si fa riferimento alle opere del cosiddetto Freud “Antropologico” dalle Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1914), Il disagio della civiltà (1929) fino alla sua ultima opera, L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Tre saggi 1934-38. I sentimenti sociali derivano, per lui, dall’identificazione con gli altri, sulla base degli ideali dell’Io partecipati, cioè dei valori culturali. Soprattutto in Totem e tabù (il cui sottotitolo è: “Concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici”) 1913, Freud descrive il parallelo fra i rituali magici dei primitivi e la ripetizione compulsiva e i processi primari dei nevrotici. Così come i nostri antenati vivono nel rispetto del Totem, i bambini e i nevrotici vivono nella paura di trasgredire i tabù: esisterà allora una relazione fra “primitivi, nevrotici e bambini”, quindi tra ambiti antropologici e psicoanalitici. Uccidere il totem (cioè il padre) e sposare le donne che appartengono al Totem (cioè alla sua famiglia) racchiude tutta «l’ambivalenza affettiva sia delle società arcaiche sia dei processi psichici più infantili» come sostiene F. Laplantine (L’etnopsichiatria, Tattilo Editore Roma, 1973). Lo stesso George Devereux considerava Freud (con cui aveva un rapporto, ora di accettazione tout cour,t ora di differenziazione dal suo metodo ortodosso.)non… «come il fondatore di una nuova scienza, ma come un psico-sociologo particolarmente meticoloso che ha condotto il suo lavoro sul campo tra gli indigeni di Vienna e ha formulato una serie di conclusioni generali aventi il tratto dei soli viennesi…». Saggi di Etnopsicoanalisi complementarista (cit. 2014) cap. III: 37.

[6] Cfr. anche D. Reichardt (2017), Teoria della francofonia transculturale. Il concetto di “transculturalità” in Wolfgang Welsch e il suo interesse nella didattica. Novecento Transnazionale. Letterature, Arti e Culture1, 40–56. https://doi.org/10.13133/2532-1994.

[7] Sul concetto mobile dell’identità cfr. A. Ancora, Verso una cultura di dell’incontro Studi per una terapia transculturale, FrancoAngeli, Milano 2017: 96-100.

[8] In italiano contrappunto, termine derivato dall’uso proprio della musica del sec. XIII di mettere una nota contro l’altra (punctum contra punctum ), che nella prassi musicale odierna designa l’arte di combinare con una data melodia una o più melodie, più o meno autonome; nella polifonia è dato dalla sovrapposizione delle melodie in senso orizzontale (mentre le relazioni tra note in senso verticale costituiscono l’ armonia. Cfr Ferdinando Ortiz Contrappunto cubano del tabacco e lo zucchero le origini del pensiero transculturale Borla Roma, 2024, nuova ed. (di prossima pubblicazione come n. 1 della Collana, cui seguiranno i seguenti titoli: 2) Rita El Kayat, La violenza sulla donna nelle culture tradizionali; 3) Alfredo Ancora, La formazione Transculturale un nuovo modo di pensare la cura; 4) Cecile e Edmond Ortigues L’Edipo Africano decolonizzare il sapere della cura.

[9] R. Terranova Cecchini Introduzione a A. Ancora, La consulenza transculturale della famiglia i confini della cura (FrancoAngeli, sec. ediz. Milano 2002: 18-19

[10] Preferiamo questo termine transculturale, più di interculturale o termini simili per sottolinearne maggiormente gli aspetti dinamici, processuali e reciproci, oltre le vecchie definizioni di solo di “confronto o di comparazione,sic et simpliciter, di un determinato disagio all’interno di due o più culture differenti” (Douglass R. Price – Williams, 1975).

[11] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani capitalismo e schizofrenia, Orthotes Nocera Inferiore (SA) 2017:56

[12] Cfr A.Ancora La consulenza transculturale della famigla i confini della cura, 2002 (nuova ed.) cit: 24-25.

[13] Il problema della formazione dell’operatore è una questione molto delicata non sempre affrontabile con “logiche di mercato”. Spesso ad una domanda di formazione sempre più crescente non sempre viene data una risposta adeguata Basti pensare al proliferare di “scuole e scuolette” di formazione ad hoc (non tutte degne di questo nome). Sembra che il pullulare di questi “luoghi della formazione” non con qualche presunzione indichi anche un bisogno di delega a posti asettici e decontestualizzanti dove poter imparare come comportarsi nell’incontro con l ‘altro, il migrante, il rifugiato o il diverso di turno! Forse bisognerebbe prendere in considerazione anche i luoghi dove nasce il disagio, dove l’operatore lavora, valorizzando la sua esperienza anche in funzione formativa con l’aiuto di aiuti esterni alla struttura (cfr. A Ancora,2017, cit.: 218-223.

[14] Un’altra applicazione della modalità transculturale è costituita dalla sua applicazione nella psicoterapia transculturale e precisamente nei Gruppi transculturali (come e noto la dimensione gruppo per molti popoli è esistenziale, un modo di essere e di vivere. Per cui proporre incontri di gruppo vuol dire anche offrire l’esperienza di un viaggio insieme che diventa il momento di una possibile storia scritta o riscritta insieme. Per approfondire le esperienze di Psicoterapia di gruppo transculturale, cfr. anche A. Ancora Quale psicoterapia: un ‘esperienza clinica di gruppo in I costruttori di trappole del vento formazione pensiero e cura in psichiatria transculturale FrancoAngeli Milano,2010, sec. ed.: 45-55.

[15] A proposito di un nuovo lessico cfr. Per una semiotica transculturale in A. Ancora Verso una cultura dell’incontro 2017 cit.: 74-105)

[16] I terapeuti del deserto di L. Boff, J. Y. Leloup, Gribaudo Milano 2020.

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