Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles
(Depose i
potenti dai troni e innalzò gli umili)
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
Negli ultimi anni l’economista Paul Krugman si è battuto strenuamente perché Joe Biden potesse vincere le elezioni. Ha ripetuto cento volte negli editoriali pubblicati dal New York Times che gli statunitensi dovevano votare per Biden perché, grazie alle politiche adottate dalla sua amministrazione, l’economia Usa andava a gonfie vele. In effetti, se paragonata al crollo delle economie europee, quella statunitense va bene davvero rispetto a quella europea, che ha dovuto rinunciare all’energia proveniente dalla Russia. Ma si vede che la vecchia massima clintoniana “It’s the economy stupid”, non funziona più. Per capire qualcosa del precipizio in cui le elezioni statunitensi hanno definitivamente scaraventato il mondo ci serve una diversa massima: “It’s the psychology, stupid”. I sentimenti del declino non sono meno concreti dell’economia: il dolore psichico, l’umiliazione, il senso di soffocamento, la tristezza, la demenza senile che si è impadronita della popolazione occidentale. Il trionfo mondiale della cattiveria cui assistiamo un po’ frastornati si spiega soprattutto a partire dall’epidemia psicotica che l’economia non sa governare e la politica ancora di meno.
Se i democratici, e la sinistra in generale fossero all’altezza della tragedia, dovrebbero ammettere che l’ultra liberismo dei fanatici come Milei non è altro che l’evoluzione del liberismo moderato che da trent’anni almeno ha guidato l’azione di governo dei governi di centro-sinistra da Blair a Schroder, a Letta e Renzi. “La differenza fra Trump e Harris sta nel fatto che Trump ti trascina nel baratro con gioia per far l’America nuovamente grande, mentre Harris ti trascina nel baratro con gioia per ragioni che non ha mai spiegato. Dovremmo meravigliarci che la gente abbia scelto il fascismo?” (Roger Hallam).
Come credere alle proteste dei democratici di fronte alla disumanità con cui il governo Meloni tratta i migranti, dal momento che il paradigma razzista che Meloni adotta è stato forgiato da un individuo che si chiama Marco Minniti, che ora si occupa di armamenti? Come credere alle proteste dei democratici di fronte allo scempio della sanità pubblica quando sono stati loro a dare avvio alla privatizzazione e al definanziamento del sistema pubblico?
L’unico paese europeo in cui i fascisti non sono vincenti è quello in cui la sinistra ha tentato, sia pur tra mille incertezze, di mettere al centro la società e non l’economia o la sicurezza: la Spagna. È l’unico paese europeo in cui la gente per strada sembra disposta a sorridere e salutarti, in cui la cortesia e l’allegria non sono state completamente bandite, come in Italia. È l’unico paese in cui c’è una legge (la riforma di Yolanda Diaz) che regolarizza il lavoro precario, e in cui si cerca di resistere alla privatizzazione. E (miracolo) i conti pubblici sono messi molto meglio che nella Francia di Macron, o nell’Italia di Meloni.
Ma torniamo a Krugman: il 15 dicembre ha pubblicato il suo ultimo editoriale sul NYT. Così ultimo che si intitola: My last column: Finding hope in an age of resentment. Krugman inizia ricordando i bei tempi andati, quando “i sondaggi mostravano un livello di soddisfazione che oggi appare surreale… gli statunitensi consideravano garantita la pace e la prosperità”. Per quale ragione gli statunitensi sono oggi sprofondati nel risentimento e in una depressione che sembra potersi curare soltanto con la violenza? La risposta di Krugman è di una superficialità sconsolante: “Perché quell’ottimismo si è guastato? Per come la vedo io, abbiamo avuto un collasso di fiducia nelle elite: il pubblico non ha più fiducia nella gente che gestisce le cose”. Tutto qui? Crisi di fiducia nelle elite? E quali sarebbero le cause di questa crisi di fiducia? Krugman non risponde a questa domanda, ma in compenso conclude con un paio di frasette che vorrebbero essere rassicuranti e invece sono semplicemente idiote. “Quel che io credo – scrive l’editorialista che un tempo stimavo – è che mentre il risentimento può portare gente cattiva al potere, nel lungo periodo non gli permette di rimanere in posizione di potere”. Tranquilli, ragazzi, tutto andrà per il meglio perché presto gli elettori statunitensi si stancheranno di questi cattivi. Davvero?
La speranza secondo Krugman
Anche nell’improbabile caso che le cose fossero così semplici come le vede il premio Nobel Krugman sarebbe il caso di chiedersi (nell’ultimo editoriale) che cosa accade nel frattempo, nell’attesa che i buoni elettori americani si ravvedano e votino per un presidente buono (come Joe Biden?). Krugman sorvola su questo punto: cosa faranno nei prossimi quattro anni quella banda di razzisti assatanati che si è impadronita del potere? E conclude il suo ultimo editoriale con un invito a non perdere la speranza: “Se ci opporremo alla kakistocrazia (governo dei cattivi) che sta emergendo, in seguito potremo ritornare indietro e ritrovare la strada verso un mondo migliore”.
Se questa è la qualità intellettuale dei democratici non è difficile capire perché vincono i fascisti. Il ricorso truffaldino al tema della speranza rischia di funzionare come l’ennesima trappola.
Tanto per cominciare la speranza non è un argomento. È uno stato d’animo (spesso ingannevole e foriero di delusione e di rancore), oppure è una virtù teologale.
Sulle virtù teologali non posso pronunciarmi, e lascio la parola a papa Francesco, che nella prima intervista rilasciata dopo la sua elezione, disse a un intervistatore di qualità come è Antonio Spadaro: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».
Ratzinger, predecessore di Francesco, aveva centrato il suo magistero intorno alla nozione di verità, e aveva attribuito quindi il primato alla fede, su cui solo può fondarsi il possesso (esclusivo) della verità. Mi pare che Francesco intenda invece attribuire il primato alla carità. E io sono d’accordo con lui. La carità, la solidarietà, o forse l’amicizia, o forse la complicità fra disertori, è la virtù teologale che ci serve. Non la speranza.
Molti, terrorizzati dalla cupezza dell’orizzonte, abbracciano la fede e si battono da eroi per una causa che non è la loro. Ho sempre diffidato della fede. E non ho mai creduto nell’esistenza della verità.
Della speranza ho detto. Non è un argomento, e molto spesso trae in inganno. Perdi tempo a sperare, mentre sarebbe il momento di scappare.
Non perdere tempo a sperare. È tempo di disertare
A questo proposito ho letto un magnifico messaggio di Roger Hallam, dalla prigione britannica nella quale è detenuto per avere denunciato gli effetti del collasso climatico. Appena esco da qua dentro, dice il leader di Extinction Rebellion, andrò nelle strade e riprenderò la mia attività di agitatore. Un esempio di intrepidezza etica e di sfida estetica. “Voglio andare porta a porta a convincere la gente”, dice Roger. Io mi chiedo: a convincerla di che? Roger Hallam descrive molto bene la situazione: “Il 52 per cento degli elettori ispanici ha votato per Trump. Il solo gruppo che ha votato per i democratici sono i bianchi che hanno fatto il college. Interessante, no? Da tempo sostengo che dovremmo andare a bussare alla porta della gente. Ma pochi, soprattutto tra i bianchi con educazione superiore, hanno voglia di parlare con la gente. Meglio stare sui social media a lamentarsi di Trump. La depressione può essere deliziosa, no?”.
Hallam ci rimprovera perché invece che andare a convincere la gente (non si sa di che) stiamo qui chiusi in camera e ci deprimiamo. Qui non sono d’accordo con lui. Io penso che la depressione sia un atto di saggezza, e soprattutto so che la depressione evolve, e si trasforma in qualcos’altro. Può evolvere in fanatismo reazionario, aggressività contro qualche capro espiatorio, fascismo insomma. È quello che sta accadendo su larga scala. Ma la depressione può evolvere invece come abbandono dell’attesa di ogni futuro (o speranza). Può evolvere in diserzione, abbandono della sfera storica.
Se proprio dovessi andare in giro con Roger, a bussare alla porta della gente, credo che proprio questo gli direi: “Prepara un fagotto con lo stretto indispensabile e vieni via con me. Non perdere tempo a sperare, è il tempo di scappare. E quando si scappa non ci si limita a scappare, si cercano nuove tecniche di sopravvivenza, nuove forme di amicizia e di erotismo”.
Testo ripreso da: https://comune-info.net/speranza-depressione-e-diserzione/.
P. Klee, Petit
paysage rythmique, 1920.
“Re Davide
aveva un anello con la scritta: «Tutto passa». Quando si è tristi, queste
parole consolano; quando si è allegri, produce malinconia. Anch'io ho ordinato
un anello simile, con un'iscrizione giudaica, e lei non mi permette di superare
il limite né nelle gioie né nelle tristezze. Sì, tutto passerà; la vita stessa
finirà, perché allora attribuire tanta importanza alle nostre piccole gioie e
dolori?”
JOHANN SEBASTIAN BACH Cantata BWV 26 Ah, com'è fugace ed effimera la vita umana! Coro - Aria. Guy Cutting, tenore. Society Bach Netherlands.
"Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in una condizione migliore." Montaigne
[...]
E quando arriverà il giorno dell'ultimo viaggio,
e stia per partire la nave che non dovrà mai tornare,
mi troverete a bordo leggero dei bagagli,
quasi nudo, come i figli del mare.
Antonio Machado
Gli aghi dei pini lungamente assorti
Umberto Eco, Per Calvino, Doppiozero, 4 aprile 2023
Nei dieci minuti che ho a disposizione, vorrei parlare del libro di Calvino che amo di più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto politico e morale.
Capisco che possa suonare strano parlare di lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del fatto che Il visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da una vena realista. Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava definitivamente Il sentiero dei nidi di ragno per una poetica del fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane.
Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi Il barone rampante nel 1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.
È superfluo ricordare che il libro mi colpì come uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, ricatturata nuovamente dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in ramo con Cosimo, e diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.
Quella del Barone rampante è una lingua cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane) ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre accarezzato, come un simbolo.
Ma nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica – il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte philosophique.
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti) erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire – “organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici. Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini, con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso degli anni Sessanta, curando insieme “Il menabò”, una rivista che doveva influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio. Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano diventare gli agenti di stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, “Il Politecnico”. Ovviamente viene considerato un traditore del proletariato. “Il Politecnico” morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.
Nel 1955, fummo affascinati da un libro di filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica. Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu prodotta dal Barone rampante, che aveva il potere persuasivo di una parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza gentile della poesia.
Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno, non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: “È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo dei mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello”. Il secondo punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda, senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa essere riconciliata con la sua fuga dalla società.
Cosimo decide di trascorrere la propria intera vita aerea sugli alberi, volando via dal mondo terreno. Ma quegli alberi non sono per lui una torre d’avorio. Dalle loro cime, osserva la realtà, acquistando una saggezza superiore, proprio perché la gente che egli vede gli appare piccolissima, e comprende meglio di chiunque altro i problemi dei poveri esseri umani che hanno la sventura di dover camminare sui propri piedi. Stando sugli alberi, Cosimo è spinto a prendere attivamente parte alla vita sulle proprie terre. Nella sua qualità di aristocratico, condivide i problemi degli emarginati. Trasformandosi in una sorta di dio dispettoso, o di Schelm, non così dissimile dagli animali che gli danno amicizia, nutrimento e vestimento, trasforma la natura in cultura senza distruggerla, e passo dopo passo è spinto a impegnarsi nella vita sociale, non solo nel suo piccolo territorio, ma sull’intera Europa.
Vivendo come un buon selvaggio, si fa uomo dell’Illuminismo, fuggendo dalla società diventa un leader rivoluzionario – ma uno che rimarrà sempre capace di criticare coloro che combattono dalla sua parte, e capace di provare dispiacere e disincanto per gli eccessi dei propri idoli.
Non nel romanzo, ma in un successivo commento degli anni Sessanta, Calvino riconobbe che, per essere un personaggio interessante, Cosimo non sarebbe dovuto essere un misantropo ma piuttosto un uomo coinvolto nei problemi del proprio tempo. E notò che la solitudine e la scomoda soggettività erano la vocazione del poeta, dell’esploratore e del rivoluzionario.
Questo tipo di lezione fu per me fondamentale. Ricordo che anni dopo, in una di quelle assemblee studentesche ultra-politicizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile e, citando Cosimo come modello, dissi che il primo dovere dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi per tenersi a distanza dai propri compagni, per poterli criticare innanzitutto, e non di fornire slogan contro gli avversari – pronto a fronteggiare un plotone di esecuzione per testimoniare che le proprie convinzioni sono vere. A quel tempo non si trattava certamente di una presa di posizione popolare, ma molti degli studenti che mi fischiarono oggi lavorano per Berlusconi, il leader della destra italiana.
Perché la lezione suggerita da questo romanzo fu così convincente per me (e penso, per molti altri in seguito)? Calvino l’ha spiegato, indirettamente, nelle sue Lezioni americane. Le lezioni morali sono, di solito, molto pesanti, e l’unica virtù di coloro che riescono a renderle memorabili è il dono della leggerezza. Aerea come il Barone, la prosa di Calvino non ha peso, è plus vague et plus soluble dans l’air – sans rien en lui qui pèse et qui pose, come avrebbe detto Verlaine. O, per concludere con le parole di Calvino: "Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro”.
Questo Calvino ha saputo farlo, ed è questa l’eredità che lascia.
Questa conferenza è stata pubblicata in Tra Eco e Calvino. Relazioni rizomatiche, atti del convegno "Eco & Calvino. Rhizomatic Relationships", University of Toronto, 13-14 Aprile 2012, a cura di Rocco Capozzo, EncycloMedia.
Nelle
classiche pagine di Ernesto De Martino sul lamento funebre (Morte e pianto
rituale), la morte individuale e le morti collettive si intrecciano
nell’affrontare il tema del ‘rischio di non esserci nella storia umana’, della ‘destorificazione’
di chi resta senza riuscire ad affrontare e superare la morte col
trascendimento nel valore. Il rischio di perdersi con colui che non c’è più,
apre all’esigenza etica di farlo morire dentro di noi e di portarlo nel futuro
come valore che supera la morte.
Vi è un forte nesso tra il ricordare i nostri
morti e portarli con noi nel futuro, e il vivere il dramma quotidiano dei
massacri delle guerre che ci circondano. Sono ferite aperte, forse non
risarcibili, che si iscrivono nella storia umana. Questo nesso porterà De
Martino allo studio delle apocalissi culturali e al libro postumo La
fine del mondo.
Vi è dentro
di noi una oscillazione tra la morte vicina delle persone care e la morte
lontana e sempre più tragica di donne, uomini, bambini sconosciuti che
rappresentano la violazione di ogni ordinamento universalistico, di ogni
speranza storica costruita nel Novecento.
I morti
insepolti che tornano a inquietare i sonni dell’Occidente che, in questo gioco
di morte, ha perso ogni apparenza di superiorità e di umanità inquietano anche
i miei sonni.
Dobbiamo ‘continuare a pensare’ i
nostri morti e “trascenderli nel valore” scriveva De Martino in
dialogo con Benedetto Croce. A questo proposito mi piace ricordare una frase
bellissima che A. M. Cirese scrisse per ricordare Italo Signorini, collega
romano morto in giovane età: «la morte lacera e stronca. Agli studi cui egli
si affidò noi ci affidiamo per riallacciare il filo».
"La
fine del mondo" di Ernesto De Martino va ormai annoverato tra i classici
del pensiero europeo contemporaneo. La presente edizione offre numerosi
elementi di sostanziale novità rispetto a quella pubblicata da Einaudi nel
1977, e consente ai lettori di gettare nuova luce sul capolavoro del grande
studioso. Il lavoro collegiale di valutazione critica dei materiali preparatori
dell'ampio saggio rimasto incompiuto si è proposto di far emergere in tutta la
sua portata un pensiero complesso, situato al punto d'incrocio tra
antropologia, filosofia e storia, in cui convergono stimoli intellettuali di
varia provenienza, rielaborati dall'autore in modo del tutto personale. A tale
scopo i tre curatori hanno deciso sia d'inserire nel testo una selezione degli
scritti filosofici piú rappresentativi, non presenti nell'edizione italiana,
sia di porre in risalto i nessi strutturali tra le varie sezioni in cui si
articola il progetto dell'opera: ciò ha comportato la revisione dell'intera
architettura del volume, nel rispetto delle intenzioni dell'autore. Alla base
dell'indagine sulle diverse declinazioni storiche del tema della «fine del
mondo» vi è il bisogno di fare luce sul presente della civiltà occidentale,
attraversata da una crisi che sembra corroderne le fondamenta dall'interno,
avviandola verso un assai probabile declino. De Martino s'interroga sulle
motivazioni profonde di questo complesso fenomeno, volgendo lo sguardo alla
psicopatologia, alla filosofia, all'arte e alla letteratura. Lo studioso
affronta una serie di nodi cruciali, che vanno dal senso di «spaesamento»
dell'uomo d'oggi allo sfaldamento della memoria storica, in cui sono
sedimentate le scelte culturali che contraddistinguono una determinata civiltà.