La guerra del linguaggio. Come proteggerci?
Amador Fernández-SavaterIl linguaggio è brutale quando distrugge l’uguaglianza tra parlanti, il tempo di elaborazione della parola, l’apertura all’altro. È, ad esempio, il linguaggio dell’estrema destra contemporanea. Una via di fuga possiamo cercarla laddove si svolge la conversazione. Del resto cos’è la psicoanalisi se non una conversazione risanatrice? Cosa è l’educazione, quando non si riduce all’atto di trasmissione tra chi sa e chi non sa, se non un dialogo nel quale ricercare insieme il sapere? Cos’è l’amicizia se non una lunga conversazione tra amici? “Non si tratta di rispondere al brutalismo di destra con un brutalismo di sinistra, competere con certezze e sicurezze… – scrive Amador Fernández-Savater – Si tratta di aprire e ampliare gli spazi di conversazione, meglio se con persone sconosciute…”
C’è una guerra nel linguaggio, inteso come macchina per tradurre gli affetti e le percezioni in orientamenti, e in azioni. Il linguaggio brutalista dell’estrema destra contemporanea traduce la frustrazione di vivere in aggressione contro i più deboli, traduce l’umiliazione quotidiana in delirio persecutorio, e la disperazione in voglia di rivincita. Per capire cosa sia il linguaggio brutalista basta vedere come parlano Milei, Trump, o Jiménes Losantos: mentono come mitragliatrici, dicono una cosa e il suo contrario nel giro di un secondo, poi si offendono e attaccano, squalificano e insultano, indicano capri espiatori per il malessere. Vogliono solo vincere, e usano il linguaggio come arma di distruzione di massa.
Il linguaggio è brutale quando distrugge l’uguaglianza tra parlanti, il tempo di elaborazione della parola, l’apertura all’altro, il gioco delle distanze. Nel suo dire letterale, istantaneo e automatico, il linguaggio brutalista non è altro che il linguaggio dei media radicalizzato all’estremo.
Il linguaggio è un virus secondo Burroughs. Il linguaggio brutale attiva questo virus che portiamo dentro. Gli affetti si oscurano, i corpi si irritano i discorsi diventano crudeli. Siamo come posseduti. Impossibile discutere razionalmente con un posseduto.
Come proteggersi allora? La diserzione non può essere topologica, non si può limitare ad andarsene in un altro posto. Non c’è nessun luogo al di fuori del linguaggio. Là dove siamo, nel quartiere o nella scuola, a casa o al lavoro, e anche nelle reti, occorre trasbordare all’altra sponda del linguaggio.
Chiamiamola conversazione.
La conversazione è una pratica del linguaggio che presuppone l’uguaglianza tra parlanti: non c’è qualcuno che sa, ma ci siamo noi che parliamo e discorriamo in congiunzione. Questo richiede un tempo di elaborazione, non c’è alcun accesso diretto alla “cosa”, soltanto deviazioni e aggiramenti. Ogni parola apre uno spazio per l’altro: io parlo tu rispondi, noi pensiamo. Ogni parlante affina la sua voce singolare in una trama comune, di tutti e di nessuno.
La conversazione rende possibile una elaborazione distinta degli affetti, può cortocircuitare la traduzione brutalista degli affetti, la possessione. Crea senso nel bordo tra l’insensato totale e i significati assoluti. Il cerchio protettore del linguaggio si delinea laddove si svolge la conversazione. Senza garanzie, la protezione si fa e si disfa, perché occorre di continuo riannodare la conversazione.
Cos’è la psicoanalisi? Una conversazione risanatrice, è la scoperta che il linguaggio è corpo, e che ci sono parole che commuovono e quindi curano.
Cosa è l’educazione? Quando non si riduce all’atto di trasmissione tra chi sa e chi non sa, è un dialogo in cui si può produrre l’appropriazione singolare di un sapere.
Cos’è l’amicizia? La lunga conversazione tra amici, come dice Hanna Arendt, che insieme danno senso a un mondo che non ha senso.
E la politica? Potrebbe essere terapia educazione e amicizia se rinunciasse alla propaganda, alla parola strumentale e strumentale per eccellenza…
Non si tratta di rispondere al brutalismo di destra con un brutalismo di sinistra, competere con certezze e sicurezze, trincerarsi nei linguaggi-rifugio di coloro che sono già convinti, monologare dal lato corretto della storia, ma si tratta di aprire e ampliare gli spazi di conversazione, meglio se con persone sconosciute. La conversazione è ironica, ci permette di giocare con le nostre identità, le nostre opinioni, le nostre bandiere. Prendere distanza salvatrice rispetto a noi stessi, l’ironia antidoto contro la possessione.
Siamo animali di linguaggio. Il linguaggio non è solo un ponte tra me e te che lascia intatto quello che unisce, ma il mondo condiviso che ci afferra e ci trasforma. Non è solo la base della politica, ma l’esperienza politica stessa. Non la sovrastruttura, ma l’infrastruttura.
C’è una guerra nel linguaggio. Come proteggerci dalla possessione? Là dove si trova il pericolo cresce anche ciò che salva. Altra pratica di linguaggio, comunità di conversazione.
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La guerra en el lenguaje. ¿Cómo protegernos?
Hay una guerra en el lenguaje. El lenguaje entendido ahora como “máquina de traducir” los afectos en percepciones, en orientaciones, en acciones.
El lenguaje brutalista de la extrema derecha contemporánea traduce la frustración de vivir en agresividad contra los más débiles, la humillación cotidiana en delirio persecutorio, la desesperación en ganas de revancha.
¿Qué es el lenguaje brutalista? No hay más que ver discutir a Milei, a Trump, a Jiménez Losantos: mienten como ametralladoras, dicen esto y lo contrario en cuestión de segundos, se ofenden enseguida y atacan, descalifican e insultan, señalan chivos expiatorios al malestar. Sólo quieren ganar, usan el lenguaje como arma de destrucción masiva.
Es un lenguaje brutal porque destruye la igualdad entre los hablantes, el tiempo de elaboración de la palabra, la apertura al otro, el juego con las distancias. En su decir literal, instantáneo y automático, el lenguaje brutalista no es otra cosa que el lenguaje de la comunicación radicalizado hasta el extremo.
El lenguaje es un virus dice William Burroughs. El lenguaje brutal activa ese virus que llevamos dentro. Los afectos se oscurecen, los cuerpos se crispan, los discursos se vuelven crueles. Estamos poseídos. Imposible discutir racionalmente con un poseído.
¿Cómo nos protegemos entonces? La deserción no puede ser topológica: a otro lugar. No hay ningún afuera del lenguaje. Hay que desertar sin moverse del sitio. Un gesto de sustracción protectora: otra práctica del lenguaje. Allí donde estemos, en el barrio o la escuela, la casa o el trabajo, incluso en las redes, cruzar a la otra orilla del lenguaje.
Llamémosla conversación.
La conversación es la práctica del lenguaje que presupone la igualdad entre los hablantes: nadie sabe, hablamos y discurrimos juntos. Implica un tiempo de elaboración: no hay acceso directo a “la cosa”, sólo desvíos y merodeos. Abre un espacio para el otro: yo hablo, tú respondes, nosotros pensamos. Cada hablante afina su voz singular en una trama común, de todos y de nadie.
La conversación habilita un procesamiento distinto de los afectos, puede cortocircuitar la traducción brutalista de los afectos, la posesión. Crea sentidos en el filo entre el sinsentido total y los sentidos absolutos. El círculo protector del lenguaje se dibuja allí donde sostenemos la conversación. Sin garantías, la protección se hace y se deshace, siempre hay que reanudar la conversación.
¿Qué es el psicoanálisis? Una conversación sanadora, el descubrimiento de que el lenguaje es cuerpo y hay palabras conmovedoras que curan. ¿Qué es la educación? Cuando no se reduce al acto de transmisión entre quien sabe y quien no, un diálogo donde puede producirse la apropiación singular de un saber. ¿Qué es la amistad? La larga conversación entre los amigos, según Hannah Arendt, que dan sentido juntos a un mundo que no lo tiene. ¿Y la política? Podría ser terapia, educación y amistad si renunciase a la propaganda, la palabra instrumental e instrumentalizadora por excelencia…
No se trata de responder al brutalismo de derechas con un brutalismo de izquierdas, competir en certezas y seguridades, atrincherarse en los lenguajes-refugio de los ya convencidos, monologar desde el “lado correcto” de la historia, sino de abrir y ampliar los espacios de conversación, con cuantos más desconocidos mejor. La conversación es irónica, nos permite jugar con nuestras identidades, nuestras opiniones, nuestras banderas. Tomar una distancia salvadora con respecto a nosotros mismos, la ironía es un antídoto contra la posesión.
Somos animales de lenguaje. El lenguaje no es sólo un puente entre tú y yo que deja intacto aquello que une, sino el mundo compartido que nos arrastra y transforma. No la base de la política, sino la experiencia política misma. No la superestructura, sino la infraestructura.
Hay una guerra en el lenguaje.
¿Cómo protegernos de la posesión?
Allí donde está el peligro, crece también lo que salva.
Otra práctica de lenguaje, comunidades de conversación
[Amador Fernández-Savater]
Testo e traduzioni sono apparsi su una pagine web curata da Franco Berardi Bifo: https://francoberardi.substack.com. La versione originale: elsaltodiario.com
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