I 100 anni dalla nascita di
Danilo Dolci, quell’omissione sulle accuse al padre di Mattarella e la condanna
per diffamazione
di Giuseppe Pipitone | 1 LUGLIO 2024,
IL FATTO QUOTIDIANO
Lo hanno
ricordato come il Gandhi
di Sicilia, l’attivista
non violento che
scelse una delle terre
più povere d’Europa per
lottare in difesa degli ultimi. Ma se quell’isola era alla fame, la
responsabilità era anche dello strapotere di Cosa nostra e dei
suoi legami col potere
politico.
Ecco perché oltre a essere sociologo e poeta, Danilo Dolci fu anche
cronista e attivista
antimafia:
fu il primo a indagare sul sistema clientelare che ha
regolato i rapporti politici dal Dopoguerra. Ed è partendo da questo tipo di
analisi che Dolci arrivò a denunciare i rapporti tra i boss ed esponenti di
primo piano della Democrazia
cristiana.
Per questo motivo venne processato e condannato. Queste
vicende, però, sono completamente scomparse dai ricordi pubblicati da
giornali e dai siti d’informazione nel centenario della nascita del sociologo.
Un’omissione abbastanza rilevante, se pensiamo che a portare a processo Dolci
fu anche Bernardo
Mattarella,
il padre dell’attuale presidente
della Repubblica.
Ma andiamo con ordine.
Il primo
processo – Originario
di Sesana – oggi
in Slovenia, ma all’epoca
in provincia di Trieste – Dolci
visse gran parte della sua vita a Trappeto, minuscolo centro tra Palermo e
Trapani, dove all’epoca la miseria era talmente nera che i bambini potevano
pure morire
di fame.
Molto si è scritto delle denunce di Dolci sulle condizioni di vita dei
contadini in quella Sicilia del Dopoguerra. Il sociologo è l’inventore
dello sciopero
al contrario:
nel 1956 organizza centinaia di disoccupati, che si mettono all’opera per
ricostruire una strada abbandonata. Per questo motivo finisce sotto processo
con l’accusa di invasione
di terreni.
In sua difesa si schierano tra gli altri Norberto Bobbio, Italo Calvino,
Alberto Moravia, Bertrand
Russell, Jean-Paul
Sartre.
Ad assisterlo come avvocato c’è Piero Calamandrei, che nella
sua arringa chiede l’assoluzione con
queste parole: “Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i
morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol
dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è pari dignità!”. Le
tesi del padre costituente non bastano a convincere il giudice di Partinico: alla fine
Dolci viene condannato a 50 giorni di reclusione.
Le accuse a
Mattarella – Ma
a essere omesso, nel centenario della nascita, è soprattutto il secondo
processo al quale fu sottoposto il Gandhi di Sicilia. Una vicenda
ancora oggi controversa, ma
storicamente rilevante e che per
questo motivo merita di essere ricordata. È il 1965 quando Dolci convoca una
conferenza stampa a Roma, per
presentare un dossier appena illustrato alla Commissione
Antimafia,
che sarà poi pubblicato nel libro Chi gioca solo (Einaudi).
In quei documenti il sociologo accusa di collusioni con la mafia alcuni
tra i democristiani più
importanti dell’epoca in Sicilia: Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Entrambi
deputati fin dai tempi dell’Assemblea costituente, in quel momento sono
rispettivamente ministro
per il Commercio Estero e sottosegretario alla Sanità del
secondo governo di Aldo
Moro.
Le accuse di Dolci provocano molto clamore, i due politici reagiscono con una
querela: il sociologo finisce di nuovo alla sbarra, insieme al suo
collaboratore Franco
Alasia.
A difendere Mattarella ci sono due principi del foro: Giovanni Leone, già
presidente della Camera, del Consiglio e futuro capo dello Stato, e Girolamo
Bellavista,
già deputato e in passato difensore di Michele Navarra, capomafia di Corleone, ma poi
anche del suo assassino, il boss Luciano Liggio. Molto tempo dopo il nome di
Bellavista comparirà tra gli iscritti alla loggia
massonica P2:
l’avvocato, però, era già morto da cinque anni quando nel 1981 gli elenchi
di Licio
Gelli diventano
di dominio pubblico.
La condanna
del Gandhi di Sicilia – Vista anche l’importanza dei protagonisti, il processo
a Dolci e Alasia diventa un caso politico-giudiziario. Per due anni i giornali
seguono le udienze in cui sfilano decine di testimoni: Giulio
Andreotti,
il cardinale Enrico
Ruffini, Charles
Poletti, il
commissario per gli Affari civili dell’Amgot, il governo militare americano
nell’Italia occupata. Alla fine Dolci e Alasia non riescono a dimostrare le
loro accuse contro Mattarella e Volpe: il 21 giugno 1967 il tribunale li
condanna a due anni per diffamazione. Una pena che non viene scontata
grazie all’indulto, approvato alcuni mesi prima. La sentenza verrà confermata
dalla Corte d’Appello nel 1972 e poi l’anno dopo anche dalla Cassazione. Nelle
motivazioni si legge che “Mattarella ha espresso sempre in modo
inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso” e “non
è mai
entrato in contatto con l’ambiente mafioso da lui invece apertamente e
decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica”. Secondo i
giudici il padre di Sergio Mattarella ha “portato a conoscenza del Tribunale,
obiettivamente documentandolo, l’atteggiamento di insuperabile
contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua
carriera politica”. I magistrati non credono alle accuse di Dolci e Alasia:
“Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio
attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul
piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati
nient’altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli
dicerie se non addirittura di autentiche falsità”. Bernardo
Mattarella non
riuscirà a vedere Dolci condannato in via definitiva: morirà infatti l’1 marzo
del 1971, un anno prima della sentenza di secondo grado, colpito da un malore
mentre si trova Montecitorio. All’epoca
era presidente della Commissione Difesa, dato che a partire dal 1966 Moro lo
aveva estromesso dal suo terzo governo. Era appena cominciato il processo a
Dolci, ma l’esclusione di Mattarella dall’esecutivo venne motivata
semplicemente con “questioni
di equilibrio”
tra le correnti della Dc.
I Kennedy di
Sicilia – La
vicenda della condanna del Gandhi italiano per la diffamazione
di Mattarella senior rimarrà
confinata sulle vecchie pagine dei quotidiani fino al 2015, quando il
figlio minore dell’ex ministro viene eletto al Quirinale. A quel punto
tornano di attualità le ombre proiettate in passato sul patriarca della
famiglia che in tanti definiscono “i Kennedy di Sicilia“. Come la
dinastia del presidente Usa ucciso a Dallas, infatti, anche i Mattarella hanno
avuto una storia politica costellata dai lutti e dal dolore: alle accuse
di contiguità lanciate nei confronti del vecchio Bernardo (mai dimostrate e
sempre smentite), si affianca l’attività antimafia del figlio Piersanti, il suo
secondogenito. Fratello maggiore di Sergio, presidente della Regione Siciliana
e allievo politico di Moro, venne ucciso da Cosa nostra e forse non solo. I killer lo
ammazzano sotto casa il giorno dell’Epifania del 1980: tra i primi
soccorritori, pochi minuti dopo gli spari, c’è anche il futuro capo dello
Stato, fotografato da Letizia
Battaglia mentre
regge il cadavere del fratello, riverso sui sedili dell’auto. Nel febbraio del
2015 quell’istantanea in bianco e nero diventa la copertina dell’elezione al
Quirinale dell’ultimogenito dei Mattarella, i Kennedy di
Sicilia.
L’altra causa
– Quando
diventa il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana, Sergio
Mattarella ha
già avanzato una richiesta di risarcimento danni da 250 mila euro nei
confronti dello scrittore Alfio Caruso. Insieme ai nipoti Bernardo junior
e Maria, infatti, il futuro capo dello Stato aveva accusato l’autore del
volume Da
Cosa nasce cosa (Longanesi)
di aver “infangato la figura di Mattarella padre” e di aver descritto “in
maniera grossolana” i rapporti politici del fratello Piersanti. Il libro era
uscito nel 2000, ma i Mattarella fanno causa solo nel 2009. Otto anni dopo, nel
2017, la giudice della prima sezione civile del tribunale di Palermo Maura Cannella condanna Caruso al pagamento di 30mila euro. Alla base
di questa sentenza, poi confermata in Appello, c’era anche la vecchia condanna
di Dolci, prodotta dai difensori della famiglia Mattarella. A nulla sono
servite, durante il processo, le richieste dell’avvocato Fabio Repici, legale di
Caruso, che ha sostenuto come la sentenza del 1967 appartenenesse “a
quella giurisprudenza
reazionaria che
spesso negava
la stessa esistenza della mafia”. Il difensore ha depositato anche
alcune dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso
Buscetta e Francesco
Marino Mannoia, arrivate
molti anni dopo la condanna di Dolci per diffamazione: entrambi avevano
accusato il padre dell’attuale dello Stato di aver avuto legami con Cosa
nostra. Agli atti era stato depositato anche un verbale del 2016 in cui il
pentito Francesco
Di Carlo sosteneva
di aver conosciuto Mattarella senior in qualità di “uomo d’onore” di Castellammare
del Golfo,
il borgo marinaro in provincia di Trapani da cui proviene la famiglia del
presidente. Dichiarazioni, queste ultime, che il tribunale ha giudicato
“tardive” rispetto ai termini istruttori.
La richiesta
di revisione – È sempre
utilizzando i verbali di Buscetta, Mannoia e Di Carlo che nel 2016 Repici
chiede alla corte
d’Appello di Roma di
aprire un procedimento
di revisione sulla
sentenza di condanna di Dolci e Alasia. A sostegno della sua richiesta,
l’avvocato sostiene che “successivamente al passaggio in giudicato della
condanna (confermata dalla Cassazione nel ’73) sono intervenuti incontrovertibili
elementi di prova che
impongono, oggi, il proscioglimento dei due condannati”. Insomma: non sarebbe
stato possibile condannare Dolci per diffamazione se le
dichiarazioni di Buscetta, Mannoia e Di Carlo fossero già esistite negli anni
’70. Secondo l’avvocato, se Mattarella fosse stato ancora vivo negli anni in
cui erano arrivate le dichiarazioni dei pentiti, “sarebbe seguita la sua
iscrizione sul registro degli indagati per il delitto di concorso esterno in
associazione di tipo mafioso”. E ancora, nel vecchio processo per diffamazione,
Repici sottolineava la “pregiudiziale
inattendibilità dei
testimoni a discolpa in ragione dell’estrazione sociale o politica“: insomma, i
giudici non ritennero credibili i testi a favore di Dolci perché erano
tutti comunisti. Secondo
l’avvocato, dunque, appariva “ormai doveroso che la memoria di Dolci, persona
che ha illustrato la nazione italiana in ogni angolo del pianeta per il suo
eccelso impegno
sociale e umanitario che
gli ha conquistato la fama di Gandhi italiano, e la figura del suo
collaboratore Alasia vengano finalmente risarcite e sgravate da un’infame condanna, anche per
liberare la giurisdizione italiana da un pronunciamento che ha segnato uno dei
punti più bassi in materia di mafia e di antimafia”. La corte d’Appello di
Roma, però, ha rigettato quella richiesta: per i giudici non ci sono gli
estremi per aprire un procedimento di revisione. Dolci, dunque, resta
condannato per aver
diffamato Bernardo Mattarella e Calogero Volpe. Una vicenda
sicuramente controversa, ma che
provocò grande clamore mediatico. E che ebbe una profonda influenza nella vita di Danilo Dolci. Ecco perché
ometterla tout
court non
rende probabilmente un buon servizio alla memoria del Gandhi di
Sicilia.
E in fondo neanche a quella del Paese.
Giuseppe Pipitone , IL FATTO QUOTIDIANO 1 luglio 2024
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