04 luglio 2024

PARLARE DI PACE IN TEMPO DI GUERRA

 


Parlare di pace in tempo di guerra

Pasquale Pugliese
04 Luglio 2024

Disvelare la verità della guerra, nascosta dietro la propaganda bellica: in qualsiasi angolo del mondo da sempre è questa la prima operazione da fare per parlare di pace. Il timore della verità dei signori della guerra è dimostrato anche dai 120 giornalisti uccisi a Gaza dall’esercito israeliano

Foto di Donne In Nero Parma

Per capire il senso profondo del parlare di pace in tempo di guerra bisogna risalire a Mohandas K. Gandhi il quale, con un neologismo, chiamava il metodo nonviolento – sperimentato in Sudafrica e applicato per la liberazione dell’India – satyagraha, ossia “fermezza nella verità”, o “forza della verità”, e tra i principi fondamentali di questo metodo, oltre a non usare la violenza, c’è l’attenersi in ogni fase della lotta alla verità. Ma la verità – come diceva Eschilo, o come viene a lui attribuito – in guerra è la prima a morire: ne è la prima vittima perché in guerra domina la menzogna. Non a caso per Aldo Capitini, analogamente a Gandhi, non ci può essere nonviolenza senza nonmenzogna. E la verità per i greci è aletheia, non nascondimento, ossia dis/velamento. Quindi, la prima operazione da fare per parlare di pace in tempo di guerra è quella di disvelare la verità della guerra dietro alla propaganda bellica, ossia smascherarne le menzogne.

La verità, il disvelamento della realtà della guerra, è ciò che il complesso militare-industriale-mediatico teme più di ogni altra cosa: il calvario di Julian Assange, che ha passato dodici anni in cattività – di cui sette nell’ambasciata ecuadoriana a Londra e cinque in un carcere di massima sicurezza in una cella di due metri per tre – per aver disvelato che cosa sono davvero i collateral murders, gli “effetti collaterali” delle guerre di aggressione dei cosiddetti “buoni”, cioè i “nostri” per definizione, è stato un avvertimento alla stampa libera. Vicenda che si è potuta concludere con un patteggiamento nel quale Assange ha dovuto riconoscersi colpevole di una inesistente “associazione a delinquere”, anziché con il carcere a vita, grazie alla mobilitazione internazionale dal basso che ha continuato a tenera alta l’attenzione sul suo caso, alla forza della “protesta pacifica”, come la chiama Sara Chessa nel sui libro (Distruggere Assange, Castelvecchi, 2023).

Il timore della verità dei signori della guerra è dimostrato, inoltre, dagli oltre 120 giornalisti uccisi a Gaza dall’esercito israeliano, al punto che l’inchiesta del consorzio internazionale di giornalisti indipendenti Forbidden stories certifica che essere giornalisti nella Striscia significa essere target, inseguiti e uccisi anche con i droni, per cui è meglio non usare la pettorina identificativa della stampa, perché non salva ma uccide. I crimini di guerra israeliani sono inoltre pesantemente coperti dalla “scorta mediatica” della stampa italiana (come ho raccontato anche qui Il genocidio mediatico).

Ma oltre alle menzogne sulla conduzione delle guerre è la legittimazione culturale della guerra in quanto tale – strumento obsoleto di regolazione dei conflitti, soprattutto in epoca nucleare, ma costantemente alimentato – ad essere fondata sulla menzogna originaria, su una vera e propria formula magica, falsa e irrazionale, ma ripetuta all’infinito a tutti i livelli decisionali e mediatici, nazionali e internazionali: si vis pacem para bellum, se vuoi la pace devi preparare la guerra. Eppure non è difficile dimostrare – ossia disvelare, dicendo appunto la verità – che si tratta di una illusione fondata sul pensiero magico, per giustificare il trasferimento alle spese militari, e dunque all’industria bellica, di risorse pubbliche crescentemente sottratte agli investimenti sociali e civili. I governi complessivamente non hanno mai speso così tanto per la guerra (2.443 miliardi di dollari nel 2023, dati Sipri) e i conflitti armati dilagano ovunque (169 sul pianeta nel 2023, di cui 59 coinvolgono Stati, dai Uppsala Conflict Data Program), fanno impennare incredibilmente le vittime civili da un anno all’altro (+72% nel 2023 rispetto al 2022, dati Onu), con il conseguente dilagare di profughi e rifugiati (117 milioni nel 2023, giunti a 120 milioni nei primi sei mesi del 2024, dati Unhcr). Preparando le guerre non si ha ovviamente la pace, ma più guerre e più vittime in un perverso circolo vizioso. Inoltre, ad un livello più profondo, questa sacca di pensiero magico incistata ai vertici politico-mediatici serve ad alimentare il consenso delle opinioni pubbliche che devono approvare l’ideologia della guerra, o almeno non vedere la contraddizione sulla doppia morale tra la risoluzione dei conflitti interpersonali e quella dei conflitti internazionali. La prima fondata universalmente sulla nonviolenza e i dispositivi formativi e giuridici di regolazione pacifica e sanzionamento della violenza; la seconda fondata ancora sulla guerra, attraverso il processo di etificazione della violenza, se voluta dalla Stato, e sanzionamento del suo rifiuto. Un doppio standard morale che promuove l’etica nonviolenta nei conflitti interpersonali e quella violenta nei conflitti internazionali.

Dunque, parlare davvero di pace in tempo di guerra significa, in primo luogo, svelare i diversi livelli di mistificazione: decostruire la narrazione bellicista è già preparare la pace. Come fanno, in ultima istanza, gli obiettori di coscienza di tutti i paesi in guerra, con la fermezza nella verità del proprio rifiuto.

Pezzo ripreso da https://comune-info.net/parlare-di-pace-in-tempo-di-guerra/


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