31 dicembre 2024

BRAVO FERRONI!

 



Due pagine del libro di Ferroni


L' ultimo libro di Giulio Ferroni è un libro che, malgrado la mole e alcuni tratti enciclopedici, si legge facilmente e piacevolmente. Particolarmente illuminanti le pagine critiche finali dedicate alla cosiddetta "intelligenza artificiale" e ai suoi odierni corifei. (fv)

PASOLINI SUGLI ULTIMI GIORNI DELL' ANNO 1960

 


Sono gli ultimi giorni dell’anno. Il benessere
accende, verso sera, in tutti gli uomini
una specie di follia: la smania inespressa
di essere più felici di quanto siano …

È sempre una speranza che dà pietà: anche
il piccolo borghese più cieco ha ragione
di averla, di tremarne: c’è un istante
in cui anch’egli infine vive di passione.

E tutta la capitale di questo povero paese
è un solo ansito di macchine, una corsa
angosciata verso le antiche spese
di Natale, come a una necessità risorta.

Potente luce di Luglio, ritorna, oscura
questo debole crepuscolo di pace,
che non è pace, questo conforto ch’è paura:
ridà parole al dolore che tace.

Manda i cadaveri ancora insanguinati
dei ragazzi che hai illuminato potente:
che vengano qui, tra questi riconsolati
benpensanti, tra questa dimenticata gente.

Vengano, con dietro il tuo chiarore di piazze
fatte campi di battaglia o cimiteri,
tra queste ciniche chiese dove la razza
dei servi torna alla sua viltà di ieri.

Vengano tra noi, a cui non è rimasta
che la speranza di una lotta che dispera:
non c’è più luce di Natale, o di Pasqua.
Tu, sei la luce, ormai, dell’Italia vera.

Pier Paolo Pasolini
L’Unità n. 3 a. XVI, 21 gennaio 1961

30 dicembre 2024

INDICE E NUOVA INTRODUZIONE A "EREDITA' DISSIPATE"

 



AUTORE: Francesco Virga

EREDITA’  DISSIPATE

GRAMSCI  PASOLINI  SCIASCIA

(II edizione giugno 2023)

Indice

Nuova introduzione p. 11-15

 

Parte Prima

Antonio Gramsci

I. La filosofia della prassi

e la rivoluzione culturale di Antonio Gramsci 

 

1. Come leggere un classico del Novecento p. 19

2. Socialismo e cultura p. 22

3. La guerra e la Rivoluzione russa p. 31

4. La rivoluzione contro Il Capitale (1917-1918) p. 33

5. L’Ordine nuovo (1919-20) p. 36

6. Gli anni delle responsabilità politiche (1921-1926) p. 46

7. La ‘quistione meridionale’ secondo Gramsci p. 49

8. Genesi dei Quaderni del carcere p. 56

9. “Appunti per una introduzione allo studio

della filosofia e della storia della cultura” p. 60

10. Cultura, cultura popolare e folklore p. 62

11. L’analisi critica della religione e del senso comune p. 66

12. La critica alla filosofia di Benedetto Croce p. 70

13. La critica a Bukharin e al materialismo volgare p. 72

14. Il Risorgimento p. 75

15. Gli intellettuali p. 78

16. Gramsci “storico integrale” p. 81

17. Conclusione p. 86

Note e bibliografia  p. 89

 

Parte Seconda

Pier Paolo Pasolini

 

II. Il “nuovo modo di essere gramsciano”

di Pier Paolo Pasolini p. 103

 

1. Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini p. 103

2. La scoperta del mondo contadino

Dalla poesia alla politica (1943-1949) p. 106

3. La scoperta di Gramsci p. 114

4. Nuove questioni linguistiche

e crisi del marxismo p. 120

5. Pasolini corsaro e luterano p. 125

6. Nostalgia del volgar’eloquio p. 139

7. Scalia traduce l’ultimo Pasolini p. 142

8. Critica al consumismo p. 143

Note e bibliografia p. 145

 

III. Giuseppe Giovanni Battaglia

e Pasolini p. 161

1. I primi versi di Battaglia

nell’antica lingua di Aliminusa p. 162

2. Dialetti e universo contadino p. 165

3. Un corsaro dentro la CGIL p. 169

4. Sacralità della poesia e della vita p. 172

Note p. 179

IV. Pasolini tra incanto e disincanto p. 183

1. Gli Studi su Bach del giovane Pasolini p. 186

2. Musica, poesia e politica in Pasolini p. 189

3. L’ interpretazione di Claudia Calabrese

del cortometraggio pasoliniano

Che cosa sono le nuvole? p. 196

4. Il canone sospeso p. 198

Note e bibliografia p. 201

 

Parte Terza

Leonardo Sciascia

V. La Sicilia di Leonardo Sciascia p. 209

Note e bibliografia  p. 223

VI. La mafia secondo Leonardo Sciascia p. 229

1. Mafia siculo-americana, razza e storia,

mafia e class i dirigenti p. 231

2. La mafia agrigentina p. 237

Note p. 240

 

VII. L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia p. 243

1. Il prologo pasoliniano p. 245

2. Letteratura e storia p. 248

Borges, Pasolini e le ossessioni di Sciascia

3. L’analisi critica delle lettere di Moro p. 251

Sciascia diviso tra filologia e ideologia

4. Servizi, BR e Mafia p. 257

Note p. 259

 

VIII. Sciascia morde ancora p. 263

1. Sciascia scrittore “arabo” p. 265

2. La Sicilia araba di Leonardo Sciascia p. 268

3. Sciascia in Africa, Turchia e Persia p. 270

4. Il Convegno Internazionale del 2019 p. 274

5. Il fuoco di Leonardo Sciascia

nelle sue ultime parole p. 283

Note p. 288

 

Parte Quarta

Gramsci, Pasolini e Sciascia oggi

X. Indifferenza. Una parola chiave da

Antonio Gramsci a papa Francesco p. 295

1. La religione nella visione gramsciana del mondo p. 296

2. Gramsci e la tradizione biblica nella teologia

della liberazione p. 300

Note p. 307

XI. La sensibilità religiosa di Pasolini p. 309

Note p. 312

XII. L’eresia di Sciascia p. 313

Note p. 321

XIII. Pasolini e Sciascia:

due eretici a confronto p. 323

1. Storia di un’amicizia p. 324

2. L’influenza di Gramsci

nelle opere di Pasolini e Sciascia p. 327

Note p. 337

Nota conclusiva p. 343

 

Appendice

Note critiche di

- Claudia Calabrese p. 349

- Salvatore Costantino p. 353

- Santo Lombino p. 363

- Nicolò Messina p. 365

- Gaspare Polizzi p. 373

- Bernardo Puleio p. 377

 

Nota redazionale p. 389

Indice dei nomi pp. 391-404

 










GIACOMO MATTEOTTI CONTRO IL FASCISMO

 
Lottare contro il fascismo

Cristina Formica
29 Dicembre 2024


La memoria rappresenta spesso il livello di civiltà dell’umanità di quelle persone e di quelle comunità che, ricordando il proprio passato, agiscono per migliorare il futuro. I libri servono, oltre al piacere della lettura di uno stile e di un ragionamento, a mantenere il contatto con sé e quanto già avvenuto: non a caso, il detto popolare ricorda che chi non conosce il proprio passato è costretto a ripetere gli stessi errori, fino a che non corregge e differenzia il presente, dando un indirizzo al futuro basato sul migliorarsi, sul proporre soluzioni che tengano presente quanto già successo e già sbagliato. In Italia non abbiamo né elaborato né sappiamo granché della nostra storia, complici un po’ tutti: la politica, che ha rimosso il fascismo confinandolo a una disfida tra squadre; la scienza, che ha avallato, qualcuno ne ha pure guadagnato, nel definire il passato con un’interpretazione buonista della nostra povertà e meschinità; la comunità e la società tutta, che ha preferito sentirsi migliore pensando ai propri antenati come brave persone, ingannati e rispettati in tutto il mondo in cui fummo costretti a migrare, oppure passati come civilizzatori con guerre fasciste verso territori poveri, più poveri di quello che eravamo noi. È necessario tornare su questi temi, il nostro presente ce lo impone.

Contro il fascismo (Garzanti) è un piccolo libro, peraltro molto economico, che riporta due discorsi parlamentari di Giacomo Matteotti, con una bella introduzione dello storico Sergio Luzzato: due interventi ufficiali in seno al parlamento italiano, dove Matteotti ha dato voce a se stesso e al partito socialista, che allora rappresentava una larga parte di contadini e operai impegnati a migliorare la società attraverso le lotte contro un capitalismo becero e schiavista che non salvava nessuno e nessuna, tranne che il proprio interesse.


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Disegno di Gianluca Foglia Fogliazza

Nei cento anni dal suo assassinio per un vile manipolo fascista, che gli rubò la vita con le botte e le coltellate, forse quattro/cinque assassini contro uno, lasciandolo sepolto come un cane nella campagna romana, bisogna ricordare la limpida figura di intellettuale che Matteotti, militante e rappresentante del popolo (il partito socialista era il secondo partito di opposizione in parlamento dopo le fascistissime elezioni del 1924) coraggiosamente espresse nella sua vita e nella sua attività politica. Il ricordo attraverso due discorsi è il modo migliore per raccontare questa persona che tutto fece per frenare il fascismo, non cedendo mai all’interesse e alla codardia la sua alta statura morale. Matteotti fece tutto quello che poté per arginare la dittatura, venendo attaccato e minacciato più volte nella sua vita politica. Eppure, poteva anche lui fare finta di niente come fecero in molti, mantenendo il suo potere borghese nelle pieghe di un’economia che continuava a scegliere il capitale. Matteotti usò sempre le sue capacità, derivanti anche dalla sua posizione sociale di benestante, verso gli ultimi delle terre del Polesine, quando questa parte di Italia era espressione della povertà più estrema, e non come adesso simbolo di una ricchezza povera di tutto, tranne che di beni materiali. Fu un amministratore pubblico attento alla cosa pubblica, non accettando di guadagnare dal ruolo che rivestiva e impegnandosi nelle lotte dei poveri più poveri, all’epoca i contadini che da qualche decennio si erano costituiti in Lega per non continuare a morire di fame. E, si sa, quando le persone si uniscono fanno sempre molta paura.

Il primo discorso di Matteotti fu declamato in occasione della nuova legislatura del 1921, l’anno prima della marcia fascista su Roma, risolutrice per i potenti dei problemi italiani e delle lotte proletarie e contadine. Qui il deputato riporta sì la violenza squadrista, che lui stesso viveva e aveva vissuto come politico e segretario della Camera del Lavoro di Ferrara, ma non intendeva lamentarsi di una ferocia di cui lui stesso riconosceva le radici nella società nazionale; ciò su cui Matteotti puntò la sua massima attenzione era il servilismo della stampa borghese, che ometteva e interpretava ciò che stava accadendo a favore di una destra che usava gli assalti fisici e in armi verso chi, ed erano tante persone, contrastava la potenza e la violenza capitalistica. La colpa del fascismo è nello stato, disse Matteotti, che pone sullo stesso piano chi incendia e spara con chi si difende per non morire. Non tanto quindi la svolta autoritaria che si stava configurando agitava e motivava il deputato socialista, quanto la risposta che il capitale, quello dei grandi proprietari terrieri, della classe politica dell’epoca, metteva a disposizione di Mussolini e dei suoi accoliti: la sua forza, a partire dalla grande stampa di cui era padrona, per attaccare gli eversivi, quei poveri che si stavano contando dopo la tragedia della grande guerra per interrompere il destino della morte per inedia; le lotte contadine e operaie spaventavano i ricchi che prosperavano di questa miseria, lotte temute perché la storia andava verso un’altra guerra, quella contro il capitale assassino.

Mai Matteotti retrocesse di fronte alla paura, all’interesse da cui anche lui poteva trovare beneficio: da proprietario terriero, fece di tutto per rendere la spesa pubblica volta all’interesse collettivo, studiando e approfondendo proprio quei conti, comunali o nazionali che fossero, perché fossero utilizzati nel modo più limpido possibile. Il motivo per cui fu ucciso, tra gli altri, è che stava per denunciare lo scandalo dell’appoggio fascista e del re alla compagnia statunitense Sinclair, che avrebbe sfruttato il petrolio trovato in Emilia Romagna, lasciando un misero 25 per cento degli utili allo stato italiano. Un accordo che presupponeva un lauto guadagno anche per i fascisti al governo e che Matteotti stava per svelare in parlamento, conti e documenti alla mano: non lo fece perché gli chiusero la bocca con la morte, ci rimane perciò l’ultimo discorso in cui, senza remore, sottolinea come i risultati elettorali del 1924 furono determinati dalle violenze, dalle minacce e dalle uccisioni, di cui Mussolini si mise naturalmente a capo, assumendosi la responsabilità morale e materiale di tutte le violenze, compresa anche la morte di Matteotti.

Ciò che Matteotti disse, e fece, rimane cento anni dopo quasi un presente che non vuole cambiare: accordi sottobanco e violenze che hanno determinato troppe volte il destino nazionale, senza che ci fosse la giusta narrazione di quello che realmente è accaduto e per molti versi ancora oggi sta accadendo. La paura dei poveri, delle comunità, dei diversi e dei comunisti continua ad essere usata come un’arma, anche in questi giorni, da chi trae vantaggio economico dalla divisione del popolo italiano. Come se i comunisti, anche oggi, potessero essere un pericolo per il popolo tutto, costringendolo alla dittatura di stato che in altri paesi si è effettivamente realizzata. Rimane una stampa e una comunicazione mainstream che continua a dare ragione, e a omettere per dare ragione, a personaggi pubblici impresentabili, che continuano a giocare sulle nostre teste le loro carte di servi del moderno capitale, dei Musk di turno, che utilizzano la loro influenza economica per trarre ancora più vantaggio per sé, mai domi e mai al servizio della collettività. Purtroppo, un nuovo Matteotti non c’è più stato, la politica continua ad avere veramente difficoltà ad essere dalla parte del popolo; il popolo stesso, ha smesso di avere una parte pubblica e collettiva, raccolto nella propria piccola esistenza, nella propria piccola ricchezza, nella propria triste quotidianità.


Giacomo Matteotti, Contro il fascismo (Garzanti, Milano 2019 € 5)

I discorsi di Giacomo Matteotti sono leggibili, e scaricabili, sul sito storico della Camera dei Deputati

PADRE GIACOMINO E' ANCORA VIVO PER ME

 






"Quando aiuto i poveri mi chiamano Santo. Quando mi chiedo perché i poveri sono privi di tutto mi chiamano comunista"

      Queste parole di Helder Camara, vescovo brasiliano vicino ai teologi della liberazione, le ripeteva spesso Padre Giacomino. Pochi sanno che, tra gli anni settanta e ottanta, l'ex Parroco della Magione scrisse al Vescovo brasiliano per chiedergli lumi sul dialogo tra cristiani e marxisti, in vista anche della tesi sperimentale di filosofia che stava preparando proprio sullo stesso argomento.

      In questa tesi, di cui mi donò una copia, trovò spazio anche una mia breve testimonianza che Giacomino volle aggiungere a tante altre.

    Per me, Giacomino (come lo chiamavo), è stato un amico e un fratello maggiore. Ho collaborato alla sua rivista CNTN fino alla fine. E ci siamo voluti sempre bene. (fv)

 


29 dicembre 2024

PERDERSI PER RITROVARSI

 


Melania Mazzucco - Il fascino di perdersi senza spiegazioni nelle costellazioni dipinte da Mirò

Il cielo brulicante di stelle è la consolazione dei solitari e dei vagabondi. Le costellazioni indicano la direzione a quelli che brancolano nell’oscurità. Le Costellazioni di Miró sono una serie di 23 tempere: un ciclo di opere dello stesso formato, che rimano fra loro combinando gli stessi elementi come note musicali, e infatti paragonate alle Variazioni Goldberg. Miró dipinse la prima il 21 gennaio del 1940, nella casa che aveva preso in affitto a Varengeville sur Mer, in Normandia. Dagli anni ’20 aveva trovato un equilibrio fra le sue due patrie: quella d’origine e quella che si era scelto. Come Persefone, fluttuava tra il sole e la notte: l’estate in Catalogna, l’inverno a Parigi. Dal 1937, però, era un esule, e aveva perso i mesi di luce.

La guerra lo braccava, anche se aveva partecipato a quella civile spagnola solo da pittore: esponendo l’enorme El Segador — il contadino in rivolta — nel padiglione della Repubblica all’Expo di Parigi del 1937, insieme a Guernica di Picasso. Nel 1939, la guerra — mondiale ormai — lo aveva raggiunto. A Varengeville Miró trascorse mesi di solitudine e sgomento, ascoltando musica, leggendo poesie e osservando gli acquitrini, le nuvole, il silenzio. Le stelle lenivano l’orrore, gli restituivano la bellezza dell’universo e il passato che temeva perso per sempre. Da bambino, a Montroig, il padre, orefice, orologiaio e astronomo dilettante, gli aveva insegnato a decifrare il firmamento col telescopio.

Riprese i pennelli. Frappose fra sé e la guerra l’infinito del cielo dipinto. Scelse come supporto la carta (raschiandola, sfregandola e torturandola), e come medium l’acqua e il fuoco (colori ad acqua e benzina). Poi, astraendosi da tutto, come in sogno, iniziò a cartografare le sue costellazioni su fogli di 46 cm x 38 (più o meno due volte un A4). Intitolò la prima Le lever du soleil. Con pazienza e cura maniacale del contrappunto di forme e colori, ne realizzò dieci. Alcune erano rade di segni, come il cielo pallido nella notte di plenilunio; altre fittissime, come nel cielo buio di luna nuova. Nel maggio del 1940 i nazisti bombardarono la Normandia, e Miró salì sull’ultimo treno per Parigi — da cui gli abitanti fuggivano, in attesa della catastrofe. Stretto fra Hitler e Franco, scelse la geografia degli affetti. Si rifugiò a Palma di Maiorca, isola-madre (lì era nato il nonno materno).


Le lever du soleil




Nascosto per timore di ritorsioni dei falangisti, anonimo, oppresso dalla sensazione che non ci fosse un futuro. «Mi dicevo» ha raccontato dopo «vecchio mio, sei fregato. Ti sdraierai sulla spiaggia e disegnerai sulla sabbia con un bastone. Oppure farai dei disegni col fumo di una sigaretta. Non potrai fare nient’altro». Ma gli restava la libertà di dipingere. In agosto riprese le Costellazioni. Femmes encerlées par le vol d’un oiseau, la diciannovesima, è del 26 aprile 1941.

Miró — considerato il rappresentante più giocoso di una pittura automatica e onirica che attinge all’inconscio — si nutriva di tutto e tutto inseriva nella sua creazione. Non attribuiva alle opere d’arte un ruolo gerarchicamente superiore a quello degli oggetti, fosse pure il laccio di una scarpa. Trovava le aringhe affumicate arrotolate in una scatola di metallo belle come un rosone di Chartres.

Era questa democrazia combinatoria delle cose il suo “surrealismo”. Ma non lasciava nulla al caso. Minuzioso come un artigiano, sperimentava tecniche, materie. Dal 1931 dava sempre un titolo (in francese) alle sue composizioni, e ne annotava scrupolosamente la data (giorno, mese, anno). Dunque considerava importanti l’uno e l’altra. Per questo non separo le Costellazioni dalla Storia che le assedia, né dalla narrativa che lui voleva evocare coi titoli: sognava opere che abbagliassero come una donna e rapissero l’immaginazione come una poesia. «Il titolo è una realtà esatta», diceva: e solo una volta trovato il titolo l’opera diventava reale per lui.

Une étoile caresse le sein d’une negress


Questo associa le due parole magiche di Miró, la donna (qui al plurale, les femmes) e l’uccello (l’oiseau):già apparsi insieme in svariate pitture, in seguito (specie negli anni ‘60 e ‘70), sarebbero stati onnipresenti, declinandosi in un’infinità di varianti. La donna terrestre, dea madre mediterranea pagana ed eterna, simboleggia la materia; l’uccello aereo, l’artista — il volo, il canto e la libertà. (L’uomo invece non è mai menzionato da Miró, sempre solo ridotto a ‘personaggio’). Nelle opere ‘selvagge’ degli anni ‘30 la donna è ancora riconoscibile — dalle curve, da un triangolo con la punta in alto, vago ricordo di una gonna svasata, dall’onda doppia dei seni. Ma nelle Costellazioni le forme sono pure, sono diventate pittografie, lettere di un alfabeto misterioso.

E a spiegarle si corre il rischio di fare la fine di Éluard, che ammirò “un simbolo solare” e si sentì rispondere da Miró che era invece una patata. Bisogna abbandonarsi alla lirica astratta di questa fantasmagoria in giallo, rosso, verde e nero, quasi un graffito sulla cenere. Immagini scaturite dalla memoria di quadri già dipinti o visione di quelli futuri. Forme zoomorfe e vegetali, linee spezzate. Globi, stelle, pupille, lumaconi, spermatozoi, asterischi, occhi, triangoli e farfalle — come un geroglifico. Che ha la magica leggerezza della calligrafia orientale e degli ideogrammi dei bambini, ma forse riecheggia le incisioni rupestri che Miró aveva ammirato a otto anni al Museo d’Arte Catalana: gli uomini preistorici inventarono l’arte per dialogare con l’invisibile. Deponevano nelle grotte i simulacri degli animali che avrebbero cacciato o che li avrebbero uccisi. Era un rito,una preghiera e uno scongiuro. Chiedevano la fortuna, l’abbondanza, la vita: rappresentandola.

Trasmettono lo stesso incantesimo le Costellazioni di Mirò. Trovate da soli l’uccello in volo, in questo scintillio cosmico. Io mi azzardo a identificare la donna nella nera clessidra — forma ricorrente del quadro. Miró ci era arrivato per semplificare visivamente il seno (si veda Une étoile caresse le sein d’une negresse, 1938). Ma l’associazione della donna al tempo è antica.

Passage de l’oiseau divin

L’ultima costellazione, il Passage de l’oiseau divin, Miró la dipinse il 12 settembre 1941: nella casa del padre, a Montroig, vicino Tarragona. L’esilio era finito, le stelle lo avevano riportato a casa. I 23 acquerelli di questo poema siderale, oggi dispersi in tutto il mondo, formavano invece un’unica scrittura. Privatissima e impersonale, come ogni opera d’arte. La sola che potesse, e può, guidare fuori dal labirinto della guerra e della storia verso l’armonia — e la bellezza.

(Da: La Repubblica del 6 ottobre 2013)

LUIGI RUSSO e STEFANO VILARDO

 



Meglio tardi  che mai!

La Strada degli scrittori: Luigi Russo e Stefano Vilardo inseriti nel percorso culturale

Luigi Russo, critico letterario tra i più importanti del ‘900 e Stefano Vilardo, poeta e scrittore, fanno parte da pochi giorni del percorso culturale “La Strada degli Scrittori” che si snoda attraverso la SS 640 Agrigento-Caltanissetta e che propone una “segnaletica della cultura” siciliana che parte da Agrigento con Pirandello, prosegue con Camilleri, Russello, Sciascia, Rosso di San Secondo a Caltanissetta.

Lungo il percorso, che segnala anche le testimonianze culturali della presenza degli autori sul loro territorio di origine, sono presenti ora le indicazioni, nei pressi di Delia, relative a Luigi Russo e Stefano Vilardo, nati appunto nel piccolo comune del nisseno.

Soddisfazione è stata espressa dal sindaco di Delia Gianfilippo Bancheri, che aveva chiesto, insieme all’assessore Carmelo Alessi, alla Regione e all’ANAS, di inserire i due illustri intellettuali deliani nel percorso.

Luigi Russo (1892-1961) studente al liceo classico “Ruggero Settimo” di Caltanissetta e laureato alla Normale di Pisa, autore di un “Saggio su Verga” che, nel 1920, illuminava di nuova luce lo scrittore siciliano che era stato colpevolmente dimenticato dal mondo letterario abbagliato dalle suggestioni dannunziane, inaugurando l’indirizzo nettamente storicistico che lo avrebbe guidato nella composizione dei suoi celebri saggi di storia e critica della letteratura italiana, rivalutando anche l’opera di Manzoni, che era stata messa in ombra dalle obiezioni di Benedetto Croce.

Stefano Vilardo (1922-2021) amico e compagno di scuola di Leonardo Sciascia all’Istituto Magistrale di Caltanissetta, autore di raccolte poetiche (“Tutti dicono Germania Germania” la Spoon River degli emigranti siciliani, “I primi fuochi”) e romanzi (“Una sorta di violenza”, “Uno stupido scherzo”), studi etnologici (“Il paese del giudizio”), ha raccontato con stile fortemente antiretorico la condizione umana della gente della nostra terra, sperimentando anche, anni prima di Camilleri, il linguaggio misto di siciliano e italiano con cui ha dato la parola ad alcuni dei suoi personaggi.

La luna di dicembre di Sandro Penna

 



LA LUNA DI DICEMBRE DI SANDRO PENNA




LA ROSA BIANCA DI ATTILIO BERTOLUCCI

 



La rosa bianca

Coglierò per te
l'ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l'hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent'anni,
un po' smemorata, come tu sarai allora.

  ATTILIO BERTOLUCCIFuochi in novembre (1934)

28 dicembre 2024

DIRITTO E RAGIONE DI STATO

 



𝗟𝗔 𝗦𝗘𝗡𝗧𝗘𝗡𝗭𝗔 𝗦𝗔𝗟𝗩𝗜𝗡𝗜 𝗘’ 𝗨𝗡 𝗖𝗔𝗦𝗢 𝗠𝗔𝗚𝗜𝗦𝗧𝗥𝗔𝗟𝗘 𝗗𝗜 𝗥𝗔𝗚𝗜𝗢𝗡 𝗗𝗜 𝗦𝗧𝗔𝗧𝗢
Raniero La Valle sul Fatto del 28/12/2024

La sentenza di Palermo grazie alla quale è andato assolto il ministro Salvini è un paradosso che spiega più cose di quanto potrebbe fare un intero corso universitario. Si tratta di una sentenza evidentemente dettata dalla ragion di Stato, che è il paradigma nascosto che ispira la condotta degli Stati accanto e contro il paradigma ufficiale e dichiarato del diritto. E che di questo si tratti è dimostrato dalla lunga gestazione della sentenza (una giornata intera in Camera di Consiglio) e dalla plateale motivazione secondo la quale "il fatto non sussiste", che è l'unica cosa invece assolutamente incontrovertibile: si può infatti dire che non sia un reato quel sequestro di persone, o che non si possa definire così quella omissione di atti d'ufficio, o che quelli fossero atti d'ufficio non dovuti, ma non si può dire che non sussista il fatto che a 147 naufraghi disperati sia stato impedito di toccare terra, di esercitare il diritto di chiedere asilo, di essere trattati e curati come esseri umani.
È dunque una sentenza suicida, che nega se stessa, che sfugge ad ogni principio di realtà, e di cui gli stessi giudici sembrano dire che è impugnabile e riformabile da un'istanza superiore.
Ma ciò non per caso, o per denegata giustizia.
Al contrario appare che i giudici con tutto fondamento abbiano ritenuto di dover farsi carico di una ragion di Stato che, in presenza di un potere del tutto privo di una cultura di governo, di senso delle istituzioni, e incline a discorsi eversivi e vendicativi, esigeva di prevenire una crisi devastante dell'ordinamento repubblicano e dei rapporti tra gli organi dello Stato, che nemmeno il presidente della Repubblica avrebbe forse potuto risanare.
L'arrogante preannuncio del ministro di non dimettersi e la solidarietà con l'imputato manifestatagli da poteri legittimi o prevaricatori interni e internazionali, rendevano molto plausibile tale pericolo. Ancora di più la millanteria del ministro Salvini di aver difeso i confini della Patria facendo strage di migranti inermi, rappresentava un oltraggio a quanti, militari e no, ad altissimi costi difendono le loro terre.
Quanto alla ragion di Stato, è chiaro che un ente pubblico, compresa la magistratura, agisce pur sempre nell'ottica del perseguimento dell'interesse collettivo, ma è molto delicato maneggiarla. E la prima cosa che andrebbe rivisitata in una riforma dello Stato che abbandonasse la sua versione moderna fondata sull'assoluto della sovranità, sul diritto di guerra, sulla mitica difesa dei confini e sulla "competizione strategica" di ognuno contro tutti.
Dalla ragion di Stato discendono i Servizi segreti, che solo quando affiorano dal buio del segreto sono chiamati "deviati"; suoi frutti sono i colpi di Stato, come in Cile o a Damasco, le false rivoluzioni come in Ucraina o in certe "primavere arabe", il sabotaggio delle infrastrutture, come i gasdotti nel mar Baltico, le irruzioni con i deltaplani a motore come a Gaza, gli omicidi mirati, come quelli a Teheran e a Dubai, o con i cerca persone come in Libano e in Siria, i prelevamenti forzati della Cia e le renditions, come quella di Abu Amar a Milano.
Ma dove la ragion di Stato e i relativi Servizi danno il meglio di sé è nel tirannicidio, pratica celebrata e discussa perfino in diritto e in morale: la tesi soggiacente, come ricordato da Carl Schmitt, è che 𝒕𝒚𝒓𝒂𝒏𝒏𝒖𝒎 𝒍𝒊𝒄𝒆𝒕 𝒂𝒅𝒖𝒍𝒂𝒓𝒊, 𝒕𝒚𝒓𝒂𝒏𝒏𝒖𝒎 𝒍𝒊𝒄𝒆𝒕 𝒅𝒆𝒄𝒊𝒑𝒆𝒓𝒆, 𝒕𝒚𝒓𝒂𝒏𝒏𝒖𝒎 𝒍𝒊𝒄𝒆𝒕 𝒐𝒄𝒄𝒊𝒅𝒆𝒓𝒆: è lecito adulare il tiranno, è lecito ingannarlo, è lecito ucciderlo.
Lecito o no, di certo è quello che in nome della ragion di Stato si fa nel benemerito Occidente, anche se non si tratta di tiranni, da Wael Zuaiter, il palestinese ucciso a Roma, a Kennedy, a Allende, a Moro, a Gheddafi, fino a Ismail Haniyeh, il capo Hamas, fino al generale russo Kirillov. In ogni caso, tutto si può sostenere, tranne che la ragion di Stato consista nel fare del Mediterraneo un cimitero, e delle navi di soccorso bare galleggianti.

L' OVRA SOPRAVVISSUTA AL REGIME FASCISTA

 



"INGANNO DI STATO": OGGI SU "IL T quotidiano" di Trento

ne scrive così, generosamente, CARLO MARTINELLI:


"È un saggio storico denso, preciso, certosino, brillante e leggibile come da tradizione nei suoi libri (con questo sono 22) quello che Giorgio Boatti, giornalista e scrittore, autore di saggi e inchieste sulla storia recente del nostro Paese – oltre che di un romanzo, “Abbassa il cielo e scendi”, dolorosamente intimo quanto di luminoso impegno civile - ci consegna in questi giorni. “Inganno di Stato” (Einaudi, 370 pagine, 22 euro) lo conferma voce preziosa e necessaria. Come pochi altri Boatti dipana le ragnatele della nostra storia recente, proprio come quella che campeggia in copertina, inserita nella I maiuscola di Italia, accanto al sottotitolo: “Intrighi e tradimenti della polizia politica tra fascismo e Repubblica”. Questo nostro viaggio nelle pagine del libro e in particolare attraverso le vicende dell’Ovra (Opera vigilanza repressione antifascismo), la polizia segreta così ribattezzata nel 1927 da Mussolini con un acronimo non ufficiale che volutamente richiamava la piovra e i suoi tentacoli, inizia in modo irrituale. E propone i titoli dei venticinque capitoli nei quali è strutturato “Inganno di Stato”. Uno dopo l’altro restituiscono l’avventuroso ed informato scandaglio compiuto da Boatti nel mondo degli apparati di sicurezza della dittatura fascista, quegli apparati e quegli uomini che approderanno peraltro prima nella Repubblica Sociale Italiana e infine, in parte tutt’altro che residuale, nell’Italia democratica nata dalla Resistenza.

Il nostro, che ora “vive e lavora in una vecchia cascina, accanto al fiume, nel parco del Ticino”, getta il lettore, subito conquistato, in pasto a queste storie, che sono Storia: L'ora piú incerta; Regina Coeli; La bomba, le bombe; Un commissario fuori pista; Un puntino in cielo; Colpo grosso sul lungolago; Il poliziotto e il professore; Nella città tumultuosa, ordine e sbirri; Tiranni, tirannicidi e zitelle inglesi; La Vinicola di via Sant'Orsola e il «compromesso»; Il traditore perfetto; Apprendisti bombaroli; Il trabocchetto;

Un processo gestito per bene; Il valzer degli infiltrati; Spiare è narrare; Un poliziotto di classe; Chi scende e chi sale; La triade; Lo sfascio; La notte degli equivoci; Lo Stato sospeso; Attendere, agire, tacere; Doppiogioco con Osteria; Archivi incorporati, tra liberatori ed epuratori.

È lo stesso Boatti a spiegare il senso e il percorso del suo lavoro di ricerca quando, in premessa, scrive che gli storici lavorano con metodo per comprendere quanto di ancora ignoto, sul passato, merita di venire alla luce. Il suo libro prende però un'altra direzione. Pur aderendo puntigliosamente alla realtà dei fatti, sviluppa una narrazione che fa emergere, nel ruolo svolto dalla polizia politica della dittatura fascista, quanto di così ovvio e scontato vi ha preso posto tanto da risultare, ancora oggi, parzialmente velato. Così, per dettagli e frammenti che conducono a più vaste connessioni, ecco ricomposto il mosaico dell'agire di un efficiente e selezionato apparato, interno al Viminale, che serve Mussolini ma che, tuttavia, è già operante ben prima del suo brutale imporsi. E, al crollo del regime, gli sopravvive, nella Repubblica. Tutto questo nel nome di quella continuità dello Stato, o meglio delle sue strutture repressive, su cui ha fatto luce, sottolinea Boatti, già negli anni Settanta, la ricerca storiografica di Claudio Pavone. Non a caso l'incipit del libro racconta il drammatico incrociarsi, nella Roma occupata dai nazisti, del giovane cospiratore antifascista Pavone con Guido Leto, capo della polizia politica del regime e personaggio centrale nella narrazione. Giova ricordare che Guido Leto, succeduto ad Arturo Bocchini nella guida della polizia politica nel 1938, ne fu responsabile anche al tempo della RSI per poi traghettare, superato indenne l’epurazione e il processo nell’aprile del 1946, alle istituzioni repubblicane: fu direttore tecnico delle scuole di Polizia fino alla pensione nel 1951. Questa continuità viene resa evidente dall’autore che, aggiunge: “Ciò interpella tutti coloro che hanno a cuore le libertà duramente conquistate da quegli intrepidi che, seppur pochi, non si piegarono alla dittatura. Né si rassegnarono al conformismo dei più”. E qui risulta evidente il collegamento con un altro testo di Boatti, del 2001: “Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini”.

In una recente intervista pubblicata da “La Provincia Pavese” – il quotidiano della “sua terra” cui collabora da tempo dopo aver firmato a lungo, con Oreste Del Buono, “Luoghi comuni”, storica rubrica su “Tuttolibri”, l’inserto de “La Stampa” – Giorgio Boatti spiega al meglio il suo lavoro di scrittura, oggi. “Nella mia vita appartata faccio continui bagni di realtà, leggo, studio, mi confronto. Invecchiando, mi godo il piacere di imparare e di capire. Questo deve fare l’intellettuale, scendere dalla cattedra e porsi al servizio della comunità. Lo faccio anche con “Inganni di Stato”, che parla a ogni generazione e offre una chiave per capire una fase della nostra storia e come funzionano le istituzioni a guardia del segreto e del potere. È una militanza civica”. Per questa militanza civica, merita gratitudine."