“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
03 dicembre 2024
UNA MOSTRA POCO FUTURISTA
Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909
Alessandro
Beltrami, Sul futurismo una mostra poco futurista
Avvenire, 2 dicembre
2024
È complicato visitare la mostra sul Futurismo che oggi apre
al pubblico a Roma cercando di concentrarsi soltanto su quanto si vede, sul
progetto espositivo, sulle opere e lasciando sugli scalini della Galleria
nazionale di arte moderna tutto quanto l’ha preceduta. Arduo lasciare da parte
la vicenda politica e mediatica (e ben poco culturale) che ha accompagnato fin
dall’inizio “Il tempo del Futurismo” (un tempo brevissimo almeno dal punto di
vista espositivo: chiuderà il 28 febbraio, una finestra davvero esigua per un
progetto nato e dichiarato ambizioso, in un momento tra l’altro in cui le
mostre hanno lunghe teniture – ma, come qualcuno forse ricorderà, lo mostra doveva
aprire a ottobre) e che non serve qui riassumere. Basterà osservare che era
difficile che non finisse così, viste le premesse che affondano nel dirigismo
“Italy first” (Tolkien a parte) dell’ex ministro Sangiuliano, oggi riemerso per
ricordarci di essere un entusiasta biografo trumpiano, e in un pressapochismo
nella gestione della componente organizzativa, a partire dall’incapacità di
costruire un comitato scientifico.
Quella sul Futurismo era stata annunciata subito come mostra
programmatica di un corso governativo e di un rilanciato orgoglio nazionale (e
così è avvenuto ieri in una conferenza stampa che ha visto presenziare il
ministro della Cultura Alessandro Giuli, il presidente della commissione
cultura della Camera Federico Mollicone e Massimo Osanna, capo della Direzione
generale Musei), ma profumava assai più di bandiera della revanche di
una destra intenta a costruire una nuova egemonia presto rivelatasi piuttosto
una endogamia culturale. Una mostra forse anche frutto di un malinteso e di
ingenuità: il Futurismo non ha certo più bisogno di riabilitazioni, semmai di
studio e divulgazione. Ma il peccato originale di questa mostra, in un ultima
analisi, sta nell’essere stata di fatto organizzata e gestita direttamente dal
ministero della Cultura, come se fosse l’assessorato di un comune qualsiasi.
Una sala della mostra “Il tempo del Futurismo” alla Galleria
Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea (Gnam) di Roma - Ansa/Maurizio
Brambatti
Dunque, in tutto questo marasma, che mostra ha preparato il
curatore Gabriele Simongini? La chiave dichiarata è nella relazione tra arti,
scienza e tecnologia che caratterizza “il tempo del Futurismo” e che lo
avvicinerebbe al nostro presente sottoposto, scrive Simongini, allo «tsunami
tecnologico dell’intelligenza artificiale» che avvera «la profezia della
macchinizzazione dell’umano e dell’umanizzazione della macchina preconizzata
proprio dai futuristi». La mostra è oggettivamente gigantesca, con 350 tra opere,
progetti, disegni, oggetti d’arredo, film e un centinaio fra libri e manifesti,
insieme a automobili, motociclette e strumenti scientifici dell’epoca e un
modello in scala reale dell’idrovolante Macchi-Castoldi M.C.72, con cui
Francesco Agello nel 1934 ottenne il record del mondo di velocità (709
chilometri orari), ancora imbattuto. In questo senso Simongini introduce come
figura centrale Guglielmo Marconi, considerato come un futurista – forse un po’
forzatamente: tutti gli scienziati e i tecnologi lo sarebbero stati, ma
certamente le sue apparecchiature restituiscono il brivido di un’epoca di
pionieri.
L’idea è giusta, ma l’allestimento fatica a restituirla.
L’unica sala in cui questo si compie in maniera efficace è la prima, in cui
vengono accostati i precedenti divisionisti del Futurismo ma soprattutto viene
istituito un rapporto visivo diretto tra Il Sole di Pellizza
da Volpedo (1904) e Lampada ad Arco di Giacomo Balla (1911),
giunta dal MoMA di New York, dove il lavoro comune sulla luce si sposta
simbolicamente e graficamente dal naturale all’artificiale, dal mondo rurale
alla città. Accanto, una lampada ad arco francese dei primi del Novecento. Poi
la mostra si diluisce e si perde. Un problema essenziale è dato dagli spazi
troppo grandi e iper-illuminati della Gnam per opere che soprattutto nella
prima parte hanno dimensioni esigue e borghesi (meglio sarebbe stata una sede
espositiva più contenuta e articolata come le Scuderie del Quirinale), che
schiacciano la mostra in particolare nelle fasi iniziali costretta a riempire
le sale in modo un po’ confuso. Ma soprattutto non c’è un guizzo nella scansione
omogenea e priva di brio delle pareti, sulle quali un quadro è appeso
invariabilmente ogni 60 centimetri, e dove le poche opere maggiori sono
disperse tra i molti quadretti. Mentre la pannellistica anodina e burocratica
non prova neppure (ma quando lo fa è davvero discutibile) a recuperare
l’energia anarchica e strafottente della grafica futurista, questa invece sì
ben documentata nelle molte edizioni in mostra. Per quanto riguarda
l’accostamento tecnologia e arte, è difficile non notare come nel grande salone,
senza dubbio spettacolare, le automobili e le motociclette oscurino e divorino
i quadri alle pareti. Tra l’altro quasi nessuno di questi improntato al tema
della velocità: tutti i lavori astratti di Balla sul movimento li troviamo in
una sala successiva, dedicata all’intonarumori. Coerente invece la sala
sull’aeropittura (ma in generale il secondo Futurismo è meglio rappresentato
del primo), costruita attorno all’idrovolante.
La mostra in sé è onesta e tutto sommato esaustiva del mondo futurista, con molti
nomi di secondo e terzo piano a testimoniare la vastità del fenomeno, ma non
appare di portata internazionale come nelle intenzioni. Inoltre, ed è un
pregio, evita secche ideologiche. Eppure è difficile sfuggire alla sensazione
che anche con lo stesso materiale, abbondante ma non sempre entusiasmante,
sarebbe stato possibile suggerire un percorso differente. Sarebbe bastato osare
con più libertà, sovvertendo la consequenzialità cronologica e riavvolgendo più
volte il tempo su se stesso per proiettarlo, davvero futuristicamente, di nuovo
in avanti.
02 dicembre 2024
MA QUESTA STORIA E' DAVVERO FINITA?
L’IRROMPERE DELLE CLASSI SUBALTERNE NELLA STORIA
“LE MASSE POPOLARI COMBATTONO PER ENTRARE NELLA STORIA” una pagina dall’originale dell’articolo che la rivista Società pubblicò nel nr. 3 del 1949 di Ernesto de Martino “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno”
Questa storia oggi sembra finita ed archiviata per sempre.
Ma la storia continua e nessuno oggi può dire come finirà. (fv)
Persino il Corriere della Sera ieri, nel suo inserto culturale, seppure in modo marginale, dava questa notizia:
E cosa dire di una vignetta del 1925 (!) circolata in questi giorni nei social:
L' INGANNO DI PIU' DONNE AL POTERE
Antonello Caporale intervista Eva Cantarella
"Più donne al potere, ma meno diritti: è questo l'inganno"
Aumentano le donne al potere eppure regrediscono i diritti delle donne. Un bel paradosso professoressa Eva Cantarella.
Un paradosso solo per chi immagina che una donna al potere sia per ciò stesso una buona notizia per le donne.
Perché dovrebbe essere invece una cattiva notizia?
Se Giorgia Meloni proclama in piazza di essere “donna, madre e italiana”, e sviluppa nel trittico Dio, Patria e Famiglia il proprio impegno civile, beh siamo oltre una cattiva notizia. E mi fa specie che non si capisca subito.
E se invece si ritenesse esclusivamente ideologica la contestazione che lei fa?
Dov’è l’ideologia? Dov’è il pregiudizio? Legare l’identità femminile alla condizione di madre è di per sé una cintura di contenimento civile. È un’oratoria regressiva ed è un fatto che alcune donne sono dichiaratamente antifemministe.
Eppure Von der Leyen a Bruxelles, Meloni e Schlein a Roma, Le Pen a Parigi, Wagenknecht a Berlino per citarne solo alcune, dimostrano un potere rosa che si allarga e si consolida.
Lei però indicava un paradosso.
Almeno nel nostro Paese la contestazione politica dell’esercizio pieno del diritto all’aborto, la contestazione della parificazione dei diritti tra coppie eterosessuali e non, l’introduzione del reato universale in caso di gestazione per altri.
E qui siamo appunto nel cuore del paradosso. Il contenimento di questi diritti è frutto di un’azione politica che li ritiene preminenti rispetto ad altri problemi sociali. Perciò io dico: fate attenzione donne. La distinzione del buono e del cattivo non è il frutto di un regolamento di conti tra i due generi. E già che ci sono aggiungo: le quote rosa sono una fandonia, una fanfaluca.
Il potere femminile sviluppa – a guardare la mappa dell’Europa - una leadership prevalente nei partiti di destra invece che di sinistra. Curioso, no?
Sì, curioso (e preoccupante). E infatti la destra al governo accetta o almeno non contrasta lo squilibrio tra generi. La donna nel mondo del lavoro è generalmente meno tutelata dell’uomo. E vogliamo parlare del diritto alla maternità? Avere un figlio dovrebbe essere una scelta libera e consapevole dei genitori, e per la donna che lo mette al mondo, la gravidanza provoca un impatto fisico ed emotivo ancor più considerevole. Invece la maternità è nei fatti proibita a migliaia (milioni?) di donne che non possono gestirla economicamente né possono ottenere il tempo che necessita per affrontarla con serenità.
E poi c’è la cronaca, i casi di violenza, la triste sequela dei femminicidi.
È il potere muscolare del maschio che promuove queste feroci aggressioni ma è anche l’indice di una società malata e di rapporti ancora diseguali, ancora troppo enormemente sbilanciati.
Lei che ha narrato l’età del mondo antico, le gesta di tante donne, ha un nome da indicare e rievocare? Beh, la storia di Zenobia supera tutte. Siamo nel terzo secolo dopo Cristo, e questa donna trasforma il suo Stato in un regno che sarà della città di Palmira, ai confini del mondo arabo con quello romano. Una guerriera audace, cavallerizza notevole, dalla beltà inarrivabile ma anche dall’ambizione smisurata. Accrebbe i propri domini con l’occupazione dell’Egitto, della Bitinia e della Siria. Non si accontenterà di essere nei fatti la regina dell’Africa e dell’Oriente più vicino, ma sfiderà l’imperatore Aureliano.
Zenobia alla fine vince o perde?
Perde naturalmente.
Pezzo ripreso da: https://machiave.blogspot.com/2024/12/la-maternita-esaltata-e-negata.html
IL TEMPO LUNGO DI EMILIO PAOLO TAORMINA
IL NUDO CAPITALISMO
Il nudo capitalismo
In questa fase della sua storia, il capitalismo non può sopravvivere senza produrre massacri, genocidi e crimini di ogni tipo contro le persone, la madre terra, la vita. Per questo in diversi paesi, come in Ecuador, esiste un’evidente convergenza tra affari mafiosi, capitale e Stato
In un articolo uscito il 22 novembre sull’Economist, intitolato “Un viaggio nel nuovo narcostato del mondo”, si può leggere di villaggi come Mocache, dove hanno ordinato ai sacerdoti di seppellire i mafiosi insieme con i loro arsenali di fucili mitragliatori, perché gli offrano protezione nell’al di là. Nella Cooperativa San Francisco, un quartiere povero di Guayaquil, il principale porto dell’Ecuador, i mafiosi hanno tagliato la lingua ai bambini per evitare che diventino informatori della polizia”.
Il testo, firmato dal giornalista Alexander Clapp, attribuisce all’esercito e alla polizia la responsabilità di aver trasformato un paese tranquillo, che era persino un esempio per la regione, in un inferno per i suoi abitanti.
Dopo aver esaminato il fallimento delle politiche statali, Clapp afferma che l’infrastruttura usata per il trasporto delle banane, la frutta di maggior consumo del pianeta, viene utilizzata anche per il traffico della cocaina, “così da convertire il prodotto emblematico delle esportazioni dell’Ecuador in un sinonimo internazionale del contrabbando”. Non dice, anche se gli ecuadoriani lo sanno, che la produzione e l’esportazione delle banane sono nelle mani della famiglia del presidente Daniel Noboa, che non può non sapere che i suoi affari sono al servizio del cosiddetto crimine organizzato.
Clapp si spinge più in là e punta il dito su alcune ragioni strutturali: “Un’economia dollarizzata offre opportunità per riciclare guadagni illeciti. E l’Ecuador è collegato alla rete globale delle rotte mercantili grazie all’infrastruttura che sostiene l’esportazione di quattro milioni di tonnellate di banane all’anno, praticamente in tutti i paesi del mondo”.
Anche se l’articolo non la menziona, anzi la nasconde, esiste un’evidente convergenza tra gli affari mafiosi, il capitale e lo Stato.
Ci hanno insegnato a separare: una cosa è la violenza contro le donne, un’altra, molto diversa, il brutale sfruttamento del lavoro o le violenze di cui soffrono i bambini e le bambine; depredare i popoli non ha niente a che fare con l’accumulazione del capitale o la gentrificazione delle città; non c’è alcun rapporto fra la disoccupazione e la mancanza di futuro da una parte e l’epidemia di depressione e suicidi fra i giovani dall’altra. E naturalmente non esiste il minimo legame fra la mafia e lo Stato (con i suoi politici).
Per questo il nostro compito è mettere in luce i fili che collegano le diverse facce di questo sistema capitalistico. Invece di militarizzare il paese, in particolare i quartieri popolari, e impedire che la gente manifesti contro le interruzioni dell’elettricità e le chiusure degli acquedotti, lo Stato potrebbe smantellare le infrastrutture pubbliche e private che i narcotrafficanti utilizzano per trasferire le droghe all’estero. Il problema è che una parte di queste vie di comunicazione appartiene ai grandi capitali legati all’esportazione delle banane, il grande affare dell’Ecuador, controllato da pochissime famiglie.
Il collettivo femminista “Mujeres de Frente”, che si occupa dell’educazione delle carcerate, sostiene che dal 2015 in poi, grazie al sostegno della polizia, dei grandi imprenditori e dell’ambasciata degli Stati Uniti, lo Stato ha creato nelle carceri dei gruppi criminali che portano avanti un particolare tipo di accumulazione: la rapina al servizio dei potenti.
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Il ricercatore colombiano Alfonso Insuasty, che fa parte del collettivo Kavilando, afferma che, delle oltre ottocento basi militari che gli Stati Uniti controllano nel mondo, settantasei si trovano in America Latina (TRT, 30/10/2024). Ci ricorda anche che il presidente Noboa pretende installarle di nuovo, dopo che Rafael Correa ha chiuso quella di Manta.
Ancora un dettaglio: “Per far nascere il suo terzo figlio, Noboa se n’è andato negli Stati Uniti, a Miami. Trentasei anni fa aveva fatto lo stesso suo padre Álvaro – il magnate delle banane che aveva accumulato la più grande fortuna del paese – motivo per cui anche l’attuale presidente ha il suo certificato di nascita a Miami. È una strana abitudine di certe famiglie aristocratiche ecuadoriane per assicurare ai loro discendenti la nazionalità statunitense, ci informa Eloy Osvaldo Proaño (Nodal, 27/09/2024).
I dati sono lì: si tratta solo di verificarli per eliminare i piccoli trabocchetti di chi vuol far confusione intorno a legami evidenti. I grandi imprenditori, gli apparati armati dello Stato e della giustizia, il Pentagono e il crimine organizzato sono tutti tentacoli di una stessa Idra che si chiama capitalismo. Un sistema che in questa fase della sua storia non può sopravvivere senza produrre massacri, genocidi e crimini di ogni tipo contro le persone, la madre terra, la vita.
Pubblicato su Desinformemonos.org. Traduzione per Comune di Marco Codebò. Raúl Zibechi e Marco Codebò hanno aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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