Renato Guttuso
Bagheria, 1965
L’ ESTRATTO DI POMODORO
Mario Pintacuda
Bagheria, luglio 1965. La foto mi raffigura, bambino di undici anni, davanti all’arco del “Patatiennu”; così (più o meno) viene chiamato dai bagheresi l’arco della Trinità, per la presenza di un piccolo altare in cui era posta, appunto, la statua del “Padre Eterno”, particolarmente invocata nei periodi di carestia e siccità. L’arco era uno degli accessi alla Villa Palagonia (infatti nello sfondo si intravedono i “pupi” di Palagonia).
Come si vede, la strada era invasa dai palchetti in legno su cui le donne spianavano l’“astrattu”, l’estratto di pomodoro.
Il concentrato di pomodoro era un prodotto fondamentale della tradizione gastronomica estiva in Sicilia e rappresentava uno dei modi con cui anticamente si conservava il pomodoro per gli usi invernali, dato che a quei tempi i prodotti alimentari si trovavano secondo le stagioni dell’anno e non, come ora, sempre e comunque.
Nei paesi siciliani (ma anche in città nei quartieri popolari) fare “l’astrattu” era un rito che coinvolgeva l’intera famiglia. Era normale vedere queste tavole di legno (“maidde”) su cui il pomodoro seccava al sole: bastava un terrazzino (“àstracu”) o anche un balcone (“u finistruni”) su cui esporre le tavole, su cui era spalmata la polpa di pomodoro. L’odore era dapprima aspro e pungente, poi sempre più "mostoso" man mano che il pomodoro si asciugava.
La fatica era tanta.
Anzitutto i pomodori, raccolti al mattino, venivano lavati e lasciati asciugare per una notte. Il pomodoro poi era spremuto e passato in un apposito “passapumaruoru”, costituito da un contenitore abbastanza grande (circa m 1x1 e cm 40 di profondità) con il fondo generalmente di rame, a grattugia. L’operazione di spremitura, poiché necessitava di una certa forza e resistenza, era effettuata da un uomo.
L’impasto era steso dalle donne, con l’aggiunta di 100 grammi di sale per ogni 10 chili di pomodoro spremuto, di mattina presto, sulle “maidde” (rigorosamente pulite e asciutte) in modo che avesse tutta l’intera giornata per asciugare, mescolandolo spesso con le mani.
Il compito principale passava poi al sole, che in Sicilia ha sempre generosamente concesso i suoi caldi e durevoli raggi senza economia.
La sera il concentrato era raccolto e sistemato nello “scanaturi", che era una “maidda” più piccola. Lo si lasciava lì tutta la notte, dentro casa.
L’indomani, se lo si riteneva opportuno perché il concentrato era ancora un po’ molliccio, lo si rimetteva al sole, rigirandolo spesso fino a quando non si riteneva adeguata la sua consistenza. Questa esposizione al sole durava due-tre giorni, finché il pomodoro non si asciugava e diventava concentrato. Infine, quando il colore diventava purpureo, si toglieva l’estratto dal sole (con le mani unte d’olio) e lo si lasciava dentro, sempre sopra lo “scanaturi”, per qualche altro giorno; infine lo si “imbottigliava” in "burnìe", barattoloni di terracotta, ricoprendolo con pampini di vite; lo si lasciava poi al buio di una stanza fresca (o presunta tale) per un paio di giorni.
Era dunque un lavoro lungo (circa un mese) che richiedeva molta pazienza; spesso - malgrado la velatura - bisognava controllare che mosche e altri insetti guastafeste (allora molto più numerosi in Sicilia) non si posassero sopra il prezioso concentrato.
Nei giorni di preparazione dell’“estratto” vigeva una sorta di tregua “olimpica” nel vicinato: nessuna donna stendeva il bucato o batteva tappeti o “scotolava” tovaglie dalla finestra, per non turbare la lunga gestazione dell’estratto.
L’estratto di pomodoro si usava e si usa ancora per realizzare ottimi sughi: in particolare si utilizza per il ragù all’antica di carni miste, quello che contiene tutti i pezzi possibili del maiale (“u sucu”): polpa, salsicce, polpette, falsomagro, cotenne, costine ecc.; inoltre si mette nella pasta "c’anciova" (con le acciughe) e nelle leggendarie lasagne "cacàte" del primo dell’anno (con la ricotta di sopra… non altro!). Si usa l’estratto anche per cucinare il tonno al sugo (“tunnina ammuttunata”), le polpette di sarde e le lumache grosse (“crastuna” e “attuppateddi”).
MARIO PINTACUDA
P.S.: Ringrazio molto Mimmo Sciortino, che mi ha fornito preziosi dettagli sulle operazioni di realizzazione dell’“astrattu”, correggendo o integrando alcune mie conoscenze.
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