IL DECAMERON DI PASOLINI, STORIA DI UN SOGNO
(CARLO VECCE – CAROCCI EDITORE 2022)
di Simone Bachechi
Non c’era certo bisogno di una ricorrenza così importante come quella del centenario della nascita perché vedesse la luce un nuovo volume su Pier Paolo Pasolini, sul quale del resto la mole bibliografica già è sterminata, sia che ci si occupi di lui a partire dai suoi testi poetici, dalla vocazione civile della sua esperienza umana e artistica (quanto è limitativo usare etichette e categorie quando si parla di un poeta, perché questo Pasolini è stato in tutte le forme nelle quali si è espresso), sia circa i suoi scritti “corsari”, sia relativamente alla sua attività cinematografica, una delle più rilevanti all’interno del percorso del grande intellettuale del nostro Novecento, forse il più grande, dai diversi e inesauribili punti di vista lo si osservi.
Su quest’ultima esperienza, quella di cineasta, e nello specifico su una sua opera che ognuno saprà decidere se definire un capolavoro, che in ogni caso sia per l’ampiezza delle implicazioni, per l’intrinseca poesia e per la sfida narrativa che innesta non può essere ignorata, si sofferma Carlo Vecce nel suo Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno (Carocci editore – 2022 pp. 308 euro 26,00).
Vecce, docente di letteratura italiana all’Università “L’orientale” di Napoli, filologo e studioso della letteratura dell’Umanesimo e del Rinascimento, confessa essersi avvicinato al film del 1971 dell‘intellettuale friulano a seguito di una sua prima visione notturna in televisione all’interno di Fuori Orario (la storica rassegna per cinefili insonni di Raitre), dopo la quale rimase affascinato nel rivedere angoli della sua (di Vecce) Napoli, la città della propria infanzia che gli aveva fatto scoprire il padre.
L’autore è partito dal lungometraggio pasoliniano per studiarne il “Prima”, il “Durante”, il “Dopo” e anche il “Dentro”, come indicano i titoli delle quattro parti principali in cui è diviso il libro. Il volume è uno studio sul “making of” del film, sul processo creativo che ha portato alla nascita del lungometraggio. Negli studi preparativi Pasolini si arma di penne e pennarelli blu e rossi percorrendo tutto il volume boccaccesco riempiendolo di segni di lettura, sottolineature, note, asterischi e punti che costituiranno l’officina della sua opera cinematografica, l’officina di un regista che matura l’idea della realizzazione del “sogno” Decameron durante le riprese di Medea del 1969, l’idea di fare con la parola chiave allegria, appoggiandosi alla tradizione novellistica antica italiana e al romanzo picaresco, “l’affresco di tutto un mondo”. Fino ad oggi l’unica testimonianza della nascita del film erano state nel 1995 le pubblicazioni del soggetto cinematografico, del trattamento, della sceneggiatura e dei copioni di scena, quindi questo libro, frutto di una certosina ricerca pluriennale dell’autore su quaderni, appunti e ogni tipo di documento preparatorio, diventa la storia della nascita di un sogno come suggerisce il titolo, coerentemente a tutta l’opera cinematografica del grande intellettuale, cineasta e poeta, le cui opere possono essere considerate un’unica opera-sogno in movimento, un’opera lunga quanto la sua vita, con la quale Pasolini ha saputo raccontare la nostra storia, la società, e penetrato l’essere umano come solo un poeta sa fare.
Vecce, con l’attenzione del filologo che ricompone i frammenti e la storia di un testo letterario, ricostruisce con il suo volume la storia della nascita di un film si svela nelle sue trasformazioni come un vero e proprio organismo vivente: la struttura del film è stata soggetta più volte a quelli che Vecce definisce dei veri “terremoti”. Oltre al lungometraggio come possiamo vedere oggi esistono altre due diverse versioni scritte, trattamento e sceneggiatura. Inizialmente venne pensato in tre tempi, facendo affidamento nella pur sempre parziale scelta delle novelle boccaccesche, a una struttura ove ancora presente la cornice del poema, cioè alcuni dei novellatori che con le loro storie danno il via alla rappresentazione, originalmente Chichibio, Ciappelletto e il tema di Giotto. Questa “cornice” nella versione definitiva del film scompare e delle varie novelle pensate, e alcune persino girate come quella di Alibech, ne rimangono sette.
Se la cornice sembra essere scomparsa (il ritirarsi di dieci giovani fiorentini dalla peste che infestava la città, quindi i vari racconti dei novellatori, quindi una fuga dalla realtà che è bene espressa nel raccontare e raccontarsi storie, quindi la mimesi letteraria), va detto che in fondo sia nel Decameron boccaccesco che nel film pasoliniano tale fuga è solo camuffata, infatti in entrambi si parla ancora di quella realtà da poco abbandonata, in Boccaccio i costumi dell’epoca irrisi e allo stesso tempo l’irruzione di nuovi paradigmi, in Pasolini il tentativo con la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria del trecento a suo modo rivoluzionaria di ritrovare quella vitalità, genuinità, spontaneità e tentativo del recupero di una comunicazione autentica tra gli esseri umani nel mondo neo capitalistico che Pasolini osserva dopo la “scomparsa delle lucciole”. Osserva puntualmente Vecce: ““Il Decameron sarà un gesto di pietas per un mondo scomparso, o che sta per scomparire per sempre. Per un’Italia che non c’è più e l’amore per il passato è una sfida al potere”, non il potere di ieri, ma quello di oggi”.
A tale scopo la scelta di Pasolini cade su Napoli, tale è l’ambientazione e la trasposizione in tale contesto delle novelle boccaccesche, di conseguenza il riadattamento del parlato delle novelle che trova spazio nel film con tutte le difficoltà dell’adattamento cinematografico di un testo scritto e la complessa architettura del poema boccaccesco. Napoli costituisce per Pasolini l’ultimo baluardo d’espressione popolare, non è ancora stata depredata dalla civiltà dei consumi che se da una parte dà una parvenza di benessere dall’altra livella distruggendo quei caratteri che permettono di distinguere un popolo dall’altro. Allo stesso modo la formazione culturale di Boccaccio avviene a Napoli presso la corte angioina e lo stesso ha vissuto quattordici anni a Napoli. Il dialetto napoletano rappresenta per Pasolini il legame ancora vivo con la lingua e le tradizioni, le uniche a suo parere ancora incorrotte e portatrici di quelle istanze popolari, autentiche e vitali che il trionfo del capitalismo e della mercificazione su ogni aspetto della vita sociale e culturale ha distrutto definitivamente. Il dialetto diventa uno strumento di recupero di quelle tradizioni e di quella vitalità, l’esperienza casarsese delle poesie giovanili esprime la stessa necessità. È un dialetto privo in ogni caso di quelli eccessi e barocchismi tali da alimentare le spinte disgregative di un popolo e la sua auto-emarginazione, ma un dialetto prosciugato, comprensibile, quello che troviamo nelle commedie di Eduardo De Filippo, non a caso diversi interpreti del film sono scelti tra la compagnia del drammaturgo napoletano con il quale Pasolini entra in contatto, in ossequio a quello stile “mediano” mutuato da Pasolini dalla lezione approfondita del grande filologo tedesco Auerbach, testimonianza che in Pasolini che si concretizzerà nella ricerca di un equilibrio tra il cinema di prosa e il cinema di poesia, una via mezzana tra comico e tragico, tra basso e sublime.
La scelta di fare un film su un opera così vitale, dissacratoria, scanzonata, in un modo così aperto, gioioso, nonché poetico, tale è la griglia delle novelle boccaccesche come quelle selezionate per il film che vanno dal grottesco al comico all’erotico, esprime il bisogno di Pasolini, giunto agli anni Settanta, dopo i suoi esordi poetici prima e di romanziere poi che sembra aver perso fiducia nella forza della parola letteraria, di andare a indagare nuovi linguaggi anche all’interno di quelli cinematografici verso i quali ha virato l’ultima parte della sua parabola artistica. Sua è la teorizzazione del “cinema di poesia” e la congiunzione tra ideale umanistico e popolare che proprio nella trasposizione sullo schermo delle novelle boccaccesche trova una delle massime espressioni: da una parte la tradizione letteraria, la cultura, lo stile; dall’altra il mondo preistorico e quasi animalesco degli umili e la consapevolezza acquisita dall’autore che le lingue audiovisive siano traduzioni per riproduzione, il privilegio del linguaggio cinematografico che deriva dall’idea “che la realtà non sia, infine che del cinema in natura”. Se i precedenti Edipo Re e Medea, con i quali Pasolini nella mimesi del mito ha provato a spiegare la contemporaneità, ora la scelta del Decameron testimonia un’apertura comunicativa e di linguaggio della sua opera, senza banalizzarla come semplice prodotto di consumo (come i detrattori del film hanno voluto sottolineare). Lo scopo di Pasolini è quello di rendere fruibile al maggior numero di persone possibile la propria opera. Il Decameron è il primo dei film della trilogia della vita che proseguirà come I Racconti di Canterbury (da Chaucer) e Il fiore del mille e una notte. Il film diviene anche un grande successo commerciale, evidentemente le tematiche di attualità a inizio anni Settanta circa la liberazione dei costumi hanno trovato eco nel film. Sulla scia del successo pasoliniano, Il Decameron è tuttora tra i film italiani più visti di sempre (sedicesimo secondo fonte Wikipedia), nascerà un vero e proprio filone o genere che viene definito “decamerotico”, una pletora di film spesso di scarsa qualità che focalizzano l’obiettivo sull’aspetto superficialmente erotico dell’opera boccaccesca e associando addirittura il film di Pasolini a certa commedia all’italiana. Fra questi alcuni titoli entrati nell’immaginario collettivo cinematografico del periodo: Il Boccaccio di Sergio Corbucci, e altri ove il titolo già dice molto circa tali declinazioni: Decameron n. 69 di Joe D’amato, Le calde notti del Decameron di Gian Paolo Callegari, Il Decameron proibito di Carlo Infascelli solo per citarne alcuni. Un totale travisamento dell’opera pasoliniana il cui tema di fondo è il recupero di una comunicazione autentica tra gli esseri umani e nell’ottica del poema boccaccesco ove dieci giovani fuggono la peste abbandonandosi al gusto di narrare e il tentativo di Pasolini, attualizzando lo stesso ai giorni nostri, di rappresentare la vita, la gioia, l’immaginazione, la libertà e l’eros a dispetto di un neocapitalismo e una società sclerotizzata ove persino il corpo è mercificato.
Le varie novelle si dipanano nella scelta filmica definitiva adottata dal regista come lo svolgersi di un sogno, e come in ogni sogno può starci po’ di tutto. Si inizia con Andreuccio, il fidato Ninetto Davoli con la sua malizia beffarda e la sua scanzonata gioia di essere al mondo, imbrogliato due volte ma che finisce con l’impadronirsi di un prezioso rubino, per poi passare alle avventure erotiche di una badessa e delle sue consorelle nel convento (Masetto), Peronella che tradisce il marito nascondendo l’amante in una giara, Ciappelletto (Franco Citti) un uomo spregevole e malvagio che finge il pentimento sul letto di morte, o Lisabetta nella cui novella a una ragazza succube dei fratelli viene ucciso l’amato dagli stessi, per poi questo apparirle in sogno indicandole dove è sepolto il suo cadavere. La chiusura del film è affidata allo stesso Pasolini interprete in scena del migliore allievo di Giotto che deve affrescare la chiesa di Santa Chiara a Napoli, il quale dopo aver sognato la Madonna (una ieratica Silvana Mangano, non accreditata) trova la giusta ispirazione per concludere il suo affresco. È questo il terzo tempo del film che è anche l’episodio finale, “un momento solenne, nella sua umiltà artigiana” e in qualche modo la vera cornice del Decameron pasoliniano con quanto di autobiografico in esso contenuto. Giotto e il suo allievo assumono una valenza simbolica, il riflesso dell’artista, del pittore nell’epoca medievale come del cineasta nel nostro tempo. È quel pensare per immagini che contraddistingue l’ultima fase della parabola artistica di Pasolini, del resto tutti i suoi film sono come dei sogni nei quali è sempre presente un rapporto tra arti visuali e la loro poetica. Il Decameron conferma la ricchezza di citazioni pittoriche con riferimenti a opere di Brueghel e Velazquez. La stessa identificazione di Pasolini attore con l’allievo di Giotto dice molto non solo dal punto di vista autobiografico circa l’idea di fondo del film che si esprime al meglio nella frase conclusiva del film del Pasolini-pittore: “Perché realizzare l’opera quando è bello sognarla soltanto”. Fortunatamente per noi il film non è rimasto solo nel regno dei sogni. Aggiunge Vecce: “Per Pasolini Il Decameron non è un momento di evasione, ma un film di poesia, un ritorno a qualcosa che era già presupposto nelle sue opere narrative degli anni Cinquanta”, una vera e propria “opera aperta”: lo è sia a livello strutturale (l’abolizione della cornice narrativa predisposta da Boccaccio), sia perché si pone come primo capitolo di una trilogia (la “Trilogia della vita”, appunto).
Il libro di Vecce, frutto di un certosino e ventennale lavoro di ricerca d’archivio, l’ampia appendice che occupa quasi metà del volume riporta la trascrizione del parlato del film con un ampio corredo di note che testimoniano tutte le modifiche avvenute in corso d’opera, costituisce un grande atto di amore verso un film che fa parte della nostra storia del cinema e verso un grande intellettuale del quale oggi, come sempre e più si sempre si sente la mancanza.
Pezzo ripreso da minima&moralia pubblicato giovedì, 28 Luglio 2022
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