09 luglio 2022

L' OCCIDENTE DA SMONTARE. Una postilla su quanto di recente ha sostenuto CARLO ROVELLI

 


L’Occidente da smontare. Note a margine di un articolo politico di Carlo Rovelli

di Andrea Inglese

.

Mi è stato segnalato dall’amico indiano Antonio Sparzani questo testo di Carlo Rovelli che pare abbia circolato molto in rete. Ad una prima lettura è un testo condivisibile, almeno nella sua affermazione centrale: l’Occidente quando denuncia il non rispetto del diritto internazionale, la violenza indiscriminata della Russia, e l’imperialismo dei suoi dirigenti è ipocrita, in quanto non riconosce che quelli che condanna sono crimini che lui stesso ha commesso in passato più e più volte. Ma forse non è nemmeno la condanna dei crimini in quanto crimini, che espone l’Occidente all’accusa di ipocrisia. Che sia Madre Teresa o Al Capone a condannare un crimine a cui hanno assistito per strada, non cambia la natura dell’atto criminoso di cui sono testimoni. Non è quindi un caso che uno dei più infaticabili critici dell’ipocrisia occidentale – leggi: dei governi statunitensi –, Noam Chomsky non abbia certo esitato a condannare l’invasione russa in Ucraina, senza fornire ad essa attenuanti che ne avrebbero sminuito il carattere criminale. Cito da un’intervista all’autore apparsa il 1 marzo sul sito Truthout e poi circolata in rete anche in versione italiana (qui): “Prima di rispondere alla domanda, dobbiamo stabilire alcuni fatti che sono incontestabili. Il più cruciale è che l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra paragonabile all’invasione statunitense dell’Iraq e all’invasione Hitler-Stalin della Polonia nel settembre 1939, per fare solo due esempi rilevanti. È ragionevole cercare spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.”

Quindi non è forse la condanna dell’invasione russa a costituire un’ipocrisia in sé, ma il fatto di porsi come i campioni mondiali della legalità e della libertà dei popoli. Rovelli scrive: “D’un tratto, l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori, il baluardo della libertà, il protettore dei popoli deboli, il garante della legalità, il guardiano della sacralità della vita umana, l’unica speranza per un mondo di pace e giustizia”. Il problema è che, secondo Rovelli, non ci si limita a condannare la politica della Russia, in quanto chi formula la condanna si attribuisce simultaneamente delle virtù, delle qualità, delle prerogative etiche e politiche. Se chi denuncia il crimine, in effetti, è il governo degli Stati Uniti, esso non può darsi anche il ruolo di poliziotto e giudice, ossia porsi al di sopra dei soggetti collettivi che possono sbagliare e quindi incorrere in condanna. Non ha nessuna storia politica né fisionomia morale per porsi al di sopra degli altri popoli, o semplicemente per attirare l’attenzione su di sé e sulle sue presunte virtù in fatto di politica internazionale. Lo sappiamo tutti molto bene. Almeno, quella componente non piccola delle popolazioni statunitensi e europee che hanno manifestato contro le due guerre in Iraq lo sa bene, perché lo ha tempestivamente detto, scritto e gridato nelle piazze. E qui però, rispetto al testo di Rovelli, incontriamo una prima difficoltà. Chi è l’ipocrita in questa faccenda occidentale? Il problema è che il termine usato nel suo testo di denuncia non ci aiuta granché da questo punto di vista. Rovelli scrive: “l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori…” Ci sarebbe quindi una sorta di unanimità (“tutti insieme”) che tale soggetto esibirebbe nell’autolodarsi. Immagino che quel termine con la maiuscola stia per un soggetto collettivo, come quando gli scolari scrivono: l’Uomo, per intendere la specie umana, che nella sua dispersione spaziale e temporale mantiene comunque le stesse caratteristiche. Bisognerebbe subito capire quali sono però i confini almeno geografici e storici di questo fantomatico soggetto collettivo, che oggi sembra d’un tratto unanime. Ed è poi così unanime? Chi sono insomma quelli che Rovelli indica come i “tutti insieme”. Ci son dentro canadesi, finlandesi, svizzeri, australiani? E da quando esiste questa entità che include una pluralità di popoli? Si tratta dei canadesi, finlandesi, ecc., di questa generazione? Insomma da quando inizia la storia di questo Occidente? E consideriamo pure che nel “coro” occidentale ci siano almeno gli statunitensi, ma quali? Quelli che hanno votato per il presidente che oggi “parla”, e ovviamente fa sentire la sua voce nel coro, o anche quelli che hanno votato per l’uscente Trump? Tutti i cittadini americani all’unisono rivendicano l’immagine della propria nazione, come l’esempio stesso dell’immacolata e democratica politica estera (e interna)? Questo credo non possiamo dirlo neppure degli elettori di Biden. E che dire dei non elettori, di tutti quelli che non hanno votato né l’uno né l’altro candidato. Come si situano gli astensionisti delle odierne democrazie nel “coro”? Penso poi a tutti i lettori statunitensi di Noam Chomsky, che probabilmente condannano oggi la Russia, senza assolvere i crimini commessi dal loro paese nel corso delle guerre contro l’Iraq. Non sono essi stessi occidentali, come tutti quegli europei che hanno, dal secolo scorso, condannato e contestato l’imperialismo statunitense, e spesso gli imperialismi in quanto tali, anche quelli che non venivano esercitati per forza dal paese in cui vivevano? Credo che, per paradossale che sia, i dipartimenti delle università nordamericane ed europee (ammesso che l’Occidente si fermi qui) hanno prodotto una ricchissima letteratura che analizza, documenta e denuncia non solo le malefatte dell’imperialismo statunitense e dei suoi sodali, ma anche l’ipocrisia che lo accompagna come discorso legittimante. Forse allora la categoria di “Occidente” non è davvero utile per parlare di questa guerra, e delle posizioni che certi governi prendono, e che sono diffuse e difese da una cerchia abbastanza ristretta di persone. Rovelli, in effetti, arriva a nominarle tali persone: sono esse a costituire il coro, e a renderlo unanime. Sono semplicemente i giornalisti (Rovelli: il coro ripetuto da “ogni articolo di giornale, ogni commentatore televisivo, ogni editoriale”.) Innanzitutto, leggendo la stampa e guardando la televisione, si scopre che il coro non è così unanime, a tal punto che (in Italia) si è creata, su certi media, una sorta di caccia ai commentatori non allineati, subito definiti come “filo-putiniani”. E poi se il contenitore è ancora l’Occidente, insomma dobbiamo metterci, di ogni paese, la stampa più filogovernativa, ma anche tutta quella indipendente, ed in Europa e negli Stati Uniti esiste ed è viva, per non parlare poi del giornalismo più o meno militante in rete, ecc.

Sorge, allora, il dubbio che la categoria di “Occidente” sia in realtà una delle prelibatezze concettuali proprie della stampa più allineata, che ama le semplificazioni scolastiche e pedagogiche, tipiche dei sostantivi maiuscolati. Forse un modo per criticare e denunciare questa propaganda può cominciare proprio dal decostruire tali fantasmagorie vaghe, in cui ognuno può mettervi (o togliervi) quel che gli aggrada. Una delle poche cose che i miei studi umanistici mi hanno permesso di capire, è che non esistono entità storico-politiche, né culturali, in forma di monoblocco, di sostanza unanime e omogenea, se non nelle forme più grossolane di mistificazione ideologica.

Siamo ancora freschi di terrorismo islamista, attivo e letale sul territorio europeo, e abbiamo dovuto constatare che gli islamisti armati sul suolo francese erano in buona parte di nazionalità francese o belga, così come quelli che sono andati a infoltire in Siria o Iraq le truppe dello Stato Islamico “anti-occidentale”. La verità è che ogni singolo Stato nazionale è attraversato da molteplici conflitti, e che un conflitto fondamentale è quello che oppone governati e governanti, ma anche opinionisti di mass-media e studiosi universitari, anche se una minoranza di questi possono svolgere anche ruoli sulla stampa o in televisione. Non ha molto senso, quindi, prendere a bersaglio quelle rappresentazioni caricaturali, che una certa stampa o tv, e certi esperti da palco, hanno eretto per scopi autocelebrativi. Sicuramente possiamo parlare di “Occidente”, ma a patto di aver sufficientemente definito in modo preventivo a quale realtà ci riferiamo, tentando di evidenziarne i tratti principali su un piano storico-politico o storico-antropologico. Se il soggetto a cui Rovelli si riferisce è rappresentato dalla ristretta popolazione dei giornalisti filogovernativi dei paesi del G7, inclusi gli altri Stati della UE, allora tanto vale che si parli di “stampa occidentale filogovernativa”.

 

Il discorso che faccio non ha come scopo di fare le pulci al testo di Carlo Rovelli, che nel suo intento polemico, e nei suoi presupposti morali, è ben condivisibile. Il problema riguarda il modo in cui ognuno di noi si posizionerà in questa fase storica, sia rispetto al futuro che auspica ma anche rispetto all’eredità che accetterà di salvaguardare e di potenziare. Il declino dell’unilateralismo a guida statunitense apre una fase incerta che, prima di sfociare in un possibile multilateralismo pacifico, rischia di essere risucchiata in un’incontrollabile ciclo di caos e guerre. Questa faccenda non può essere percepita solo come un problema d’ordine geo-politico, in cui tutto si fa o disfa con dosi più o meno ragionevoli di diplomazia o forza bruta. Questa fase annuncia o, sarebbe meglio dire, manifesta già un disorientamento sul piano culturale, delle identità collettive e individuali delle persone. Di fronte a tale “disordine fuori di sé” (nell’economia, nella produzione, nella società, nel rapporto tra le nazioni, ecc.), la peggior cosa che si può fare è quella di affidarsi a uno “pseudo-ordine dentro di sé”, ossia all’edificazione di identità semplici, mistificanti, nel loro apparente e facile splendore. Questo è purtroppo ciò verso cui indirizza la cultura di destra (Furio Jesi insegna). Ma, a sinistra, il semplice rovesciamento degli emblemi non è sufficiente, e soprattutto non fornisce strumenti per il futuro. Esiste un mito dell’Occidente, ma lo si può combattere solo decostruendolo, mostrando che esso nasconde realtà plurali e contraddittorie, ed è dal confronto con questa complessità che si opera la scelta di accogliere e rigettare. Ognuno di noi è sollecitato a fare chiarezza sulla propria identità, e il tirarsi fuori dalla propria storia dicendo semplicemente “non sono occidentale” o sono “anti-occidentale” non ha granché senso. Ne ha invece precisare quello, ad esempio, che io voglio conservare e potenziare dell’eredità che mi è stata trasmessa, come cittadino italiano, che vive in Europa, e che ha assorbito, nel bene e nel male, l’egemonia culturale statunitense. E, similmente, è importante rigettare quegli aspetti della mia cultura e storia italiana, europea e nordamericana che mi hanno condizionato, ma da cui mi voglio emancipare, in quanto non voglio riconoscermi (più) in essi. E questo fenomeno si accompagna con la curiosità anche per ciò che viene da altri paesi, popoli e culture, sapendo che tutto ciò passa, però, attraverso una pluralità di mediazioni (traduttori, giornalisti e studiosi, scrittori e artisti, censura politica, ecc.).

Questo discorso ovviamente non riguarda solo “noi” (cittadini del G7 o della UE), ma anche i cittadini russi, quelli cinesi, quelli africani, molti dei quali – con scandalo dei nostri opinionisti – vedono in Putin un baluardo contro l’arroganza dei vecchi e nuovi colonialisti “occidentali”. E parlando dei cittadini russi, che cosa vogliono conservare essi della loro storia? La potenza dell’antico impero zarista, nel colonizzare le popolazioni interne o prossime ai suoi confini? La macchina burocratica poliziesca e repressiva, che il partito bolscevico cominciò a mettere in piedi negli anni Venti e che Stalin portò a un grado estremo di efficacia? Oppure si rivolgeranno alla straordinaria e brevissima esperienza della democrazia consiliare (“tutto il potere ai Soviet”)? O ancora a quella forma d’internazionalismo, che malgrado tutto l’Unione Sovietica manteneva in piedi, per contrastare nel mondo l’egemonia militare ed economica statunitense?

Infine, una notazione puntuale. Carlo Rovelli, ad un tratto, scrive: “Eppure i nostri giornalisti surrealisti riescono ribaltare la realtà fino a parlare della logica imperiale di Russia e Cina!” Ora non voglio toccare qui la questione cinese, sia per limiti di conoscenza sia per la sua complessità. Ma qualcosa si può dire sull’imperialismo russo. Innanzitutto, prima che gli Stati Uniti sognassero di divenire l’incontrastata potenza del mondo (sogno che dura soltanto da un trentennio, ed è vieppiù tormentato), essi dovettero dividersi il podio con l’altra superpotenza del pianeta, ossia l’ex Unione Sovietica. Quest’ultima, poi, presa come entità transpolitica, ossia al di là delle specifiche caratteristiche dei suoi regimi politici, ha una storia d’imperialismo ben più antica di quella statunitense, storia che alcuni storici fanno risalire al XIII secolo. Ovviamente vi sono imperialismi e imperialismi, quello del Granducato di Mosca non è del tutto simile a quello che Trockij denunciava nella politica staliniana fin dagli anni Venti. E non sorprende il fatto che sia proprio uno dei più importanti e dei primi storici marxisti, Mikhail Pokrovski, ad occuparsi del passato imperialista della propria nazione, nel momento stesso in cui essa sembrava rigettare questo passato. Ironia amara della storia, Pokrovski morì precocemente all’inizio degli anni Trenta, dopo essere però caduto in disgrazia presso Stalin, che considerò il suo lavoro come “anti-marxista”. Quanto all’imperialismo specifico dell’Unione Sovietica, esso fu denunciato molto presto dagli stessi rivoluzionari (e non solo da Trockij), che ovviamente furono marginalizzati o perseguitati dal potere staliniano. Una piccola rassegna di fonti sugli studi dell’imperialismo russo, della sua specificità (un imperialismo “interno”) e delle sue metamorfosi storiche la si può trovare in un articolo apparso per Le monde diplomatique, nell’edizione polacca, e oggi disponibile in rete sul blog del sito Mediapart: Impérialisme russe | Le Club (mediapart.fr).


Nessun commento:

Posta un commento