di Davide Orecchio
Sono usciti da poche settimane, e contemporaneamente, due libri di Goffredo Fofi. Il primo, pubblicato da E/O, è Cari agli dei. Il secondo, per minimum fax, è Son nato scemo e morirò cretino. Scritti 1956-2021, una raccolta di testi già editi curata da Emiliano Morreale. Andrebbero letti uno di seguito all’altro, magari cominciando con Cari agli dei. Io ho fatto così e mentre leggevo riconoscevo un dialogo, come se i libri fossero due persone – o una persona sdoppiata – che si raccontavano una storia (piccolo appunto a editori e curatori: gli indici dei nomi sarebbero stati utilissimi, peccato).
Che storia è? Una storia importante. Così come l’autore che l’ha vissuta e la racconta. Un’altra storia – intellettuale, politica, militante – del secondo Novecento italiano fino ai nostri giorni, e che riguarda, in una condivisa matrice “eretica”, persone, comunità, idee, riviste della sinistra italiana. Una sinistra minoritaria. Fuori dalle grandi chiese politiche che hanno dominato quel secolo. Mai bolscevizzata, né autoritaria né ubbidiente, non gerarchizzata. Spesso, se non sempre, sconfitta. Ma talmente vitale da parlarci ancora con argomenti e percorsi biografici esemplari, che non sono forse esauriti, a differenza di tanto materiale di quel secolo che risulta ormai inutile, se non tossico, per noi.
Goffredo Fofi (1937) è di quella storia un protagonista. Come ha spiegato efficacemente Massimo Onofri su Avvenire, il lungo percorso di questo intellettuale, prima educatore, poi tessitore seminale di gruppi, e critico letterario e cinematografico, si può sintetizzare in una scelta di vita comunitaria (francescana) dove il socialismo guarda all’anarchia e qualsivoglia proprietà è rifiutata con coerenza.
Protagonista, senz’altro. Ma, invece di mettersi al centro, in Cari agli dei Fofi fa un passo di lato e sceglie di raccontare i compagni di strada, le amiche e gli amici senza i quali la vita non avrebbe senso. Compone così un’autobiografia attraverso le vite degli altri. Le tante vite incontrate nel suo instancabile viaggiare e conoscere. Questo è certamente un aspetto di Cari agli dei, libro che potrebbe sembrare molto triste ma forse non lo è.
Perché triste? Perché Cari agli dei è un libro di lutti, una raccolta di ritratti di persone morte troppo presto, “prematuramente”. Morti che si sono consumate, spiega Fofi nell’introduzione, nel quadro della “sconfitta storica del socialismo”. Citando Aldo Capitini e rendendogli omaggio, Fofi parla di “compresenza dei morti e dei viventi” nelle nostre vite. E spiega: “i morti sono presenti, sono tra noi, e dovremmo tenerne ben conto noi vivi, angosciati dal dover muoverci dentro un presente preoccupante e avvilente”. Perché – prosegue Fofi – “non tutto è stato inutile nel mondo che abbiamo conosciuto, negli anni che abbiamo vissuto, in quel poco che siamo riusciti a fare dalla parte del giusto e del vero (…) e qualche risultato abbiamo ottenuto anche se fragile e di breve durata”.
Cari agli dei è una foto di gruppo di persone che continuano a vivere in Fofi. E forse – questo l’auspicio dell’autore – potrebbero vivere anche in altri. È quindi un repertorio di exempla e parla a chi viene dopo, ai viventi, e a chi tra di loro vorrà trarre ispirazione da queste vite di intellettuali militanti, educatori, psicologi, scrittrici, poeti, sindacalisti, sacerdoti… spesso operatori delle istituzioni vocati a cambiarle, le istituzioni, profondamente, radicalmente e da dentro. Figli e figlie di un’epoca “in movimento” e non individualista, e che credeva nelle trasformazioni collettive.
La raccolta ospita 26 ritratti più una nota autobiografica sull’Umbria natale del 1944. Preziose per me le pagine su Alexander Langer o Grazia Cherchi, su Marco Lombardo Radice o Maurizio Flores D’Arcais. E quelle dedicate all’unico caro agli dei che io abbia avuto la fortuna di conoscere, Alessandro Leogrande. Pagine piene di amore e rimpianto per un giovane e insostituibile compagno e collaboratore di Fofi: “perdendo Alessandro abbiamo perso una guida, ed è stato ben difficile, purtroppo, trovarne altre della sua statura nella generazione venuta dopo la sua, soprattutto nel campo dell’analisi politica, del giudizio politico, dell’intervento politico”.
La storia raccontata in questi due libri non è solo di individui ma di gruppi e di riviste, di viaggi e di luoghi (la Sicilia “battesimale” di Danilo Dolci, Torino e Milano, Napoli, Roma), infine di decadi, con in mezzo una data spartiacque per Fofi, quel 1978 dopo il quale si chiude una stagione di militanza collettiva e tutto cambia. Ed è davvero un dialogo. Ad esempio i ritratti di Raniero Panzieri, Dario Lanzardo e Vittorio Rieser – tra gli animatori del gruppo torinese frequentato da Fofi soprattutto negli anni ’60, gli anni dei Quaderni rossi – sarebbero meno comprensibili se non si potessero leggere, in Son nato scemo e morirò cretino, le pagine su “La città del monopolio” (1963), estratte da quell’inchiesta sull’immigrazione meridionale a Torino che Fofi pubblicò per Feltrinelli (ma doveva uscire per Einaudi!) collaborando strettamente con Panzieri.
L’antologia curata con intelligenza da Morreale per minimum fax ha poi, forse, un pregio in più, una utilità (Fofi parla spesso del dovere di scrivere libri che siano utili) che emerge non solo dalla sua natura di rendiconto documentale di un lungo percorso nel secondo Novecento italiano, ma anche dalla scansione cronologica, appunto, che offre al lettore un quadro nitido, storico, delle epoche e delle situazioni nelle quali sono nati i testi di Fofi.
Son nato scemo e morirò cretino è libro denso, un tesoro pieno di articoli e tracce (critica letteraria, cinema, società, storia, politica, Nord e industrializzazione, Sud e povertà). Mi limito a segnalare, con ingiusta parzialità: “Frammenti di diario” (1960), “Lettera a Lotta continua sulla violenza” (1978), “Sognare all’indietro” (1981, con pagine illuminanti su Walter Veltroni e un certo “stile da prima liceo”), “Storie di treno” (1989), “Promemoria per una rivista” (1990, chiunque voglia fare una rivista lo dovrebbe leggere), “La fine del comunismo” (1991). E poi le pagine di critica cinematografica, dove Fofi dà il meglio di sé e Morreale lo sa bene; tra queste: “Orson Welles” (1963), “La commedia del miracolo” (1964), “Per una veridica filmografia del verace Totò” (1967), “Il cinema italiano: servi e padroni” (1971), “Cimino, cacciatore senza preda” (1979), “Introduzione al cinema di Ciprì e Maresco” (1999).
Buona lettura.
Articolo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2022/07/05/due-libri-e-una-lezione-di-vita-di-goffredo-fofi/
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