È da poco stata pubblicata un’antologia di poesie di Diego Valeri, Il mio nome sul vento. Poesie 1908-1976, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2022, a cura dello studioso Carlo Londero. Pubblichiamo un estratto della prefazione e una scelta di testi.
Diego Valeri, un poeta italiano del 900 disperso, come tanti altri, dal vento
Sull’allestimento e la pubblicazione oggi di un’antologia di poesie di Diego Valeri gravano alcune ipoteche. La prima riguarda quella congerie di interpretazioni critiche sulla sua poesia. La seconda ha a che vedere con le scelte editoriali così pesanti quando si tratta di poesia. Dopo il 1977, anno successivo alla morte del poeta in cui vengono pubblicati Poesie scelte (1910-1975) e Poesie inedite o «come»,[1] i libri di Valeri escono rapidamente dai progetti editoriali e dagli scaffali delle librerie, venendo relegati ai cataloghi del modernariato. Per quarantacinque lunghi anni non si è contata alcuna ristampa, riedizione o antologia delle sue poesie fino a oggi.[2] La poesia di Valeri, un poeta non certo di secondo piano, è divenuta quasi sconosciuta nel torno di un paio di generazioni di lettori.
Non è affatto una casualità se i nomi di Saba e di Giudici (per citare quelli di un primo e di un secondo Novecento) si stringono in un unico discorso attorno a Valeri. Vanno ricordate le parole di Luigi Baldacci, per il quale ci sarebbero «due versanti della tradizione [poetica] novecentesca».[3] Il primo versante è quello di un Novecento poetico «inteso», con le parole di Giovanni Raboni, «come tensione verso i valori esclusivi e assoluti della pronuncia» poetica, percepito «come la linea dominante della cultura poetica italiana dell’anteguerra»;[4] e quindi un versante preponderante nel gusto e nella ricerca letterari, accentratore di risvolti critici e dunque in posizione di assoluta dominanza nella storiografia letteraria, fagocitatore o meglio emarginatore delle esperienze poetiche altre-da-sé che non si inseriscono o non trovano spazio all’interno del proprio corso. Il secondo è quello di un «anti-Novecento» che a lungo «una storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi», ma che «ha una sua tradizione: c’è quello remoto, protonovecentesco, di Palazzeschi, del primo Govoni, e quello, più avanzato nel tempo, di Saba, di Valeri, di Penna» e, in parte, di Betocchi.[5]
Spesso Valeri è detto muoversi «indiscutibilmente» lungo la «linea Petrarca-Leopardi-simbolismo francese-Pascoli e crepuscolarismo».[6] Secondo la vulgata critica, egli sarebbe un simbolista imprestato ai crepuscolari o un crepuscolare saldamente legato al simbolismo. Si faccia un raffronto bibliografico con i crepuscolari:[7] Monodia d’amore di Valeri è del 1908 e forse un po’ in ritardo,[8] se l’anno successivo, il 20 febbraio 1909, Marinetti pubblica il manifesto del futurismo su «Le Figaro». D’altronde è inevitabile – lo assicura la biografia del poeta nato nel 1887 – che Valeri si sia formato in un ambiente che guardava alla poesia francese della seconda metà dell’Ottocento e al contempo si avviasse al crepuscolarismo. Scrive Pier Vincenzo Mengaldo:
Nato più di un decennio prima dello scoccare del secolo ventesimo Valeri, non diversamente dal suo coetaneo Saba,[9] ha continuato sempre ad usare con naturalezza tutta una serie di aulicismi e poetismi, tra l’altro consoni al tradizionalismo delle scelte metriche, probabilmente convinto sottopelle, un po’ appunto come Saba, che quelli fossero l’insegna della lirica in quanto tale (perché poi la prosa di Valeri, come la sabiana, è del tutto ‘normale’).[10]
Che l’ambito poetico nel quale Valeri muoveva i primi passi fosse quello simbolista e crepuscolare non è errato, ma va contestualizzato nell’ambiente culturale dei primi lustri del Novecento. È quanto sostiene Mengaldo, quando afferma che Valeri «è sempre rimasto legato, quasi da epigono, a una formazione che sta fra i simbolisti francesi (in primo luogo Verlaine), crepuscolari, D’Annunzio (correggendo il modello paradisiaco con l’alcionico e viceversa) e specialmente Pascoli».[11] Tale assunto è ribadito pure da Andrea Zanzotto, per il quale la poesia del suo maestro è «nata da un’esperienza post-simbolistica» e adiacente «a quella crepuscolare (anzi coetanea, nelle sue origini)».[12] Mengaldo è tuttavia consapevole della specificità valeriana e si associa al discorso di Baldacci: «per una critica deferente a una visione “modernistica” a senso unico del Novecento poetico, era difficile dar conto di una lirica della grazia melica e della – reale o apparente – semplicità com’è questa, aliena dalle corrosioni intellettualistiche e dalla poesia al quadrato».[13]
Valeri ha attraversato il Novecento poetico, all’incirca una sessantina d’anni, con un’integrità, una fermezza stilistica, una “monodia” sue proprie – e ciò non significa che in Valeri non ci siano stati scatti, scarti, evoluzioni, progressioni –, caratteristiche che lo ascrivono a quell’altro Novecento di cui ho già riferito. Valeri si assesta e trova la sua cifra stilistica all’interno del secolo a partire dal magistero di auctores quali Verlaine, Rimbaud, Guérin[14] per i francesi;[15] da quello di Leopardi[16] e di Pascoli per gli italiani, filtrati da una concezione della poesia a momenti strettamente aderente all’estetica di Benedetto Croce.[17]Quello di Valeri, per Roberto Galaverni, «è un progetto e un’ipotesi di letteratura ben precisa; una poetica», perché egli «sceglie di essere un poeta di una certa natura».[18] Ciò «è soprattutto una risposta alle sollecitazioni del tempo, coi piedi ben addentro al Novecento. Il valore oppositivo, lo scandalo della continuità non è inferiore a quello delle pratiche poetiche più eversive».[19] Galaverni si riallaccia all’affermazione di Mengaldo sui «poeti “conservatori” come Valeri o Solmi» che è utile far nostra: «in una situazione storico-sociale come quella» del Novecento, «proprio i poeti più cauti di fronte all’innovazione programmata» sono «quelli che meglio preservano la funzione contestativa o semplicemente difensiva della poesia, sottraendola alla mercificazione e consumo in serie del “nuovo” di cui restano invece vittime le avanguardie organizzate».[20]
Antologia di poesie
Batte il mattino…
Batte il mattino al ferrigno bastione
dei nuvoloni notturni: repente
s’apre una lunga fessura lucente,
scoppia uno squarcio di fiamma più su.
Un razzo d’oro; e un sussulto, un tremore
d’oro per l’ombre; oro a rivoli, a onde…
Più in alto: spiagge di nuvole bionde,
calme e profonde lagune di blu.
Riva di pena, canale d’oblio…
Ora è la grande ombra d’autunno:
la fredda sera improvvisa calata
da tutto il cielo fumido oscuro
su l’acqua spenta, la pietra malata.
Ora è l’angoscia dei lumi radi,
gialli, sperduti per il nebbione,
l’uno dall’altro staccati, lontani,
chiuso ciascuno nel proprio alone.
Riva di pena, canale d’oblio…
Non una voce dentro il cuor morto.
Solo quegli urli straziati d’addio
dei bastimenti che lasciano il porto.
I nuovi giorni
Oh l’alberello della primavera,
biancopiumato, dolcesplendente,
anche una volta mi prende il cuore,
come ogni volta al ritornar dell’anno.
Quale speranza nuova? quale attesa?
Che porteranno i nuovi giorni?
Nulla. Ma intanto è apparso il grande uccello
bianco, improvviso, in mezzo al campo nero.
Venezia
La pietra alzata su l’acqua
lambita corrosa dall’acqua.
Nel silenzio della pietra e dell’acqua
il fruscio della luce a fior dell’ombra.
Tempo che lontanissimo canta
da un cielo di pietra e d’acqua di silenzio.
Tempo come un cuore che in profondo batta,
scandendo solo un nome, un nome che canta.
Qui c’è sempre un poco di vento…
Qui c’è sempre un poco di vento,
a tutte l’ore, di ogni stagione:
un soffio almeno, un respiro.
Qui da tanti anni sto io, ci vivo.
E giorno dopo giorno scrivo
il mio nome sul vento.
Il merlo che tutto il giorno ha saltato…
Il merlo che tutto il giorno ha saltato
tra l’erba alta e a pie’ dell’irta siepe,
ora che scende la sera
è volato sul ramo alto del pero.
Di lassù guarda il mondo che si oscura,
e fischietta sommesso
come parlasse a se stesso.
Certo è salito su l’albero
per prendersi l’ultimo sole.
Ma sole non c’è già più, né giorno.
Il merlo si rituffa nell’erba:
piccola ombra nera nell’ombra verde.
Quando le acque non correranno più…
Quando le acque non correranno più,
né dalla montagna soffierà più il vento,
né la terra coverà in segreto i suoi semi,
né il fuoco salirà agli spazi di là dal cielo
allora sarà il novissimo giorno della morte vera.
Prima che giunga quel novissimo giorno,
credi, ogni morte sarà solo parvenza,
così com’è parvenza ogni vita.
Note
[1] D. Valeri, Poesie scelte (1910-1975), a cura di C. della Corte, Mondadori, Milano, 1977; Id., Poesie inedite o «come», San Marco dei Giustiniani, Genova, [1977].
[2] Fanno eccezione, naturalmente, l’edizione critica di Id., Umana, a cura di M. Giancotti, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2008, e la monografia di M. Giancotti, Diego Valeri, Il Poligrafo, Padova, 2013.
[3] L. Baldacci, Introduzione, in C. Betocchi, Tutte le poesie, introduzione di L. Baldacci, note ai testi di L. Stefani, Mondadori, Milano, 1984, pp. 9-30, a p. 24.
[4] G. Raboni, Antefatto – Frammenti, in Id., La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano. 1959-2004, a cura di A. Cortellessa, Garzanti, Milano, 2005, pp. 183-186, a p. 183.
[5] L. Baldacci, Introduzione, in C. Betocchi, Tutte le poesie, cit., p. 25.
[6] V. Zambon, La poesia di Diego Valeri, prefazione di P. Nardi, Liviana, Padova, 1968, p. 56.
[7] C. Govoni, Le fiale, Lumachi, Firenze, 1903, e Id. Armonia in grigio et in silenzio, Lumachi, Firenze, 1903; S. Corazzini, Dolcezze, Tipografia Cooperativa Operaia Romana, Roma, 1904; A. Palazzeschi, I cavalli bianchi, Spinelli, Firenze, 1905; M. Moretti, Fraternità, Sandron, Milano-Palermo-Napoli, 1905; G. Gozzano, La via del rifugio, Streglio, Torino, 1907.
[8] Si ricordi che l’esordio poetico di Valeri con Mondia d’amore (Società cooperativa Tipografica, Padova) del 1908, successivamente disconosciuto dall’autore, viene parzialmente assorbito in Le gaie tristezze (Remo Sandron, Milano-Palermo-Napoli) pubblicato nel 1913.
[9] Saba, nato a Trieste nel 1883, è solo di quattro anni più vecchio di D.V., nato a Piove di Sacco nel 1887. Saba morirà a Gorizia nel 1957 a settantaquattro anni, mentre D.V. a Roma nel 1976 a ottantanove anni.
[10] P.V. Mengaldo, Diego Valeri traduttore di lirici francesi e tedeschi, in Diego Valeri e il Novecento, Atti del Convegno di Studi nel 30° anniversario della morte del poeta, Piove di Sacco, 25-26 novembre 2006, a cura di G. Manghetti, presentazione di P.V. Mengaldo, Esedra, Padova, 2007, pp. 87-94, a p. 92.
[11] P.V. Mengaldo, cappello introduttivo a Diego Valeri, in Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano, 1990, pp. 353-356, a p. 354 (mio il corsivo).
[12] A. Zanzotto, Nella “Calle del Vento”, in Id., Fantasie di avvicinamento, Mondadori, Milano, 1991, pp. 53-55, a p. 54 (miei i corsivi).
[13] P.V. Mengaldo, cappello introduttivo a Diego Valeri, in Poeti italiani del Novecento, cit., p. 354.
[14] Il nome di Maurice de Guérin meriterebbe un discorso a parte. C’è una genuina consonanza tra Valeri e Guérin. La chiave d’accesso a questa profonda corrispondenza è nel saggio Rileggendo Maurice de Guérin, in D. Valeri, Saggi e note di letteratura francese moderna, Sansoni, Firenze, 1941, pp. 9-45, da cui cito alcuni brani dalle prime pagine (pp. 9-11; il saggio andrebbe letto integralmente, tenendo a mente che questo è il Guérin di Valeri): «Passano per il cielo improvvisamente impallidito i primi presentimenti dell’autunno: grandi nuvole bianche, soavemente ombrate di grigiazzurro, che s’incontrano, s’ammassano, si sfioccano, si riaddensano – e vanno via senza posa […]. | In quest’ora di transiti e di addii misteriosi, tra questo visibile e udibile fluire di tutte le dolci cose vive alla morte, mi vien fatto di pensare, chissà perché a Maurice de Guérin, mio (fino a oggi che ne scrivo) segreto amore […]. | Ma il grande amore di Guérin non fu l’autunno; fu la primavera […]. Tra le fosche brume perpetue egli spia l’apparire d’un lampo azzurro; sui duri rami smania di scorgere tenere gemme annunziatrici […]. Si sente talora sopraffatto dalla sofferenza della sua solitudine morale; ma ha fede nella primavera: “Je crois que le printemps me fera grand bien”».
[15] In merito si leggano M. Richter, Valeri francesista [su Verlaine e Rimbaud], in Omaggio a Diego Valeri, a cura di U. Fasolo, Olschki, Firenze, 1979, pp. 119-128, e Id., Valeri e Rimbaud, in Una precisa forma. Studi e testimonianze per Diego Valeri, Atti del Convegno internazionale “Diego Valeri nel centenario della nascita”, Padova, 26 e 27 marzo 1987, Programma, Padova, 1991, pp. 53-61.
[16] Cfr. C. Galimberti, Su Valeri lettore di Leopardi, in Una precisa forma, cit., pp. 63-69.
[17] Cfr. P.V. Mengaldo, Presentazione, in Diego Valeri e il Novecento, cit., pp. 9-13, a p. 11: «avendogli una volta comunicato che mi laureavo con una tesi sulla lingua del Boiardo lirico, [Valeri] corresse subito crocianamente, vale a dire in breve mettendo fra parentesi la storicità della lingua anche poetica: “cioè sulla poesia del Boiardo”».
[18] R. Galaverni, Diego Valeri e la poesia del Novecento, in Diego Valeri e il Novecento, cit., pp. 15-43, p. 33.
[19] Ibidem.
[20] P.V. Mengaldo, Introduzione, in Id., Poeti italiani del Novecento, cit., pp. xi-lxxvii, a p. lxxvi.
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