08 giugno 2020

IL RITORNO DEL RAZZISMO NEGLI USA











Il privilegio della pelle bianca
di Sara Marinelli, San Francisco  8 Giugno 2020 

Non sono americana. Ma vivo negli Stati Uniti da 13 anni, e quando vivi in America da tanti anni, non puoi ignorare, malgrado il tuo rifiuto e la tua indignazione, che la tua pelle bianca è la linea di demarcazione del tuo privilegio.
Ecco, l’ho convocata subito la parola innominabile, la parola campo di battaglia e terreno di controversia, soprattutto per chi nella vita non ha mai creduto di essere privilegiato. Sto parlando del white privilege, il privilegio bianco.
Sono certa che quasi nessun immigrato o espatriato italiano negli Stati Uniti si considera un privilegiato. La storia è lunga, e anche la memoria. L’emigrante italiano a cavallo tra fine ‘800 e metà ‘900, vittima di discriminazione razzista quando veniva confinato nel ghetto e scartato sul posto di lavoro (“Italians Do Not Apply”, “Italians Not Wanted” era scritto su muri e giornali) conosceva tutto dell’umiliazione di non essere considerato bianco—e di quanto fosse caro il biglietto d’ingresso nella whiteness.[1]* E venendo agli anni recenti, anche quando l’immigrato italiano è un cervello in fuga, mette in conto che spesso dovrà ricominciare da zero, e che a suo modo parte da una condizione di svantaggio.
Molte volte mi sono chiesta il significato profondo di questa espressione, “privilegio bianco”, e quanto mi riguardasse. Nella società americana è uno di quei termini che urta, spesso irrita, quasi sempre ferisce come un’accusa o una colpa dalla quale si sente la necessità di assolversi. E alla quale si può facilmente controbattere con un’argomentazione difensiva: “Ma io non ho alcun privilegio, e non lo esercito.” Così come si controbatte allo slogan Black Lives Matter (Le vite nere contano) sostenendo: “Tutte le vite contano.” Oppure ancora: “Sì alle manifestazioni pacifiche, ma niente rabbia e sommosse, altrimenti vi imponiamo il coprifuoco” (in America l’ordine di coprifuoco non si imponeva dal 1943).
Dunque, li ho elencati in fila alcuni dei termini e concetti scomodi che infuriano in America. Quelli che ti chiedono di esprimere un’opinione, quelli ti invitano a uno schieramento che, come dimostrano le numerose manifestazioni di massa di questi giorni, non può più essere rinviato. Il silenzio, come si legge su molti murales dipinti sulle tavole di legno che bardano i negozi delle strade americane, è complicità. Il silenzio è violenza.

Ho cominciato affermando che non sono americana. Di proposito. Quest’affermazione di identità per negazione —  assieme alla mia storia — è stata per lungo tempo la mia “assoluzione.” Per lungo tempo ho rivendicato dentro di me la mia dissociazione ed esclusione dal privilegio bianco ragionando con me stessa che io qui non ci sono né nata né cresciuta; che non ero qui durante il compimento di questa storia di oppressione e razzismo; che in quanto immigrata sono ancora per certi aspetti un’outsider che, appunto, ha dovuto ricominciare da zero; che il mio luogo di origine — Napoli — oggetto di razzismo italiano e ineguaglianze, non mi farà mai schierare col privilegio, anzi lo aborrisce; che la mia appartenenza al sud del mondo mi avvicina sempre verso le minoranze; che la mia identità di donna è sempre in guerra contro la sopraffazione; che tutto ciò che ho creato per me, la mia educazione e anche il mio femminismo, emergono precisamente dalla necessità di riscatto.
Ma a un certo punto della tua vita qui, se hai attenzione e cura per dove vivi, capisci che si tratta di un altro ordine di discorso, e che se ti è difficile identificare il colore bianco della tua pelle, con il quale sei nata, come privilegio è proprio perché non dovrebbe esserlo. Ti sta infatti chiedendo di scrutarne l’assurdità.
A un certo punto, non potrai più ignorare che chi non ha la pelle bianca non ha la stessa garanzia di immunità e libertà nelle medesime circostanze; piuttosto, le giudicherà umilianti, pericolose o frustranti quando a te saranno sembrate neutre. E se non osservi, capisci e sondi questa ingiusta differenza, non potrai mai denunciarla, soprattutto davanti a chi nella sua daltonìa, o cecità, dichiara che nero equivale a bianco, che il colore non conta.


Poter affermare che il colore non conta è un altro aspetto del privilegio bianco. Il privilegio di non avere fra i molti stress e fardelli della vita quotidiana quello ulteriore ed estenuante della razza: un peso posto sulle spalle di uomini e donne nere dalla storia bianca, e che ancora schiaccia nel presente. È il privilegio di chi non subisce le micro-aggressioni del quotidiano, di chi possiede la libertà di non pensare che se ha il cappuccio della felpa alzato sulla testa è un teppista; che se entra in un negozio sarà sospettato di furto; che se guida l’auto di sera sta sbrigando un affare losco; che se sta con gli amici a fumare in un parcheggio (qui non ci sono le piazze) sta spacciando o complottando una rapina; che se è eloquente e istruito è un’eccezione; che se è alto e di corporatura abbondante incute timore; che quando esce di casa la mattina non sa se ci tornerà la sera; che in ogni ora del giorno potrebbe essere fermato, incriminato, ammanettato perché corrisponde al profilo di un altro uomo con cui condivide l’unico elemento di essere nero; che se cerca di difendersi dichiarando che non è lui, può essere insultato, malmenato, soffocato a morte da chi abusa del proprio potere in nome della legge—che non è uguale per tutti.
A questo si aggiunge che tutto quanto elencato di sopra, e altro ancora, non gli riguarda; non è un suo problema.
Ma c’è una cartina al tornasole efficace, un semplice test che ciascuno può fare con se stesso per comprendere istantaneamente il privilegio bianco. È quasi banale come fare uno di quei test che girano sui social, quali “Come saresti da donna? Da uomo?” “Come sarà tuo figlio?” “Come sarai da vecchio?”
Basta soltanto spingere la fantasia oltre e porsi domande scomode che risulterebbero scorrette e offensive in uno dei suddetti test: “Come sarebbe la tua vita se tu non fossi bianco?” “Come sarebbe la vita di tuo figlio/figlia se non fosse bianco/a?” “Come sarebbe stata la vita dei tuoi genitori e dei tuoi antenati se fossero neri in America?”
Domande che scrivo con estremo rispetto per le identità nere, e con la consapevolezza della loro black joy, beauty e pride — la gioia, la bellezza e l’orgoglio di esserlo.
Ma domande che persino molti attivisti neri stanno ponendo apertamente in questi giorni, riconoscendo con amarezza e indignazione che questa domanda tanto semplice, quanto controversa e potente, può essere una chiave di accesso alla coscienza bianca, e alla sua indifferenza. Un risveglio dal suo torpore.

Me le sono poste anch’io un po’ di anni fa, e solo quando ho cominciato a rispondermi con onestà ho superato il mio risentimento nell’accettare che non sono immune dal privilegio bianco; e che non riconoscerlo e capirlo fino in fondo era un ostacolo alla mia vita qui, al rapporto con la mia comunità artistica e la sua storia, al mio lavoro di docente universitaria, al mio desiderio di giustizia, al mio senso civile.
E le scrivo qui in chiusura come nostro continuo promemoria.
Come sarebbe la tua vita quotidiana, la tua esistenza ed essenza, se la tua pelle non fosse bianca. Se tu fossi esattamente chi sei, con il tuo nome e cognome, la tua vita così come te la vivi, il tuo stesso lavoro, i tuoi viaggi nel mondo, le tue corse in auto, la tua vita sociale e affettiva  — tutto — se la tua pelle non fosse bianca.
Se tu fossi costretto, tutti i giorni che respiri, senza volerlo o no, a dimostrare, convincere, e gridare che la tua vita conta.


[1] “The Price of the Ticket” è il titolo di una raccolta di saggi dello scrittore James Baldwin.



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