20 giugno 2020

VINCENZO CONSOLO VISTO DA CHIARA PELLEGRINI







Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, roso che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.

Comincia così "Retablo", il primo romanzo di Vincenzo Consolo che ho letto. Ero al primo anno di università, corso di laurea in lettere Moderne, esame di Teoria della Letteratura. In cattedra c'era l'indimenticabile Remo Ceserani. Portai a casa quel libretto dalla copertina bigia camminando per le strade bollenti di Pisa, una tarda mattinata di giugno. Sul treno gli buttai un occhio, ma poi mi incantai a guardar scorrere via l'onda d'oro dei campi di girasole in fiore, tra la ferrovia e l'autostrada, dalle parti di Migliarino Pisano. A sera, prima di addormentarmi, acchiappai il libretto che avevo abbandonato sul comodino e quelle furono le parole che mi vennero incontro alla prima pagina. Ben prima dell'alba il libretto era stato letto.
Che dire? Fu magia, fu folgorazione, fu innamoramento a prima vista per quella lingua sapida, umorosa, grassa, scintillante, profumata, unta, sciroccosa, densa; quella lingua in cui un nome di donna diventa una ghirlanda di fiori, una litania di suoni.
Vincenzo Consolo aveva il terrore dell'afasìa, cioè dell'ammutolimento, dell'assenza di parola. Sembrerebbe un paradosso, ai nostri tempi: perché aver paura della perdita del linguaggio nell'era della comunicazione?
Perché il linguaggio che usiamo è stanco, piatto, povero, sfibrato, grigio, debole, appiattito sulle strutture che ci rifila la televisione, diceva. Ci aveva visto bene. Ben prima che arrivassero il T9 e gli smartphone a farci scrivere TVB e 😉. E' un po' come nel romanzo "La storia infinita" di Michael Ende: sono le parole che ricreano, pezzo dopo pezzo, il regno di Fantàsia inghiottito dal Nulla. Vincenzo Consolo diceva più o meno la stessa cosa: con ogni parola che muore, muore un pezzo di mondo. E allora scavava nei vocabolari, si tuffava nei cunicoli dei dialetti - il suo siciliano prima di tutto -, entrava nelle catacombe delle lingue antiche, nei santuari della letteratura così come nei trivi e quadrivi delle lingue popolari. Ne riemergeva carico di parole antiche, smesse come vecchi vestiti ma ancora bellissime, evocative e ricche di significati. Era un cercatore di perle, Vincenzo Consolo. E quello che mi ha insegnato più di tutti sullo scrivere. Caro maestro, ti dedico la mia piccola "Storia di farfalle", che sta per arrivare.  


Chiara Pellegrini

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