IL GRANDE GIOCO
Lucio Caracciolo
Il territorio afghano – non lo Stato Afghanistan, miraggio forse indotto dalla locale abbondanza di oppiacei – misura da un paio di secoli la temperatura dei grandi o miseri giochi che le potenze ingaggiano nel cuore impervio dell’Asia. Fossero gli imperi zarista e britannico, l’altro ieri, o siano quelli americano e cinese, con la partecipazione speciale di quel che resta del russo, oggi e certamente domani. La fuga insieme tardiva e affrettata del più agguerrito esercito del mondo da quel campo minato ha già conseguenze rilevanti. La prima è la perdita di credibilità del Numero Uno. Riflesso della crisi di fiducia in sé stessa che investe la società americana e ne confonde la razionalità strategica (ma anche viceversa). Sarà una tempesta destinata a mutare in schiarita entro fine decennio, come pronosticava l’anno scorso il geniale geopolitico George Friedman nel suo La tempesta prima della calma , il più originale studio sul momento americano? Nelle cancellerie europee riecheggiano quale profezia le parole di Angela Merkel dopo il suo non-incontro con Trump del maggio 2017: «I tempi nei quali potevamo completamente affidarci ad altri sono passati da un pezzo. Noi europei (eufemismo per tedeschi, n.d.r. ) dobbiamo riprendere il nostro destino nelle nostre mani». Il discorso con cui Biden ha giustificato il ritiro davanti al suo pubblico era d’altronde di stringente logica trumpiana. È l’America che sta cambiando registro, non questo o quel presidente. Più ambigue le conseguenze nel teatro asiatico, epicentro del duello Stati Uniti-Cina. Il provvisorio vincitore di questa mano è il Pakistan. I talebani sono prolungamento dei servizi segreti (Isi) e delle Forze armate pachistane, impegnate a tenere insieme un edificio tarmato dalla nascita, vero arsenale del jihadismo. Soprattutto destinate a controllarne l’arsenale nucleare, allestito per bilanciare quello dell’arcinemico indiano. Con l’evacuazione degli occidentali l’Afghanistan talebano disegna per Islamabad l’agognata profondità strategica contro il vicino. E ne rafforza il vincolo con la Cina, frutto della medesima fissazione anti-indiana. A prima vista, dunque, occorre registrare il trionfo pachistano in terra afghana, su cui l’Isi contava fin dall’autunno 2001, quando correttamente prevedeva che il tentato suicidio americano in quel teatro di “guerra al terrorismo” sarebbe andato a buon fine. Ne deriva la speculare sconfitta dell’India, che negli ultimi anni ha messo tutte le sue uova nel paniere americano venendone ripagata con la cessione dell’Afghanistan al nemico esistenziale. Al grado superiore, questa concatenazione segnerebbe un punto per Pechino nella partita con Washington. Specie se, come pare, i cinesi riusciranno ad esercitare un certo grado di influenza su Kabul. E se i talebani, pragmatici e concreti come vogliono oggi apparire, eviteranno di esportare le loro tecniche terroriste nella vicina provincia cinese del Xinjiang a vantaggio dei ribelli uiguri. Sarà interessante verificare se la Turchia, che in Asia centrale sente di giocare in casa, darà mano alle intese sino-pachistano-afghane. Di sicuro Erdogan intende investire nella regione, con l’equilibrismo necessario a non trovarsi contro gli “alleati” a stelle e strisce. Il formidabile successo delle serie televisive di propaganda neo-ottomana in Pakistan testimoniano, fra l’altro, del soft power turco. Per niente tranquilli sono invece i russi. Il timore che l’estremismo islamista sedimentato nell’Afpak penetri nello spazio regionale ex sovietico e persino in casa propria induce Mosca a cercare fra i talebani referenti che garantiscano contro questa tentazione. Ancora meno sereni i persiani, che hanno perso la loro sfera d’influenza attorno a Herat e sono esposti ai devastanti flussi di droga e alle ondate di profughi afghani in fuga via Iran-Turchia verso l’Europa. Tutto ciò conforta chi a Washington, un po’ credendoci e altrettanto per consolarsi, confida che questa sconfitta possa presto volgere in rivincita: noi ce ne andiamo da quel pantano, ora sono affari di cinesi, russi e iraniani. La storia non è finita. Tantomeno nella terra del Grande Gioco.
La Repubblica, 19 agosto 2021
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