31 ottobre 2024

PARTHENOPE: un gran bel film da vedere al Cinema

 


Io non la conoscevo bene: Parthenope

31 Ottobre 2024
Pezzo ripreso da https://www.doppiozero.com/io-non-la-conoscevo-bene-parthenope
 

A circa metà del film, Parthenope (Celeste Dalla Porta), la protagonista del decimo lungometraggio di Paolo Sorrentino, decide di prendere lezioni di recitazione, e si rivolge a Flora Malva (Isabella Ferrari), una diva non più giovane che indossa una maschera perché è rimasta sfigurata da un intervento di chirurgia estetica. Chi guarda il film sa che ci troviamo agli inizi degli anni Settanta. La donna dal volto oscurato chiede alla sua ospite perché voglia fare l’attrice. «Perché gli attori nei vecchi film hanno quasi sempre la risposta pronta», risponde la ragazza. Dopo un momento di silenzio, l’altra replica, intanto che la macchina da presa la segue mentre si alza dal divano dirigendosi verso un’altra stanza. «È vero» dice Flora, «la vita dovrebbe essere così. E invece la notte non prendiamo sonno, rimuginiamo sulla risposta giusta che avremmo dovuto dare a tutti gli uomini che ci hanno offeso, perché le donne belle vengono offese continuamente». 

Celeste Dalla Porta.
 

Sono frasi che stanno definendo qualcosa di più importante di una scena, ed è interessante che a pronunciarle sia un volto in maschera, in questo film che funziona come una sorta di Mistero Napoletano, in cui la maggior parte del dramma si svolge, sotto forma di primi piani rallentati o monologhi enfatici, proprio sul volto trasformato in teatro scenico di quattro donne. Così abbiamo quello bellissimo e seducente di Parthenope da giovane; quello velato di Flora; quello imbruttito e deformato dalla calvizie dell’attrice Greta Cool (Luisa Ranieri); e quello di Parthenope a settant’anni (Stefania Sandrelli), lasciato agire silenziosamente, di fronte a noi, nella parte finale, come a interpellarci. 

Torniamo alle parole di Flora: l’alternanza tra momenti diurni, chiari e impostati, in cui la coscienza, come una vecchia attrice, ha la battuta pronta per sistemare le cose; e momenti notturni, di dormiveglia intorno a risposte mai pronunciate, funziona anche come schema di Parthenope, un film che procede continuamente per simbolismi visivi e per contrasti e che, proprio come una sirena, è davvero un’opera anfibia, vale a dire una creatura mostruosa con viso di donna e corpo di pesce: fatta di parti legate a cicli di vita differenti, ma che stanno nel medesimo corpo, e, nel caso del film, anche disubbidendosi reciprocamente. C’è, infatti, la parte luminosa, con le risposte certe, e poi la notte senza sonno e piena di demoni e di squarci onirici; come dire anche terraferma versus dimensione acquatica. Non stiamo guardando soltanto un film: stiamo partecipando, anche con le nostre emozioni, all’allestimento visionario di un mito e dei suoi archetipi.

Il mare è dappertutto, fin dalla locandina, dove un corpo femminile nuota davanti al profilo, anch’esso inabissato, della città con il Vesuvio. L’inizio stesso parte dal mare, proprio come nella prima pagina di Ferito a morte (1961), il romanzo di Raffaele La Capria diventato nel tempo una specie di mito letterario di fondazione delle generazioni di artisti e intellettuali separatisi da Napoli – perché da Napoli non si va via e basta: si fugge dolorosamente.

È in mare, infatti, che partorisce, sempre all’inizio, la madre di Parthenope; da lì era arrivata la carrozza reale donata dal padrino al fratello della protagonista – e c’era una carrozza anche all’inizio del film precedente, sempre ambientato a Napoli. La carrozza, il mare, i nomi favolosi dei personaggi (Flora, Devoto, Tesorone), il palazzo stesso di Donn’Anna, con i muri di tufo che lo fanno sporgere sull’acqua come un elemento naturale del paesaggio; o, ancora, la giovane bellissima, e portatrice di luce e sorrisi. Tutti questi aspetti, assieme alle numerose scene surreali, popolano l’intero film come se fossero tanti sogni che riemergono dal tempo sommerso di un fondale incantato, mentre si svolge, in maniera discontinua, il filo di una cronologia che parte dal 1950 (quando viene al mondo la protagonista) agli inizi degli anni Ottanta, per fare poi un salto temporale di oltre trent’anni, arrivando al presente.

Attraverso questa linea serpentinata, l’esistenza che Parthenope ci fa guardare direttamente non è quella dei fatti decisivi (lasciati per lo più fuori campo), ma piuttosto quella di incontri o dialoghi episodici, digressivi, molti dei quali avvenuti di notte, e trattati come eventi autonomi; procurandoci più che mai l’illusione cinematografica del passato, e in particolare della gioventù, come situazione trascorsa in un tempo chissà se più breve o più intenso, ma di certo finito, fuori dalla nostra esperienza presente, ormai, e tuttavia eternamente cristallizzato e pronto a scintillare dentro la memoria emotiva, come può succedere con il ricordo di un bagno in mare, un bacio inatteso, una canzone, un costume: tutti elementi di un’estetica anche troppo patetica, se non fosse che è talmente bella e fatta percepire come desiderio sospeso. Andando avanti, la visione di Parthenope asseconda il sentimento di una memoria fatta di dettagli che tornano trasfigurati in spettacolari e favolose fantasie – capaci di trasformare certi tratti tipici degli ambienti partenopei (come i cesti o catini calati dai balconi) in elementi animati di un ipnotico fondale marino. 

Foto di Gianni Fiorito.
 

Non è vero che Parthenope è un film senza una storia: manca, come in tutto il cinema di Sorrentino, una tensione narrativa usata come epicentro romanzesco del racconto. Nondimeno, la storia c’è fin troppo, tanto da somigliare, in certi tratti, a un feuilleton in cui la protagonista passa da un mare all’altro, intrattenendo una relazione simbiotica con il fratello e un altro coetaneo, durante un’estate passata tra Napoli e Capri – dove incontra anche lo scrittore John Cheever (Gary Oldman) e altri personaggi. Ma ormai lo sappiamo bene: raccontare i film di Sorrentino riassumendone la trama è abbastanza insensato rispetto alla cifra cinematografica dei suoi lavori, così efficaci nel sabotaggio del plot grazie alla reinvenzione degli sguardi.

Fin quando Raimondo (Daniele Rienzo), il fratello di Parthenope, non si fa fuori, buttandosi in mare, il film è bello, commovente, ma più debole – ci ricorda ora The Dreamers ora altre recenti scene di triangoli amorosi già viste al cinema. Invece, dal momento in cui Parthenope smette di essere solo funzione di una rievocazione nostalgica e diventa sguardo, dal momento in cui la sua bellezza comincia a farsi impura, ecco però che cambia anche il nostro modo di partecipare alla visione, perché questo film che sin qui ci era sembrato un incantesimo sin troppo artefatto, e forse nemmeno così speciale come altri lavori di Sorrentino, adesso invece diventa un’opera riepilogativa, che riprende elementi formali dei film precedenti, ma trasformandoli, stavolta, nelle parti di un mostruoso intero.

Silvio Orlando in una scena del film (foto di Gianni Fiorito).
 

Parthenope è, infatti, forse molto più di tutte le altre opere, una sorta di autobiografia per interposta città. Un film difficile da realizzare, più complicato, perfino più egocentrico, se si vuole – anche nella sceneggiatura, interamente scritta da Sorrentino. Eppure è anche un lavoro più sfacciatamente libero di portare in scena, in maniera aperta, un’idea personale di cinema come osservazione antropologica continua (almeno nel significato che si attribuisce qui all’antropologia); come esperimento fantasioso di sguardo, portato anche là dove la ferita è ancora infetta, dove si può sbagliare e ci si può far male; come riparazione, temporanea, di un dolore troppo grande per essere contenuto. È tutto carico, esagerato, come sempre nel cinema di Sorrentino; ma è anche, paradossalmente, tutto molto sincero, in termini realistici, e chi guarda il film percepisce – e apprezza – la sfrontatezza della caduta libera.

Napoli, il posto da cui partiva il protagonista autobiografico di È stata la mano di Dio (2021), nel finale del film, torna anche in Parthenope come spazio da cui allontanarsi, proprio come farà, da adulta, la protagonista, che non tornerà più per trent’anni. Ma Napoli, come corpo e volto in scena, è anche lo schermo contraddittorio su cui proiettare, trasfigurandolo e deformandolo, un modo di stare e di guardare, sia la città sia il proprio passato: che è duplice, anfibio, come si diceva anche sopra. Il film cerca di tenere insieme, infatti, sia un’esperienza di Napoli come mondo sottomarino, corporale, impuro, osceno, imbruttito; sia un tentativo di concettualizzazione e di risposta pronta, come aveva detto Parthenope a Flora parlando del lavoro degli attori; un modo che trova spazio nelle frasi apodittiche pronunciate dai vari personaggi che portano la propria solitudine per il mondo; incluso il professore di antropologia (Silvio Orlando) con cui si laurea Parthenope. 

Difficilissimo, allora, tenere insieme livelli di vita così distanti, che simultaneamente corrispondono al tempo mitico da cui esce Parthenope e che via via il film percorre (inoltrandosi sempre più in basso, nei vicoli, o nelle Chiese); e al tempo storico – più complicato da gestire – come nella scena poco felice di Parthenope, ormai adulta, seduta sui gradini dell’Università occupata da una manifestazione.

Celeste Dalla Porta in una scena del film (foto di Gianni Fiorito).
Jude Law nei panni di Lenny Belardo nella serie The Young Pope (2016).
 

È talmente difficile e complicato, nella vita come in un film, tenere in un solo corpo questi aspetti, che il tempo fuori dal tempo del miracolo (il tema della tesi scelto da Marotta, scartando l’argomento del suicidio) certamente non rappresenta la salvezza, ma diventa una zona paradossalmente vitale, anche in senso culturale e cinematografico, perché il codice del sacro (già presente nella serie televisiva The Young Pope e poi nel titolo stesso del successivo lungometraggio È  stata la mano di Dio) segna, anche ironicamente, il momento in cui la sistemazione si arrende, e in questo modo si può fare spazio non al significato chiuso e definitivo, ma almeno alla possibilità di vedere, e di vedere veramente: proprio come quando il Professor Marotta, alla fine della sua carriera, invita Parthenope a casa per mostrargli l’amatissimo figlio: una creatura deforme fatta tutta di acqua e sale - come il mare – che ci turba e ci lascia senza parole.

Parthenope non è un racconto in flashback, né mette in scena il punto di vista di una donna. I quattro volti che scandiscono il racconto e in particolare quelli della protagonista servono come specchio opaco di un’autobiografia per interposta città, come si diceva riprendendo le parole di La Capria. 

Stefania Sandrelli.
 

Quando, finalmente, Parthenope ormai matura torna a Napoli e va a Capri, cercando la ringhiera da cui si era buttato in mare il fratello, indugia, come se guardasse il punto in cui si è rotto il tempo mitico, dà le spalle al mare e ci guarda, rimanendo in silenzio. Ricordando un po’ anche Adriana, la protagonista di Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, uno dei volti di donna più iconici e indimenticabili interpretati da Sandrelli. Non ci sono battute pronte adesso, passato e futuro sono dietro le spalle, e come il mare sono più grandi di me e di te – sembra dirci quel volto. Tanto vale tacere.

Leggi anche:

È stata la mano di Dio | Gianni Montieri
Sorrentino: Loro 1 e Loro 2 | Marco Belpoliti
Sorrentino: Youth| Roberto Manassero
Paolo Sorrentino, La grande bellezza | Roberto Manassero

UN ALLUVIONE CON POCHI PRECEDENTI

 






Un’alluvione con pochi precedenti

Nimbus
30 Ottobre 2024

La disastrosa alluvione che ha colpito Valencia – per ora sono accertati 95 morti, ma i dispersi sono a decine – è avvenuta in un territorio che ha alle spalle un mare sempre più caldo, spiega la Società Meteorologica Italiana – NIMBUS (presieduta da Luca Mercalli), che dispensa enormi quantità di energia e vapore acqueo sviluppando sistemi temporaleschi spesso violenti. Certo, è già evidente che la quantità di acqua precipitata in poche ore avrebbe provocato gravi conseguenze in qualsiasi territorio. Ma quel mare caldo è conseguenza dei cambiamenti climatici e quei temporali si scontrano oggi con territori troppo antropizzati…

Fonte della carta delle precipitazioni del 29 ottobre: AEMET, Agencia Estatal de Meteorología

La disastrosa alluvione che ha colpito Valencia e il suo entroterra nel pomeriggio-sera di martedì 29 ottobre, è stata innescata da una serie di nubifragi autorigeneranti sviluppatisi all’interno della medesima depressione che nello scorso weekend aveva interessato il Nord-Ovest italiano con eventi alluvionali tra Savona e Genova, in Valle Bormida e in Toscana, e che poi, ormai isolata dal flusso perturbato principale delle medie latitudini (cut-off) è andata a localizzarsi intorno a Gibilterra. Il drammatico bilancio dell’evento è in continua evoluzione, per ora sono accertati 70 morti, ma i dispersi sono a decine.

Secondo AEMET, l’agenzia statale di meteorologia della Spagna, la precipitazione più intensa è stata registrata a Chiva, 35 chilometri a Ovest della costa di Valencia, con ben 491,2 mm in otto ore, di cui 160 in un’ora. Si tratta di un valore tra i più elevati noti in Europa e nel bacino del Mediterraneo, all’incirca del medesimo ordine di grandezza dei 472 mm caduti in un tempo tuttavia ancora più breve (sei ore) il 25 ottobre 2011 a Brugnato (La Spezia), record italiano, e responsabili dell’alluvione delle Cinque Terre e della Val di Vara. Sono quantità che nessun territorio, anche il più correttamente manutenuto, può sopportare senza gravi conseguenze.

D’altra parte la Comunità Valenzana non è nuova a questo tipo di episodi, essendo anzi tra le zone maggiormente propense allo sviluppo di nubifragi di tale entità in Europa e in tutto il bacino del Mediterraneo, insieme alla Catalogna, al Midi francese (dove si parla di épisodes cévenols o méditerranéens) e alla Liguria, trovandosi alle spalle di un mare caldo che dispensa enormi quantità di energia e vapore acqueo per lo sviluppo dei sistemi temporaleschi, con la complicità di fattori orografici e dinamici locali. Un altro evento drammatico avvenne proprio a Valencia il 14 ottobre 1957 causando almeno 81 vittime per il violento straripamento del fiume Turia che attraversava la città, e di cui – a seguito dell’episodio – venne deciso lo spostamento dell’alveo di 3 chilometri, a sud dell’area metropolitana, dove si trova attualmente.

Oggi, dalla fisica dell’atmosfera e dagli studi di attribuzione del ruolo dei cambiamenti climatici negli eventi estremi, sappiamo che mare e atmosfera più caldi rendono più intense e probabili precipitazioni violente come queste (e il Mediterraneo in superficie in questi giorni è 1,0 °C sopra la media 1982-2015, dati Socib), e ciò va a peggiorarne ulteriormente gli impatti, di per sé spesso già amplificati e complicati dall’interferenza con il territorio antropizzato. Ma, per valutazioni più precise su questa alluvione, attendiamo un’eventuale analisi di www.worldweatherattribution.org.


[Società Meteorologica Italiana – NIMBUS]


LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GUIDO VIALE:

30 ottobre 2024

MORAVIA E PASOLINI VISTI DA DACIA MARAINI

 


Aldo Cazzullo  Roberta Scorranese, Io, Moravia e le voci che scrivesse per me
Corriere della Sera, 30 ottobre 2024
Intervista a Dacia Maraini 

«Per anni, in tanti hanno sostenuto che l’autrice dei miei libri non fossi io». Dacia Maraini si racconta. «Pasolini si ritraeva se una donna lo toccava. Vanoni una grande amica».

 

Lei scrive il suo romanzo d’esordio, «La vacanza», dopo la separazione da Pozzi e nel dolore per il figlio perduto.

«E con i pregiudizi che all’epoca accompagnavano una donna aspirante scrittrice. Finii La vacanza e cominciai a proporlo agli editori. I commenti erano sempre del tipo “bravina, ma perché non se ne sta a casa invece di scrivere?”. Solo l’editore Lerici rispose, ma pose una condizione: che la prefazione fosse firmata da uno scrittore famoso».

E il più famoso di tutti, Alberto Moravia, accettò.

«Stendhal diceva che ci si innamora delle persone che fanno bene il mestiere che ci appassiona. Fu questa la prima impressione che ebbi di Alberto. Serio, attento, generoso. Non ha aiutato soltanto me, ma molti altri giovani. Purtroppo per decenni in tanti hanno sostenuto che i libri me li scriveva lui».

Lei era bellissima, e questo forse con Moravia la aiutò.

«Non andò così, il primo approccio fu al contrario puramente letterario. Insomma, non ci provò».

Lei aveva poco più di vent’anni. Quando vinse il Premio Formentor, il Corriere scrisse che la somma del riconoscimento assegnato «alla bella esordiente a qualcuno sono parsi un riconoscimento eccessivo».

«Ma non erano solo gli uomini ad attaccarmi. Maria Bellonci, madre del Premio Strega, commentò: “Questa ragazza ne deve mangiare di minestre prima di diventare una scrittrice”. Ma io sentivo di vivere dentro una grande famiglia, fatta di scrittori, registi, poeti. Ci vedevamo a Roma da Rosati. Ci trovavi Garboli, Citati, Bassani. Si andava a cena con Fellini, lui mi chiamava Dacina. Tutti pensavamo che fosse solo lui a tradire Masina, ma poi più tardi abbiamo scoperto che anche lei ha avuto vari amori».

In effetti Valentina Cortese ha raccontato che suo marito la tradiva con Giulietta.

«Giulietta e Federico erano alla pari». 
Com'era la vita con Moravia?

«Aveva una vitalità inesauribile. Una volta andammo in Africa con Pasolini. Avevamo viaggiato tutto il giorno sulla jeep, arrivammo stanchissimi e impolverati in un villaggio. Alberto non volle sentire ragioni e ci trascinò a ballare».

Con Pasolini siete stati in Africa altre volte.

«Arrivammo in un luogo remoto, eravamo io, Alberto, Pier Paolo, Franco Citti, Ninetto Davoli. Si sparse la voce che in quel villaggio viveva una tribù di cannibali che si nutriva del cervello per appropriarsi dell’intelligenza. Eravamo tutti spaventati. A un certo punto Citti disse a Davoli: “A Nine’, prima se magneranno Moravia, Pasolini, Dacia. Arriveranno a noi che so’ sazi...”. Ridemmo molto».

Moravia e Pasolini.

«Alberto era tutta ragione, Pierpaolo tutta sensualità. Andammo in India. Al ritorno uno scrisse Un’idea dell’India, l’altro L’odore dell’india».

Pasolini.

«Affettuosissimo. Ma senza contatto fisico, perché lui si ritraeva davanti al tocco di una donna. Una volta, in osteria al ghetto, cadde a terra. Ulcera. Perdeva sangue. Lo presi tra le braccia e non dimenticherò mai il suo sguardo: era come se stesse guardando sua madre. Non è vero che non si sia mai innamorato delle donne. Ha amato Maria Callas, ma era un amore senza fuoco, di testa. Lei ne soffrì, avrebbe voluto di più. Però lui nel corpo femminile ritrovava sua madre».
Cercava i ragazzi.

«Ma per sedurli, non per usare violenza. Eravamo in Africa, io lui e Alberto. Pier Paolo uscì, cercava amore. Tornò che era tardi, sconsolato. Ci disse che un giovane lo aveva rifiutato quasi con terrore, facendosi il segno della croce, come per allontanare un demonio. Ne era rimasto colpito, non capiva perché altri vedessero violenza nella sua ricerca dell’altro. Lui, che era profondamente cristiano e mai avrebbe voluto fare del male a qualcuno».

Lei collaborò alla sceneggiatura de «Il fiore delle mille e una notte», il penultimo film di Pasolini.

«Sul set avevamo bisogno di un leone. L’animale arrivò con il domatore, ci assicurarono che era innocuo. Ma a un certo punto piantò le zampe sulle spalle di Ninetto Davoli, lo ferì in modo abbastanza serio. Ci prendemmo un grande spavento. Ninetto urlava. E il domatore: “Tranquilli, vuole solo giocare!”».

Dov’era quando le dissero che Pasolini era morto?

«A Rimini, a un incontro femminista. Non volevo crederci, aveva appena 53 anni, era sano, pieno di progetti. Non toccava alcol, beveva solo latte, anche a tavola: suo padre era diventato alcolista dopo essere stato in un campo di concentramento in Africa e usava violenza contro la moglie. L’amore di Pier Paolo per la madre nasce da questo».

Che idea si è fatta di quella notte del 2 novembre 1975, a Ostia?
«Se finora non è emersa una verità chiara, qualcosa dietro deve esserci. Un mistero più grande di noi».

...

Moravia ha influenzato la sua scrittura?
«No, semmai l’ha fatto mio padre. Moravia si rifiutava di rivedere i miei scritti, per me non voleva essere un maestro».

Lo sogna spesso?

«Sogno spesso Pasolini. Ed è sempre giovane e bello».

 


29 ottobre 2024

NOI MIGRANTI

 



Noi e i migranti, futuri intrecciati


Guido Viale
29 Ottobre 2024

Foto Ciac

La “questione dei migranti” (e profughi) è attraversata da un duplice paradosso: da un lato è ovunque al centro di uno scontro politico tra una destra “sovranista”, nazionalista e per lo più razzista – almeno ai vertici – che innalza la bandiera della “difesa dei confini”, cioè i respingimenti: con qualsiasi mezzo; di contro, la fu-sinistra non ha una proposta alternativa e si limita, nel migliore dei casi, al sostegno delle iniziative umanitarie di salvataggio, assistenza e accoglienza promosse dal basso, ma poi insegue le politiche di respingimento degli avversari per non farsi portar via gli elettori stregati dalle sirene dell’”integrità della nazione”. Tuttavia, pur essendo assurta a un ruolo centrale sulla scena politica in tutto il mondo, la questione dei migranti e dei profughi non supera mai i confini delle singole nazioni, non entra mai nel merito delle cause di fondo di questa crescita esponenziale di “popoli in movimento”: le guerre, la miseria e il degrado ambientale che colpiscono i Paesi di origine. Persino l’abusato “aiutiamoli a casa loro” è passato di moda, affogato nel ridicolo.

Dall’altro lato, è paradossale come la dimensione planetaria del fenomeno migratorio, soprattutto se visto in prospettiva, venga taciuta, perché non si sa come affrontarla, esattamente come la dimensione della crisi climatica, che ne è in gran parte all’origine. E non solo per le guerre, che a moltiplicare profughi e migrazioni e a guastare il clima provvedono in misura crescente. Ma chi ha provato a confrontarsi con il futuro delle migrazioni (per esempio Gaia Vince, Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023, e Pareg Khanna, Il movimento del mondo, Fazi, 2021) prevede che entro la fine del secolo metà delle terre emerse, soprattutto nell’emisfero meridionale, sarà inabitabile a causa della crisi climatica e che miliardi di esseri umani saranno stati costretti a cercare di trasferirsi nei Paesi dell’emisfero settentrionale, resi più fertili e più abitabili dal riscaldamento globale. Ma ecco il paradosso: si pensa forse di far fronte a un processo di queste dimensioni con le limitazioni del diritto di asilo, i muri e le cortine di filo spinato, la caccia ai barconi dei migranti, gli hotspot nei Paesi di transito, come se fosse un fenomeno temporaneo, destinato a esaurirsi, per estinzione o per repressione, nel giro di qualche anno? O non è, il percorso intrapreso da quasi tutti i governi del mondo in questo campo, solo l’inizio di un processo di militarizzazione destinato a fare incontrare la guerra ai “migranti” e alle enclave etniche interne a ogni Paese con le guerre vere e proprie che si svolgono ai confini e che si stanno moltiplicando su tutto il pianeta?

Guerre affidate sempre più a strumenti dual use, dove le tecnologie di sorveglianza preparano lo sterminio affidato alle armi, ma anche alla fame, ai contagi, alle devastazioni, alla disperazione. Ma assistiamo anche all’incontro tra uno stato di belligeranza permanente “in difesa dei confini” e una deriva autoritaria, fascista e oligarchica all’interno degli Stati coinvolti; deriva indispensabile per mantenere una condizione di mobilitazione permanente. L’Ucraina prima e dopo l’invasione russa e Israele, da sempre, sono esempi e antesignani di questi “incontri”. E’ questo che vogliamo?

Esiste un’alternativa a questa deriva? Non nei programmi e meno che mai nelle “visioni” (se ci sono) di chi pretende di opporvisi ma non fa che inseguirla. Per sviluppare una vera alternativa occorre guardare in faccia alla realtà (tell the truth, riprendendo la prima delle tre raccomandazioni di Extinction Rebellion); poi rivolgersi alle migliaia di iniziative di solidarietà, assistenza, accoglienza e salvataggio già in atto (act now) – iniziative esemplari ma di scarsa efficacia nel definire una politica –  per cercare in esse, attraverso un confronto continuo (call assemblies) il filo conduttore di una prospettiva di salvezza per tutti. Cominciando da alcune premesse ineludibili e solo apparentemente banali, ma oggi del tutto eluse.

Quella dei migranti non è una questione temporanea o marginale rispetto ai conflitti sociali in atto, ma  insieme alla crisi climatica e ambientale, che ne è e ne sarà sempre più all’origine – deve essere trattata come questione centrale e prioritaria per tutti coloro che aspirano a un mondo e a una vita diverse. Affrontarla con consapevolezza prospettica mano a mano che si manifesta può permettere di non subirne l’impatto quando le misure oggi adottate non saranno più in grado di arginare il processo. Ad essa vanno riservate risorse adeguate alla dimensione che il fenomeno è destinato ad assumere, modificando di conseguenza gli apparati istituzionali e le politiche sociali oggi del tutto incapaci di far fronte al processo in atto.

Il livello locale, con la creazione di insediamenti misti vivibili per tutti e la promozione di incontri e relazioni personali dirette, è essenziale per rendere plausibile l’accettazione di un cambiamento radicale degli assetti sociali e istituzionali imposti dalla presenza di un numero crescente di “nuovi cittadini” non autoctoni.

La possibilità di coinvolgere i nuovi arrivati negli interventi di soccorso, risanamento e prevenzione nei territori colpiti da disastri ambientali – dalle alluvioni alla siccità, dagli incendi ai contagi, dall’inquinamento allo spopolamento, tutti gli eventi destinati a moltiplicarsi mano a mano che la crisi climatica e ambientale proseguirà il suo corso – è forse l’unica occasione per promuovere una svolta del genere.

Per promuovere l’inclusione sociale dei nuovi arrivati quegli interventi saltuari ed estemporanei dovranno essere presi a modello per l’elaborazione di grandi piani generali di risanamento territoriale e sociale con cui offrire nuove possibilità di inserimento tanto ai disoccupati e ai lavoratori autoctoni espulsi dai processi produttivi che ai nuovi arrivati, su un piede di parità.

La presenza, in ogni territorio di immigrazione, di un numero crescente di “nuovi cittadini” e di comunità organizzate che li aggreghino per lingua, nazionalità, fedi, culture, rappresenta un’occasione straordinaria per promuovere dal basso relazioni dirette tra le regioni di accoglienza e quel che resterà in loco delle comunità di origine dei nuovi arrivati. Relazioni che possono facilitare l’inserimento di chi ancora non è partito ma sta per arrivare; ma anche contribuire a contrastare, con un presidio in loco, l’abbandono definitivo di territori che ancora possono essere risanati e rimanere abitabili.

Trasformare queste premesse in prassi è cosa che non si può fare se non confrontandosi con i contesti specifici.

Pezzo ripreso da:   https://comune-info.net/noi-e-i-migranti-futuri-intrecciati/


L' AUTUNNO di CHANDRA LIVIA CANDIANI

 


Avanza Autunno
ah questa sciocca idea
di dover sempre imparare
qualcosa.
Guardo senza osservare
mi sfoglio, mi slego
impallidisco, tremo
e tremando volteggio.
Come l'albero tratta le sue
foglie
così tratto i miei pensieri.

Chandra Livia Candiani