Ultima parte dello studio su anarchismo ed ebraismo.
Pier Francesco Zarcone
L'anarchismo di Buber
Martin Buber rientra
nella corrente culturale dell'Ebraismo dell'Europa centrale che
durante il secolo scorso associarono il messianismo con la
prospettiva socialista. Buber appartiene al versante spiritualista e
religioso di questa corrente, mentre sul versante laico di essa il
maggior esponente è stato forse Erich Fromm, freudiano e marxista,
ma entrambi - pur con le inerenti differenziazioni - radicati nella
tradizione biblica, da cui hanno tratto ispirazione per le loro
visioni di un futuro dell'umanità più giusto e libero.
Detto ciò, va subito
messo in evidenza che per Buber la comunità è la soluzione per il
problema dell'uomo. Non si tratta tuttavia della comunità
«naturale», i cui vincoli interni sono di sangue o di luogo e che
quindi si forma automaticamente, cioè a prescindere dalla volontà e
dall'impegno delle persone; e non è nemmeno la massa, in cui l'uomo
galleggia sull'acqua in balia della corrente, senza effettiva
autonomia. Per conseguenza non si tratta neanche di una realtà
improntata al collettivismo.
Vero è che l'essere umano si sente
sorretto dalla collettività, che lo solleva dalla solitudine,
dall'angoscia del mondo, dallo smarrimento, ma in realtà ciò limita
l'inclinazione al rapporto personale, come se coloro che sono riuniti
nel gruppo dovessero insieme essere rivolti principalmente solo
all'opera del gruppo. In tutti questi modi di essere della società
si hanno individui «impacchettati insieme», con l'illusione di
condurre la propria esistenza, mentre si ha soltanto una vita
«derivata» e spogliata di vera responsabilità. La comunità è
invece per Buber un sistema di relazioni interpersonali collegate con
un centro, purché esistano due condizioni.
La prima condizione
richiede che si superi il mero fatto spaziale-materiale della
vicinanza reciproca, per dare luogo all'essere uno presso l'altro di
una molteplicità di persone che ovunque fa l'esperienza di una
reciprocità, di un dinamico e reciproco «essere di fronte». Con
questo Buber si oppone all'impersonalista concezione heideggeriana
dell'essere comune, rivendicando l'essere in comune, implicante il
pluralismo che deriva dal riconoscimento reciproco dei singoli
componenti: «Il fondamento dell'essere uomo-con-l'uomo [consiste
nel] desiderio di ogni uomo di essere confermato per ciò che è […]
e la capacità innata dell'uomo di confermare allo stesso modo gli
uomini come lui» 25.
Questa condizione viene
meno quando non si evitano atteggiamenti suscettibili di incidere
negativamente sul significato della dimensione pubblica per la
loro carica massificatrice; si tratta dei momenti di entusiasmo
storico in cui la trasfigurazione della massa è così abbagliante da
oscurare ogni alterità e la persona, sopraffatta da un'estasi
inebriante, scompare nel movimento della vita pubblica; e altresì si
tratta della passività che porta all'omologazione, vale a dire
quando capita di stare dalla parte dell'opinione pubblica. Tutti
questi casi hanno il minimo comun denominatore dell'affidarsi
ciecamente a qualcuno e non decidere da soli.
Tutto il discorso
filosofico di Buber, apparentemente solo antropologico e psicologico,
in realtà si riverbera sulla sua intera concezione sociale e
politica, è anzi la base del suo socialismo comunitarista anarchico.
La sua visione della comunità come insieme di libere relazioni
reciproche è una sorta di «noi collettivo» retto dalle relazioni
fra una pluralità di «io-tu» e, sia pure con diversa motivazione,
si apparenta al comunitarismo del principe anarchico Pëtr Kropotkin,
incentrato sul mutuo soccorso e sulla libertà. L'anarchismo di
Buber 26, di cui Sentieri in Utopia è per vari aspetti la
sintesi, si incardina - come già detto - nel filone della cultura
ebraica ostile a ogni relazione umana (e sociale) improntata alla
sottomissione, alla sudditanza e, quindi, avverso alla gerarchia e
- a fortiori - alla repressione, in nome della libertà
umana contro il dominio.
Gustav Landauer
Non è possibile
trascurare l'influsso esercitato dall'amicizia personale e
intellettuale con Gustav Landauer (1870-1919). Idee di quest'ultimo
sono state riprese e portate avanti da Buber, con particolare
riguardo al federalismo libertario e comunitario, del quale egli
vedeva un riscontro nelle prime esperienze dei kibbutzimsocialisti
in Palestina. Un socialismo capace di rinnovare l'animo umano; una
democrazia basata sulle relazioni dirette; una libertà che si formi
nello spirito della persona prima ancora della sua oggettivazione
nella società, e quindi prima della militanza sociale e politica; la
rigenerazione spirituale come vera leva del progresso (ben più delle
scienze e delle tecniche); il socialismo anche quale dimensione
culturale per superare l'atomismo individualistico; il modello
federativo basato sulla partecipazione volontaria e sulle relazioni
umane; l'umanizzazione della vita sociale - sono tutti questi
elementi che accomunano le concezioni di Buber e Landauer.
Fondamentale nel pensiero
buberiano è la nozione di «interumanità»
(zwischenmenschlichkeit), coinvolgente la socializzazione delle
relazioni interpersonali, la cooperazione e l'umanitarismo, il
superamento delle istituzioni centralizzate, che sono di ostacolo
alla libertà, all'autodeterminazione e alla giustizia. Con Sentieri
in Utopia Buber non ha voluto certo svalorizzare l'utopia, bensì
il contrario, se si considera che per lui l'utopia è «la nostalgia
di ciò che è giusto». Va notata la data in cui fu scritto questo
libro: il 1946, vale a dire quando in Palestina i sogni di
conciliazione dell'autore si erano ormai del tutto frantumati. Questa
nostalgia diventa allora orgogliosa rivendicazione di un dover essere
che - indipendentemente dal rifiuto attuale da parte del mondo (e in
primis dello stesso mondo di Buber) - sussiste comunque, resta
vivo quale pietra di paragone e segno di condanna senza appello.
Di primo acchito il libro
in questione sembra un'opera storica e politica, giacché è
incentrata sul pensiero di grandi pensatori rivoluzionari e su talune
esperienze pratiche. In realtà, tutto il discorso è retto da un
sottostante filo rosso di natura profetica e religiosa, con il quale
interagisce l'aspetto politico. La prospettiva in cui si è mosso
Buber è innegabilmente messianica ed escatologica, poiché il fine
ultimo degli esseri umani è inscindibilmente legato alle sorti del
mondo. Tuttavia, nell'àmbito della nostalgia per il giusto Buber ha
distinto l'escatologia dall'utopia: la prima è l'immagine di un
tempo perfetto in cui si dà il compimento della creazione; la
seconda è l'immagine dello spazio perfetto.
L'eschaton è nelle
mani di Dio, ma l'utopico è in quelle degli esseri umani. E riguardo
all'escatologia ha effettuato la distinzione fra «escatologia
profetica» ed «escatologia apocalittica». La prima, di matrice
ebraica, implica comunque una partecipazione attiva delle persone; la
seconda, invece, di matrice iranica, per il suo carattere
determinista fa sì che la persona vi svolga un ruolo essenzialmente
passivo. Calata in àmbito politico, la distinzione investe le
differenze fra il pensiero libertario e il marxismo, inquadrandoli
rispettivamente nella prima e nella seconda categoria escatologica.
Influenzato da Landauer,
Buber ha inteso la prospettiva comunitaria, libertaria e umanista
come permanente rivoluzione della vita personale (nel giorno per
giorno) volta alla ricerca del contenuto e del senso dell'esistenza.
Di conseguenza la rivoluzione diventa un costante movimento per
evitare che si staticizzi, che si cristallizzi nell'istituzionalità.
Per l'esigenza di procedere in una direzione qualitativamente
appropriata, Buber ha respinto ogni progetto di accentramento
socio/economico e politico, e quindi l'impostazione leninista,
rimarcando quanto di positivo c'è in quel «socialismo utopistico»
a cui Marx e Lenin avevano contrapposto un socialismo «scientifico»
che, nel caso di Lenin, si è rivelato scientifico solo in senso
popperiano: cioè falsificabile e, nel concreto, auto-falsificato.
Buber e tutti gli ebrei
anarchici animati da una speranza messianica ed escatologica avevano
riposto enormi aspettative nell'esperimento dei kibbutzim in
Palestina, quale nuovo modo di organizzazione sociale e produttiva
anticapitalista e libertario. Ed effettivamente nella prima metà del
secolo scorso si trattò di un fenomeno che fece epoca nell'àmbito
delle sinistre non staliniste.
Il kibbutz (al
plurale kibbutzim) - cioè «assemblea» oppure «insieme», e
nel nome c'è già il programma - è una comunità agricola o anche
industriale autogestita di tipo collettivista, originariamente
formatasi sotto l'influsso del comunismo libertario27. Era in comune
la proprietà della terra, delle case e dei mezzi di produzione in
genere28, e anche l'educazione dei bambini. A quel tempo
neikibbutzim non c'erano strutture elette e il potere era
direttamente gestito dall'assemblea dei membri.
Costoro non avevano
problemi economici di sorta, poiché di tutto si faceva carico la
segreteria della comunità. Originariamente vi si conduceva una vita
assai spartana 29 e all'interno non circolava denaro.
I kibbutzim si raggrupparono poi in federazioni perlopiù
sulla base di affinità partitiche e ideologiche. Generalmente sono
stati considerati frutto del marxismo, ma di marxista avevano solo il
rifiuto della proprietà privata. I princìpi portanti -
autogestione, libere assemblee, autonomia e federalismo - erano
invece tipici dell'anarchismo. I membri dei kibbutzim erano
per lo più atei o agnostici e comunque poco propensi alla
religiosità. Pur tuttavia non mancarono i credenti che combinavano
religione e anarchismo, soprattutto i qabbalisti e i chassidici. Come
ebbe a scrivere Giora Manor (del kibbutz Mishmar Ha-Emek),
«da quando è stato
concepito […] il kibbutz è sempre stata una libera società che
ogni membro può lasciare - come molti hanno fatto e fanno - se non
condivide le sue decisioni. […] è prevalso il principio anarchico
della libera volontà degli individui. […] Naturalmente i kibbutz
hanno regole e ci si aspetta che i membri vi si attengano. Non vi è
cioè «anarchia» intesa come totale assenza di norme. Ma la
corretta definizione anarchica dell'anarchia non è quella di una
società senza norme e regole, ma di una società basata
sull'accettazione volontaria delle decisioni e dei regolamenti
sociali da parte di ogni individuo. Consenso senza coercizione e
sanzioni istituzionalizzate. Ciò è esattamente quanto avviene nella
vita del kibbutz» 30.
Tuttavia, le speranze di
Buber e dei fautori di una conciliazione con gli arabi si sono
risolte in disillusione e dramma, per motivi riguardanti entrambe le
parti in causa. Da un lato abbiamo proprio l'intreccio con il
sionismo politico, che rapidamente assunse connotati di
«nazionalismo» religioso e di imperialismo, determinando così un
cambio di paradigma da cui è conseguito - per la sua vittoria - il
naufragio dell'anarchismo e di tutto il pensiero libertario in un
Israele dominato da una tutt'altro che messianica volontà di potenza
temporale. Resta del tutto aperta la questione se e fino a che punto
non vi abbia contribuito anche l'estinzione della cultura yiddish, a
causa del genocidio della Germania nazista in Europa. Dall'altro lato
c'è il fatto che gli arabi, sotto il colonialismo anglo-francese,
erano diventati tutt'altro che aperti alla conciliazione con i nuovi
venuti dall'Europa 31.
Nel mondo ebraico
addirittura non mancò chi rivolse a Buber lo strampalato rimprovero
di aver sovrapposto il sionismo al messianismo. In realtà aveva
cercato di fondere messianismo e sionismo in una visione tanto
limpida quanto - purtroppo - tutta e solo sua; con la conseguenza che
ancora una volta il messianismo ha cozzato col mondo della politica
aliena, e ancora una volta a vincere è stata quest'ultima.
Tirando le somme, l'opera
sociale e politica di Buber si inquadra - a un livello indubbiamente
alto - nelle ricerche di alternative all'antisocialità
dell'individualismo borghese, del capitalismo e di quello che, dopo
lo svuotamento della rivoluzione d'Ottobre, è stato il socialismo
reale. Le due apparenti alternative - che Buber ha rifiutato - si
identificano nello sfruttamento e nell'oppressione, nonché nella
disorganizzazione sociale ed esistenziale della persona, eliminando
gli spazi dialogici.
Nel suo sforzo di
superamento, Buber ha ripreso la tradizione dell'utopismo socialista
e libertario, in ciò animato anche da una solida fede in Dio e -
nonostante tutto - nell'essere umano. Questa concezione non ha avuto
seguito; ma ciò non significa che fosse irrealista e non esprimesse
esigenze concrete e positive.
Una volta Oscar Wilde
definì il cinico come una persona che accetta il mondo per quello
che è e si tiene lontana dal dover essere. Buber vide la realtà del
mondo, ma fece del dover essere l'asse centrale della sua vita
intellettuale, consapevole che il sogno non è disarmato di fronte
alla realtà mondana, se diventa un sogno in comune ed è armato di
volontà collettiva. Il punto sta proprio qui: nel voler fare il
possibile desiderando l'impossibile.
Il realizzarsi di questo
presupposto può aprire il sogno a una prospettiva messianica ed
escatologica. In questo Buber traeva lievito dalla tradizione
culturale ebraica, per la quale la storia non è un progresso lineare
e irreversibile ed esiste sempre la possibilità di rinnovamento e
riscatto, ma non in termini di gradualità: il rinnovamento, la
rivoluzione, è per lui (perfettamente in linea con Landauer)
l'irruzione improvvisa del nuovo, l'irruzione messianica del
rinnovamento.
L'attesa del Messia è
l'immagine iconica di ciò. D'altro canto - notava Buber -, chi pensa
alla storia come progresso non attende certo il Messia. In merito al
messianismo Buber ha operato per far pendere da una parte ben
precisa, piuttosto che dall'altra, la tensione dialettica - esistente
nell'Ebraismo - fra attendere e agire, tra fede in Dio e fede
nell'essere umano, con riguardo alla sua partecipazione alla
salvezza, propria e del mondo, orientandosi verso la creazione di un
ordine sociale giusto, senza oppressi né oppressori, e quindi senza
sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Di qui la visione di una
comunità basata su rapporti umani autentici, sul mutualismo
reciproco e sul riconoscimento completo dell'Altro. La visione di un
mondo libero, in cui la libertà non è la vuota e solipsistica
libertà dell'individualismo borghese, bensì la liberazione di massa
dai vincoli del capitalismo (privato o di Stato) e
dell'atomizzazione; la visione di una possibilità di vivere
spontaneamente in comunità volontarie.
La visione buberiana
contiene innegabilmente una sorta di nostalgia per le comunità del
passato, maggiormente organiche rispetto agli aggregati sociali
frutto della vittoria del capitalismo e della sua espansione. E non
casualmente Buber ha ripreso la distinzione di Tönnies fra comunità
e società, additando in quest'ultima la mancanza di interna coesione
32.
Tuttavia egli non ha
certo vagheggiato un ritorno al passato, cioè la riproposizione
pedissequa di quel che è stato. Anche rispetto al passato la sua
comunità è nuova, ma non antitetica, poiché le si apparenta nei
valori. Una comunità nuova - una federazione di comunità - che egli
non concepisce come «stato», ma come processo, riprendendo così la
classica visione anarchica delle comunità in cui liberamente si
sperimentano nuove forme di organizzazione e di produzione.
La sua sottolineatura
circa l'esigenza che il rinnovamento rivoluzionario debba avvenire
nel profondo delle coscienze personali, prima ancora che nelle
istituzioni e nelle forme produttive, è della massima importanza,
essendo egli consapevole di come sia proprio la mancanza di diffusa
coscienza comunitaria e della coesione interna che ne deriva a
rendere alla fine necessario lo Stato e la sua fisiologica
coercizione/repressione. L'alternativa non è fra Stato liberale e
Stato illiberale, bensì fra Stato e libertà.
È forte nell'opera
buberiana il richiamo al ritorno alla terra, a fronte
dell'atomizzazione e disgregazione esistenti nella vita cittadina.
Pur tuttavia, fare di Buber l'apostolo dell'abbandono tout
court dell'urbanesimo vorrebbe dire tradirne il pensiero. In
realtà il senso della sua posizione sta nella creazione di forme di
convivenza comunitaria che vadano al di là degli attuali assetti
urbani, senza trascurare che a monte di tutto c'è il rinnovamento,
sia interiore che nei rapporti intersoggettivi. Qualcuno ha definito
la concezione sociale di Buber «teocrazia anarchica», per il fatto
di riconoscere al di sopra di tutto solo Dio. Lasciamo stare il fatto
che questa definizione possa fare inorridire gli anarchici duri e
puri: in realtà Buber si è riallacciato all'originario patto
teologico-politico della storia di Israele, ma dell'Israele
premonarchico, in cui il Melekh («Re») era Dio e non un
uomo. Cosicché accettare la regalità divina si accompagna con
l'anelito all'autonomia dell'essere umano, con il rifiuto del
dominio.
La Sion di Buber, la sua
Terra Promessa, ha natura spirituale, religiosa e antistatalista: un
ideale virtualmente universale. Niente a che vedere col progetto
politico e nazionalista di Theodor Herzl, bensì un «sionismo tutto
buberiano», fedele alla Torah e orientato alla
realizzazione del Regno di Dio, per il quale Gerusalemme potesse
diventare l'alternativa reale alla stalinista Mosca e alla
capitalista New York. Disse Buber che «Israele perde se stesso se
sostituisce la Palestina con un'altra terra, e perde se stesso se
sostituisce Sion con la Palestina». Qui in effetti c'è la grande
illusione di Buber: pensare ancora che un Israele in fase di
allontanamento sempre più progressivo dalla Sion spirituale - ancor
prima che Buber si stanziasse in Palestina - potesse diventare
l'araldo e il precursore di un mondo redento.
IL PROFETA ANARCHICO
DELL'EBRAISMO
Per dare il senso - e
anche la pienezza - della concezione di Buber è necessario
illustrare, sia pur brevemente, il suo nesso profondo con
la Qabbalah (letteralmente, «tradizione»), che ne fa un
epigono del profetismo ebraico, e non dei minori. Di sicuro quanto si
dirà qui appresso sarà giudicato del tutto visionario, e magari
campato per aria. Va però notato che la stessa taccia, a buon
diritto, può essere rivolta anche ai profeti del Vecchio Testamento
(per noi cristiani), quando presentavano con immagini da età
dell'oro i tempi nuovi implicati dalla prospettiva messianica. Se fu
visionario Buber, allora lo furono anche quei profeti. E allora,
perché venerarli invece di considerarli prossimi alla follia?
Il fatto è che il
profeta (almeno in senso biblico) non è un indovino per forza
divina, bensì un veggente che in quanto tale «vede» la realtà
dell'essere e del dover essere, e se è visionario lo è in virtù di
questa sua giusta visione: questa capacità che gli proviene per
forza divina, ed è la capacità di esprimere una retta coscienza
religiosa in linea con i valori universali e specifici della propria
religione, secondo la rivelazione divina. Ciò posto, prima di venire
al punto si deve fare una piccola digressione in merito
alla Qabbalah, per poi poter trattare del nesso fra questa
antichissima tradizione esoterica e Buber. Nesso che risponde al
«misterioso» nome di tikkun.
Preliminarmente va
ricordata la fondamentale importanza che ha nell'esoterismo
qabbalistico il concetto di sefiroth33: per i rabbini essoterici
sono gli attributi di Dio, ma per il qabbalista si tratta più
propriamente di potenze, o anche ipostasi, all'interno della vita
divina, prodotte attraverso un processo «emanativo» interno a Dio.
Hanno il duplice e concomitante aspetto di essenza e contenitori,
cioè nello stesso tempo identiche a Lui e da Lui separate, ma con la
particolarità di essere «senza confusione e senza distinzione».
Quand'anche non manchino i qabbalisti che non le considerano
perfettamente consustanziali con Dio, sta di fatto che non sono mai
state intese al di fuori del Regno divino. E per tutti i qabbalisti,
in definitiva, la complessità interna di Dio è tale da implicare la
distinzione nell'unità, e l'unità nella distinzione 34.
Nel sistema del
qabbalista Isaac Luria, ai prodromi del processo della creazione
le sefiroth si espandono col soffio divino e si ordinano in
quelli che metaforicamente definisce «vasi». Ma a un certo punto
essi si spezzano e la luce che contengono si espande caoticamente. In
questa deflagrazione primordiale i dispersi «elementi» vanno o
verso l'alto o verso il basso - con il formarsi, quindi, anche di
forze negative -, e comunque nulla si trova più al suo posto: è la
fine dell'unità, l'esilio dei vari «elementi». Per farla breve,
diciamo che questo caotico risultato richiede l'azione di
riunificazione, o di restaurazione, che Dio compie attraverso
l'essere umano e che si chiama tikkun.
Nel mondo ebraico il
Chassidismo fece della Qabbalah la matrice della sua etica,
dando luogo a una prassi quotidiana e comunitaria in cui a ciascuno
era affidato un tikkun personale, un contributo alla
«riparazione dell'infranto». E Buber aveva fatto del Chassidismo
una delle sue maggiori fonti di influenza, traendone l'insegnamento
che ogni vita - ogni azione umana - contiene una scintilla divina che
si può ridestare. In fondo è questo il compito che per Buber doveva
svolgere la sua comunità: comunità che finiva con l'avere un
fondamento non più solo politico, ma anche e soprattutto metafisico,
essendo chiamata a contribuire al processo di ricomposizione della
perduta unità metafisica. La comunità buberiana, quindi, come
strumento di sacrum facere, pensata in grado di eliminare (per
il suo assetto e il suo modo di essere) cause sociali e personali del
Male.
Questo non è avvenuto, e
per di più Israele si è rivelato inadeguato (a voler essere
eufemisti!) rispetto al compito che Buber aveva vagheggiato per esso.
Un notissimo detto popolare avverte che le strade per l'inferno sono
lastricate di buone intenzioni, ma se ne potrebbe coniare anche uno
opposto: le strade per i tempi nuovi sono lastricate con i fallimenti
delle buone intenzioni. Tuttavia, se si è davvero convinti, tanto
vale continuare a provarci, perché… non si sa mai.
Note
25 M. Buber,
«Distanza originaria e relazione», in Il principio dialogico e
altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 288.
26 Per quanto Colin
Ward, anarchico, non lo consideri tale, bensì parli di «socialismo
libertario»; ma qui entriamo nel campo sia delle sottigliezze
classificatrici, sia dell'atteggiamento ostruzionista di un
certo milieu anarchico verso i libertari che non si sono
distaccati dalla religione, sulla base del «dogma» - posto da
questo stesso milieu - secondo cui l'anarchico «deve»
essere ateo, con tanti saluti per il vero principio anarchico della
libertà di pensiero. Per costoro, per esempio, il Tolstoj
libertario, nemico dello Stato, della proprietà ecc., non era un
anarchico.
27 Il
primo kibbutz fu fondato nel 1909. Gli aderenti passarono
da 179 nel 1914 a 2624 nel 1927 e a 22.932 nel 1941. Ai primi del
1990 erano 124.900, ripartiti in 270 kibbutzim.
Sull'argomento si veda,
in particolare: Roberto Massari, «Sui kibbutzim (1966-1967)»,
in Dentro e oltre gli anni '60. Culture, politica e sociologia
(1960-74), Massari editore, Bolsena 2005, pp. 47-110; il saggio -
scritto fra l'autunno-inverno del '66 e gli inizi del '67 - si occupa
ampiamente delle caratteristiche dei kibbutzim presenti all'epoca, a
poco tempo dallo scoppio della Guerra dei sei giorni, che ne
modificherà sostanzialmente la natura decretando di fatto la
scomparsa della loro originaria fisionomia collettivistica.
28 A differenza di
quel che accadeva nel moshav, villaggio cooperativo in cui i soci
conservavano la proprietà individuale della terra, ma gestivano in
comune acquisti e vendite.
29 Col tempo,
tuttavia, la linea anticapitalista e comunista si è andata via via
attenuando fino all'apertura al mercato, alla proprietà e al
profitto, fino alla vera e propria privatizzazione. Originariamente i
lavori erano assegnati a ciascuno dalla comunità e il salario
(uguale per tutti) era fissato dall'assemblea, mentre adesso i lavori
sono scelti dai singoli, il salario è liberalizzato e le case sono
in proprietà privata.
30 Giora Manor, «La
natura anarchica del kibbutz», in Archivio Pinelli, aprile
2000, pp. 19-22.
31 Per tali
questioni rimando a un mio studio sulla questione palestinese, di
prossima pubblicazione su Studi Interculturali.
32 Cfr. Ferdinand
Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft (1887) [trad.
italiana: Comunità e società, a cura di Maurizio Ricciardi,
Laterza, Roma 2011].
33 Sono dieci: Keter
Elyon (Corona Suprema),Hokhmah (Sapienza),Binah (Intelligenza),Hesed
(Amore) o Gedullah (Grandezza), Gevurah (Potere) o Din
(Giudizio),Tiferet (Bellezza) o Rahamim (Compassione),Nezah
(Costanza), Hod (Maestà),Zaddik (Giusto, Virtuoso) o Yesod Olam
(Fondamento del Mondo), Malkhut (Regno) o Atarah (Diadema).
34 Sull'argomento si
vedano: G. Scholem, Le origini della Kabbalà, Il Mulino,
Bologna 1974; Id., La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi,
Torino 1980; Id., Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del
linguaggio, Adelphi, Milano 1998; Roberta Simini - Alberto De
Luca, In principio era Dio. Unità e complessità del concetto
di Dio nell'esicasmo cristiano, nella quabbalah ebraica e nel sufismo
musulmano, Laterza, Bari 2004.
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