Il mito del paese
della Cuccagna nell'immaginario popolare di un'Europa contadina è l'argomento di una interessante mostra al Castello
Sforzesco di Milano.
Claudio Corvino
Una dieta
pantagruelica
«Il piacere degli
occhi e la bellezza delle cose – scriveva lo
storico Braudel – nascondono i tradimenti
della geologia e del clima, e fanno dimenticare
che il Mediterraneo non è mai stato un paradiso
offerto gratuitamente al diletto dell’umanità».
La frugalità e moderazione contadina che noi oggi chiamiamo semplicemente «dieta mediterranea», prima che mito identitario era la dura condanna di esseri umani premoderni che conoscevano la fame, le carestie e i loro corollari di guerra e malattia.
Se le storie e i
rituali che ancor oggi i Carnevali europei
raccontano di grandi abbuffate, di pantagruelici
pranzi, di pance piene fino a scoppiare è perché
conservano memoria di quando, almeno una volta
nell’anno (semel in anno…), si voleva vivere una realtà
diversa, azzerando i normali scenari di vuoto
gastrico in favore di un mondo compensativo, onirico
e rituale che capovolgesse la realtà.
In una simile realtà si
fecero strada, tra alienazione e frustrazione,
i vissuti onirici di un mondo subalterno alla
disperata ricerca di conforto e sollievo in
luoghi immaginari, paradisi perduti tra le
pieghe e le piaghe di una vita tanto dura quanto
incomprensibile.
Fuori dalla storia reale, gli abitanti del Mediterraneo e dell’intera Europa crearono il potente sogno compensativo di un mondo dove scorreva ogni bendidio, dove tutti i desideri alimentari venivano soddisfatti e, sogno nel sogno, dove non si invecchiava mai e non si lavorava.
Un paese come quello – ma qui siamo in una versione edulcorata ad uso della letteratura per l’infanzia – che secoli dopo Lucignolo potrà descrivere a Pinocchio: «Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre».
Questo potente mito,
questo affascinante luogo posto «tre miglia dietro
Natale… a sinistra, vicino al Paradiso» cui si
accede dopo aver mangiato sterco tutta la vita, racconta
significativamente un canto tedesco del
Seicento, è conosciuto come Paese di Cuccagna,
o nelle sue varianti locali Scharaffenland,
Lubberland, Luilekkerland o Paese del
Prete Gianni, come ancor oggi è noto in Ungheria. Che
questo fantastico mondo abbia una sua geografia
e una rappresentazione definita, lo si
può vedere «dal vivo» nelle sale della mostra Il mito del Paese di
Cuccagna. Immagini a stampa dalla Raccolta
Bertarelli, nella Sala Viscontea del Castello
Sforzesco di Milano (visitabile fino all’11
ottobre prossimo).
La rassegna,
curata da Giovanna Mori e Andrea Perin in
collaborazione con Alberto Milano e Claudio
Salsi, racconta il Paese di Cuccagna attraverso
oltre centocinquanta opere databili dal XVI al XX
secolo, periodo d’oro dell’iconografia di questo paradiso
subalterno. Le tematiche più rilevanti sul
complesso problema del brioso Paese e sulla
diffusione delle sue stampe sono trattate nel
catalogo (edizioni ETS, Pisa) che accompagna la
mostra, curato dagli stessi studiosi citati e che
presenta, tra l’altro, un’inedita geografia (di
Claudio Salsi) delle cascine milanesi dai nomi bizzarri,
evocanti l’abbondanza o la miseria: da «Cuccagna»
a «Mancatutto».
Come si comprenderà
dalle varie stampe in esposizione e dalle analisi
elaborate nel catalogo, la storia del Paese di
Cuccagna non riguarda solo l’iconografia «popolare»
e la sua diffusione, ma anche quella della mentalità
e l’antropologia europea tout court.
Se il termine
Cuccagna lo ritroviamo per la prima volta nel 1142
e poi in un poema goliardico del 1164 (i Carmina
Burana), dove apprendiamo dell’esistenza di un abbas
Cucaniensis, la prima descrizione del mitico Paese
l’abbiamo alla metà del XIII secolo in un fabliau di origine
piccarda. In questo buffo racconto in versi, un
giovane racconta di un pellegrinaggio
ordinatogli dal papa in una regione «benedetta
e consacrata più di ogni altra contrada». Qui
«più si dorme più si guadagna», tant’è vero che «chi
dorme sino a mezzogiorno, guadagna cinque
soldi e mezzo». E i muri delle case son fatti «di
spigole, di salmoni e di aringhe, i tetti di
prosciutti e i correnti di salsicce».
In questo carosello
culinario, incuranti del pericolo, sprezzanti
del dolore, si rosolano ben pasciute oche «che girano da sole
su se stesse», i fiumi sono fatti di vino e, cosa
importantissima, non si lavora mai. Inoltre,
vento rigenerante e godibilissimo,
«ogni peto vale un tallero».
In questi giorni e in un’Europa che molti considerano divisa tra un Nord e un Sud rispettivamente abitato da lavoratori produttivi e infaticabili e poltroni nullafacenti aspiranti a un favoloso paese di Cuccagna, è un momento quanto mai opportuno e attuale per osservare le opere a stampa della mostra milanese e riflettere sulle loro implicazioni culturali.
Aleggia nuovamente
per l’Europa infatti lo spettro razzista di un
determinismo ambientale che vuole –
contrariamente all’opinione di Braudel – che
sia a causa della loro indole «cuccagnesca» che
i paesi del Sud (in primis la Grecia) non
riescano a risollevarsi
economicamente.
Concezioni, queste, che sembrano riportarci intorno al XIII secolo quando, parallelamente alla nascita del Paese di Cuccagna, è al culmine la riabilitazione del concetto di lavoro (quel lavoro che, ricordiamolo, fu la conseguenza del peccato di Adamo e Eva) il quale, grazie alle nuove necessità dello sviluppo agricolo e urbano, assumerà progressivamente tratti estremamente positivi: è l’epoca in cui si diffonde il proverbio «il lavoro supera la valentìa».
Concezioni, queste, che sembrano riportarci intorno al XIII secolo quando, parallelamente alla nascita del Paese di Cuccagna, è al culmine la riabilitazione del concetto di lavoro (quel lavoro che, ricordiamolo, fu la conseguenza del peccato di Adamo e Eva) il quale, grazie alle nuove necessità dello sviluppo agricolo e urbano, assumerà progressivamente tratti estremamente positivi: è l’epoca in cui si diffonde il proverbio «il lavoro supera la valentìa».
Siamo in quel delicato
e lungo momento di transizione dalla società
feudale medievale a quella moderna borghese,
quando cioè il nuovo rapporto merce/denaro, i nascenti
capitali commerciali e l’economia urbana mutano
non solo l’assetto e i rapporti di potere degli abitanti
delle nascenti città, ma anche il carattere del lavoro umano in
tutta Europa.
Se nel sistema agrario
feudale, in condizioni servili, la produzione
era limitata al soddisfacimento dei propri
bisogni alimentari, all’alba del mondo moderno il
ricavato del lavoro, a causa della sua trasformazione
in denaro, è moltiplicabile al di là di
ogni limite.
È così che la pigrizia, l’ozio, diviene il «padre dei vizi», mentre in quel «mondo alla rovescia» che è Cuccagna sarà la vera fonte di guadagno.
Nei fabliaux trecenteschi, sotto le complesse forme contestative della parodia letteraria, è presente anche l’eco di alcuni ambienti religiosi contrari al prestito ad interessi. Come ci ha mirabilmente mostrato Jacques Le Goff, l’usuraio è infatti colui che si arricchisce dormendo perché è il suo denaro che «lavora» per lui, che «più dorme e più guadagna».
Di fronte all’attuale
circolazione di «mitologico» denaro
sotto forma di prestiti tra banche centrali e Stati,
alle forme moderne di usura e di speculazioni
finanziarie, quale momento migliore per visitare una
mostra sul Paese di Cuccagna? Magari soffermandosi
sul tramonto del suo mito, ben raffigurato nella
stampa di Giuseppe Maria Mitelli del Gioco di Cuccagna
del 1691, dove l’utopia contestativa delle classi
subalterne europee viene ridotta a una banale
e innocua Expòsizione gastronomica.
Il Manifesto – 15 agosto 2015
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