Riprendo dal sito http://www.minimaetmoralia.it/ l' intervista di P. Zanuttini al famoso regista:
Tutto su me stesso: intervista a Marco Bellocchio
Il regista riconosce che il suo cinema non si presta alle sinossi e che anche le sceneggiature non sono tanto esaustive. «Con Sergio Castellitto abbiamo fatto due film, ma in seguito mi ha detto che leggendo i copioni non aveva capito niente. In Sangue del mio sangue a volte saltano le coordinate: se facessi un film americano filerebbe tutto, invece qui ci sono anche delle incongruenze, ma non è detto che i film preparati con grande meticolosità siano i migliori».
No, M.B. non è un regista americano, lui è piacentino. E il fatto che abbia girato questo film a Bobbio, piccola città in Val Trebbia, nella casa estiva di famiglia che già nel 1965 aveva usato come set di I pugni in tasca, e poi di Sorelle e Sorelle Mai, è un indizio. Siamo dentro un flusso di coscienza tra vicende personali e artistiche. Per realizzare l’ennesimo capitolo di un’autonarrazione infinita, ha riunito a Bobbio la sua famiglia naturale ed elettiva di attori: i figli Pier Giorgio ed Elena, futura architetta e saltuaria nei cast paterni, il fratello poeta Alberto, Alba Rohrwacher, Filippo Timi, Lidiya Liberman, Tony Bertorelli ed Herlitzka, che sembra riprendere il ruolo di Aldo Moro in Buongiorno notte. Là sopravvive alle Brigate rosse e qui al progresso, dispensando al popolo piccoli favori, pensioni d’invalidità. È il revenant di un potere antico e vacillante dall’inequivocabile sapore democristiano.
A Bobbio, Bellocchio torna quasi tutte le estati, da anni. Tiene un laboratorio per i giovani, Fare Cinema, e organizza un festival. Fare Cinema ha prodotto esperimenti poi diventati veri film, come la saga delle sorelle Mai, che naturalmente sono le sorelle del regista prestate al cinema: stesso cognome del protagonista di Sangue del mio sangue. Anche questo ha un’ origine laboratoriale. «Cercavo nuove location, non posso mica girare sempre a casa nostra, e scoprii queste carceri abbandonate. Ho pensato di ricreare la vicenda della monaca di Monza, che mi ha sempre affascinato. Però mentre Gertrude, anche lei murata viva, si pente e una volta liberata finisce la vita in odore di santità, Benedetta, dopo tanti anni di prigione, non è pentita: quando il muro viene fatto abbattere da Federico, nel frattempo diventato cardinale, riappare ancora giovane e bellissima. A lui viene un colpo apoplettico. Il film nasce da questo frammento».
Già nel 2006 la monaca di Monza aleggiava su Il regista di matrimoni (il secondo film di cui Castellitto non aveva capito la sceneggiatura, il primo era L’ora di religione), ma anche la storia dei gemelli non è nuova. È personale, molto personale, e dolorosa: anche Bellocchio aveva un gemello. Suicida per amore. «Tanti anni fa l’avevo affrontata, ma in modo troppo diretto, con Gli occhi, la bocca. Non sono mai stato contento di quel film, allora ho ripreso questa mia tragedia in modo più indiretto. Mi piaceva raccontare del gemello sopravvissuto che si vendica. Prima s’innamora della donna che ha portato alla rovina suo fratello, poi nel momento più importante si ritira, scappa e la fa condannare. Ma lei lo aspetta e lo uccide mentre lui compie l’azione benevola di liberarla».
Bellocchio è riservato, quasi brusco, ma da mezzo secolo non fa che raccontarsi, inondando i suoi film di elementi autobiografici: hanno certo un valore universale, ma la riservatezza non l’ha mai indotto a censurarsi, esporsi meno? Lui, che ha appena finito di girare Fai bei sogni dal libro superintimista di Massimo Gramellini, ammette la contraddizione e il rischio. «È vero, pudore e interesse di sé sembrano inconciliabili, comunque non vedo molte possibilità: o continuare per la mia strada o rinunciare alla soggettività come tanti grandissimi artisti e tornare a uno stile oggettivo. Ma quello che sono emerge in qualsiasi film, anche se ne facessi uno su Napoleone. Non è un problema di cinema ombelicale, ma di sensibilità, immaginazione, sguardo».
E il cordone ombelicale con Bobbio è reciso o no? In Vacanze in Val Trebbia, del 1980, diceva di voler tagliare i ponti, ma un amico gli rispondeva che tanto, da vecchio, sarebbe ritornato. Adesso che ha 75 anni non vuol sentir parlare di crepuscoli e partite a briscola. «Vent’anni fa sono tornato dopo tanto tempo per l’occasione-pretesto della nascita di mia figlia e allora la città mi chiese se volevo tenere un corso. La possibilità di fare il mio lavoro non ha giustificato, ma motivato il ritorno. Nei quindici giorni estivi in cui sono a Bobbio ci sono il festival, il laboratorio e nessuna nostalgia».
La pervasività di Bobbio nella sua opera suggerirebbe altre interpretazioni oltre quella che, da I pugni in tasca in poi, ha sempre dichiarato: motivi pratici, economici, conoscenza dei luoghi. Non ci si bagna due volte nello stesso fiume, ma nel Trebbia Bellocchio continua a immergersi e a filmare. «Senza il Trebbia per me Bobbio sarebbe molto meno attraente. Sono più da fiume che da mare, è lì che ho imparato a nuotare, che ho visto i primi corpi delle ragazzine. E poi l’acqua è pulita, gli ospiti romani sono sempre colpiti dalla sua limpidezza. Ma la trovano fredda».
A Bobbio, che diede i natali a suo padre avvocato, Bellocchio si sente benvoluto. Quando ci fu la presentazione di I pugni in tasca, dove un figlio psicolabile con un’etica da ribelle nazista ammazza la madre cieca e il fratello disabile, la proiezione andò così bene che con gli incassi fu acquistata un’ambulanza. Nessuno, in pubblico, protestò o giudicò offeso l’onore cittadino. E il quotidiano di Piacenza Libertà titolò La pia Bobbio sbigottita. Sbigottita, sottolinea lui, non indignata. E di nuovo, prima che Sangue del mio sangue vada alla Mostra di Venezia, I pugni in tasca rioccupa la scena: al festival di Locarno, che cinquant’anni fa lo presentò e lo premiò, il 14 agosto sarà proiettata in Piazza Grande la versione restaurata del film. E al regista verrà consegnato il Pardo d’onore.
Quel debutto fulminante a 26 anni è stato anche un peso? «Dopo sì, probabilmente. Lo concepii a Londra: avevo preso il diploma di regia alla Slade School e seguendo la mia tendenza all’isolamento, non volevo, sbagliando, seguire la trafila classica da ultimo assistente in su, ma capivo anche di dover fare un film che sentissi e potessi realizzare. A basso costo. E venuta così la storia della mia famiglia trasfigurata». Furono i fratelli Antonio e Piergiorgio, fondatore dei Quaderni Piacenti, a fargli da garanti per un prestito alla Banca Commerciale. «Vedendo il girato, mi resi conto che non potevo affrontare da solo il montaggio e mi affidai un po’ troppo a Silvano Agosti, mio compagno al Centro Sperimentale. In seguito mi è stato chiesto di chi era il film. Poi, forse per fragilità di carattere, quando è arrivato il successo internazionale, con la gente che mi attribuiva cose che non avevo mai pensato, non potevo reggere.
Il film successivo, La Cina è vicina, voleva essere una dimostrazione che questo mestiere lo sapevo fare ed ebbe enorme successo: in Italia, più di I pugni in tasca. Poi arrivò la crisi, il Sessantotto, la messa in discussione del mio status borghese. Dovevo cambiare e, sbagliando ancora, annullare la mia identità di artista. Allora era così. Diedi anche qualche milione all’Unione dei marxisti-leninisti, ma un po’ di prudenza, forse contadina, mi ha protetto: se chiedevano altri soldi mi giustificavo dicendo che il patrimonio di famiglia era indiviso, non lo potevo toccare. Quella stagione durò poco, non ero tanto coinvolto: anni dopo incontrai alcuni ex che odiavano i leader, volevano ucciderli. Io no».
La famiglia (borghese) disfunzionale che produce follia, è uno dei temi forti e ricorrenti di Bellocchio: è ora che racconti la sua. «Nove figli: visto che il primogenito era nato con gravi problemi psichici, mio padre volle una famiglia numerosa, per sopperire. Ma la secondogenita, intelligentissima, è sordomuta e anche un’altra sorella è abbastanza problematica: di fatto, sono state costrette a rimanere in casa. Questo mio fratello ci spaventava, urlava, noi altri ci chiudevamo nelle stanze più lontane per non sentirlo. Sono angosce finite anche nei miei film». Si vergognava di quel fratello? Fa la faccia di uno che vuol dire di no, ma poi ammette: «Girava per le vie di Piacenza parlando da solo a voce alta, in chiesa cantava in modo particolarmente stonato e quando portavo a casa gli amici avevo paura che si comportasse male. Per questo in prima liceo andai in collegio, al San Francesco di Lodi, dai padri barnabiti. Stavo meglio lì che a casa».
Tenendo conto dei segnali disseminati in tanti film, qualche conto in sospeso con la figura materna sembra inevitabile: «Mia madre si è trovata ad affrontare un compito superiore alle sue forze: mio padre gestiva l’aspetto economico, pratico, lei si appoggiava molto alla religione. Quando mio padre è morto a 56 anni, Piergiorgio, a 25, si è assunto la gestione del patrimonio che ci ha permesso di studiare».
Nel 1974, realizza con Agosti, Rulli e Petraglia O nessuno o tutti, epocale documento sulla malattia mentale. In quel clima di accesa antipsichiatria la parola d’ordine è la malattia mentale è una risposta sana a una società malata,
ma lui non la vede così: «Sono più in linea con chi definisce il folle
un ribelle che ha fallito nella sua ribellione. Nella follia vedo
disperazione, aridità, deserto, però mi ha sempre interessato». Non sa
dire se con un’infanzia più serena ci sarebbe stato I pugni in tasca
e tutto il resto. Succede che uno racconta quello che gli è capitato.
Quando faceva il pittore lo attraeva l’espressionismo. «Poi questo tipo
di nero ho sempre cercato di ribaltarlo e di ribellarmi alle mie
disgrazie. Da piccolo, con il misticismo, ma è passata presto e, da
giovane, seguendo le orme di mio fratello Piergiorgio: la cultura e la
politica, più che altro bordeggiata – senza leggere una pagina del Capitale
– tranne i pochi mesi con i marxisti-leninisti. Perché uno va con i
marxisti-leninisti? Perché il suo mondo, esterno e interno, non gli sta
bene, c’è questo non accettare. È un po’ una costante che segna il mio
lavoro e, in senso anche moralistico, la mia lunga esperienza
nell’analisi collettiva con Massimo Fagioli, dopo che quella individuale
si era dimostrata impotente».
La discussa fase con Fagioli, che ha influenzato alcuni suoi film, meno fortunati di altri, a eccezione di Diavolo in corpo.
Ma c’era anche un bisogno di espiare la celebrità, l’essere personaggio
e le lusinghe del potere in quelle analisi collettive? Lui risponde che
il discorso sull’uguaglianza è un calderone, c’è dentro tutto, anche le
radici cattoliche. Ma all’essere personaggio non ha mai dato
importanza: «So che non è niente». È una storia finita, con i fagiolini,
ma gradualmente. «Sentivo, ma posso anche aver sbagliato, che le mie
immagini e i miei progetti iniziavano a entrare troppo nell’analisi
collettiva. Arricchiti forse, ma anche puntualmente interpretati
attraverso i sogni dei pazienti e per me, evidentemente non ancora
libero dai conflitti, giudicati». Ancora una volta la libertà
dell’artista che si sente minacciata.Nel 1996, il primo passo della separazione è Il principe di Homburg, da Kleist: un manifesto della giusta disobbedienza. Le sedute di gruppo e le sue dinamiche cominciano a pesargli: «Nel 2011, quando a Venezia mi fu dato il Leone d’oro alla carriera, pronunciai quattro parole di ringraziamento senza citare Fagioli e l’analisi collettiva: avevo già smesso di frequentarla, ma so che questa omissione fu aspramente disapprovata». Anche a proposito di Vincere, il film del 2009 sulla moglie e il figlio segreti del duce, ci furono obiezioni: «Veniva fuori, sempre dai sogni, che per me Mussolini era Massimo Fagioli e quindi qualche compagno sosteneva che non avrei dovuto fare il film perché era un attacco a Fagioli, alla sua immagine. Un’affettuosa censura. Non rinnego nulla di quell’esperienza, ma ho preferito separarmene».
Il ragazzo prodigio che si scagliava contro la famiglia, il potere, l’individualismo borghese, adesso è un padre, un nonno, un regista, un Maestro, un produttore, di fatto un patriarca che nei suoi film dirige il figlio (che gli assomiglia sempre più) e riunisce altri parenti che attori non sono. Non è un’accusa di familismo, ma lui risponde in difensiva, e giustamente, che chi porta il suo cognome non deve essere penalizzato. Poi conviene che verso le persone con cui si è vissuta tanta vita c’è, se non una debolezza, una sensibilità particolare: «Un’apprensione, non solo per i più giovani, ma anche per i più vecchi. Pier Giorgio ha fatto un ottimo lavoro, ma conoscendolo profondamente ho cercato un personaggio che corrispondesse a quello che poteva restituire. Sì, c’è un’attenzione speciale che però non sottovaluta mai la sua libertà e una naturale prospettiva di separazione. Perché i padri muoiono. E comunque i figli, per usare un’espressione un po’ vieta, devono ucciderli».
Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. (Fonte immagine)
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