25 agosto 2015

STORIA DEL BIKINI



Ha origini romane il costume che dal 1946 veste le donne sulle spiagge di tutto il mondo. Agli inizi fece tanto scandalo da causare persino uno sciopero delle modelle che rifiutarono di indossarlo nelle prime sfilate parigine.

Michela Ciavarella

Bikini. Il costume post atomico

Gra­zie alla totale incer­tezza sulla sua data di nascita e sul suo uso, il bikini è adatto a entrare nella clas­si­fica delle cose intra­mon­ta­bili. Ha, infatti, tutte le carat­te­ri­sti­che delle dive di cui sono vaghe la pro­ve­nienza e la data di nascita e che restano per sem­pre ado­rate, cono­sciute e vene­rate, come la Lola Mon­tés di Max Ophüls o Elina Makro­pou­los di Leoš Janáček, per­so­naggi inven­tati ma reali quanto le loro sto­rie. Come loro, il bikini è vene­rato per i suoi meriti incerti.

Al pari di molte sto­rie che sono scop­piate nella moda, infatti, il bikini ha un’origine tutta con­fusa e pre­te­stuosa, dovuta un po’ alla sem­pli­fi­ca­zione gior­na­li­stica e molto anche al disin­te­resse gene­rale della cul­tura uffi­ciale per le cose della moda. Più recen­te­mente, è suc­cesso anche alla mini­gonna, che si dice sia stata inven­tata dall’inglese Mary Quant ma era già stata dise­gnata e pro­dotta anni prima da André Cour­rège e Paco Rabanne che ave­vano, per quell’epoca di domi­nio cul­tu­rale della Swin­ging Lon­don, il difetto di lavo­rare a Parigi.

La leg­genda metro­po­li­tana, che tutti sanno ripe­tere a memo­ria, dice che il bikini è nato il 5 luglio del 1946, inven­tato da un sarto fran­cese, tale Louis Réard, sco­no­sciuto allora quanto è sco­no­sciuto oggi. Il quale deve avere appro­fit­tato, in tempo record, della noti­zia dei primi espe­ri­menti nucleari con­dotti dall’esercito ame­ri­cano in Micro­ne­sia dove, pro­prio agli inizi di luglio di quell’anno, ven­gono sgan­ciate ben due bombe all’idrogeno sull’isola di Bikini, che si trova in quell’arcipelago.

La sto­ria ha una sce­neg­gia­tura epica che, fran­ca­mente, sarebbe più degna di un com­mer­cial per un dado da brodo. E se gra­zie a essa Réard ha potuto dare il nome Bikini alla sua inven­zione di moda (che oltre­tutto, si dice, le modelle ave­vano rifiu­tato di indos­sare e, per poterlo mostrare, il sarto è stato costretto a chia­mare Miche­line Ber­nar­dini, una spo­glia­rel­li­sta del Casino de Paris), l’indumento ha pro­vo­cato una defla­gra­zione simile a una bomba in una società che era diven­tata stra­na­mente pudica e ben­pen­sante in fondo sol­tanto da poco più di un secolo.

L’intuizione di chi ha scritto que­sta fra­gile sto­ria che sa di luogo comune, attri­bui­sce anche a un tale Jac­ques Heim l’invenzione pre­ce­dente di un costume da bagno che si chia­mava Atollo (ancora un richiamo alla bomba all’idrogeno) per­ché era il più pic­colo costume da bagno del mondo ma comun­que era un pezzo intero. Réard l’ha reso ancora più pic­colo stac­can­dolo addi­rit­tura in due pezzi.

Fatto è che da allora a oggi, il bikini è sem­pre pre­sente, intra­mon­ta­bile costume da bagno da spiag­gia e da piscina, fetic­cio dell’erotica maschile, indi­spen­sa­bile indu­mento fem­mi­nile e sor­pren­dente trap­pola di stile, autore degli ine­ste­ti­smi e delle clas­si­fi­che delle “peg­gio vestite” di ogni sta­gione che, per puro voye­ri­smo, aumen­tano le pagine viste dei siti dei bla­so­nati gior­nali di news e dei maga­zi­nes di gos­sip da spiag­gia, ita­liani soprattutto.
    Mosaici di Piazzale Armerina 

In realtà, tutta que­sta pro­pa­gan­data novità il bikini non la pos­siede. Non la pos­siede certo la sua forma, di cui si ha noti­zia sto­rica in qual­che bas­so­ri­lievo meso­po­ta­mico del 1400 aC. La sua rap­pre­sen­ta­zione più cono­sciuta si trova nei mosaici del III secolo della Villa del Casale a Piazza Arme­rina, in Sici­lia, dove le “Fan­ciulle in Bikini”, cono­sciute anche come le Bagnanti – impro­pria­mente per­ché all’epoca caso­mai si nuo­tava nudi – deco­rano i pavi­menti della pale­stra. Quindi, vero­si­mil­mente, una fascia sul seno e qual­cosa che suona come l’antenato delle mutande odierne in quell’epoca meno pudica ser­viva alla ragazze per fare sport e non certo per fare il bagno (oggi Eres, un mar­chio fran­cese, ne fa una linea molto simile).

Poi, evi­den­te­mente, la sto­ria si è dimen­ti­cata di quell’immagine e tutto ciò che ci rimanda al bikini ci arriva da un’epoca molto recente, l’inizio del Nove­cento, il secolo scorso. Ed è, più o meno, legato alla guerra (che è un mondo di maschi) e all’illustrazione di un imma­gi­na­rio ero­tico che, nelle inten­zioni, doveva tenere alto lo spi­rito dei sol­dati o, quan­to­meno, ser­vire da val­vola di sfogo imma­gi­na­rio capace di tenere lon­tane e distac­cate le fisi­cità di troppi uomini soli rin­chiusi in caserma: quando quelle imma­gini non basta­vano, suc­ce­deva quello che Gore Vidal rac­conta in La sta­tua di Sale, con il con­se­guente allarme di “messa in peri­colo” per la masco­li­nità mon­diale.

Forse fu anche per scon­giu­rare la dif­fu­sione dei troppi nume­rosi epi­sodi sco­perti di un came­ra­ti­smo sem­pre più fisico e affet­tuoso tra i sol­dati che, agli inizi degli anni Qua­ranta e poi di più con l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, le famose pin up ven­gono dise­gnate sem­pre più spesso con meno vestiti addosso, sem­pre meno con lin­ge­rie e reg­gi­seni e culotte e sem­pre più con un misto di indu­menti che ricor­da­vano sì la culotte ma sem­bra­vano pan­ta­lon­cini, sape­vano sì di reg­gi­seni, ma sem­bra­vano cami­cette anno­date sotto al seno, ave­vano sì l’aspetto discinto, ma erano comun­que com­pa­ti­bili anche come indu­menti da indos­sare in loca­lità al caldo, in Cali­for­nia soprat­tutto.

È in que­sti anni che i dise­gna­tori Gil Elv­gren, Frahm Arte, George Petty e Alberto Var­gas, già attivi durante la “Pin up gol­den age”, e cioè dagli inizi degli anni Trenta e per tutti i Qua­ranta, met­tono per così dire il costume da bagno Bet­tie Page, che soli­ta­mente indos­sava cor­setti e guȇ­pière. Cioè, comin­ciano a dise­gnare le donne con quella forma di indu­mento che, alla fine della guerra, doveva ino­pi­na­ta­mente assu­mere il nome di bikini.

Certo, nulla a che vedere con il modello che cono­sciamo oggi che, sem­mai, è più simile a quello delle fan­ciulle di Piazza Arme­rina. Il “due pezzi” dise­gnato sulle Pin up incol­late sulle ali degli aerei bom­bar­dieri ave­vano culotte alte fino a sopra i fian­chi e un reg­gi­seno che scen­deva fino a sotto le costole. Rima­neva sco­perto l’ombelico, punto cen­trale della figura umana che, chissà per­ché, per gli uomini diventa sexy se è quello di una donna.

Que­sta visione maschi­li­sta della moda, che non è asso­lu­ta­mente rara, ha comun­que por­tato al suc­cesso la nuova bomba del guar­da­roba fem­mi­nile, tanto che a par­tire dagli Anni 50 le donne hanno cre­duto che potesse essere uno stru­mento per la loro libe­ra­zione sia ses­suale sia di genere. Tanto è vero che negli Usa, e ovvia­mente ver­rebbe da dire, ne fu vie­tato l’uso sulle spiagge o in luo­ghi pub­blici.

Anche se, molti anni prima, fu pro­prio il sogno ame­ri­cano di Hol­ly­wood che aveva fatto tra­pe­lare le foto delle sue dive in alle­va­mento nelle ville di Beverly Hills, di pro­prietà delle case di pro­du­zione, pro­prio con costumi da bagno simili ai bikini e ada­giate come sta­tue di dee attorno alle piscine. Del resto, Hol­ly­wood doveva comin­ciare a ven­dere una mito­lo­gia e quelle imma­gini, seb­bene fatte fil­trare ad arte, a quello ser­vi­vano.
    Rita Hay­worth

Intanto, men­tre la regina del nuoto sin­cro­niz­zato Esther Wil­liams si rifiuta di indos­sare il due pezzi nei suoi film per tutti gli anni Cin­quanta, Rita Hay­worth già si fa foto­gra­fare con l’ombelico sco­perto nel 1946: ma lei era pec­ca­mi­nosa per natura e, soprat­tutto, nella fan­ta­sia dei sol­dati era già una bomba ato­mica anche con l’abito da sera. Comun­que, gli Stati uniti proi­bi­rono espres­sa­mente l’uso del bikini alle par­te­ci­panti al con­corso di Miss Mondo del 1951. Il senso ame­ri­cano della pru­de­rie non può sop­por­tare che la nudità, o la quasi nudità, che con­sente il bikini possa essere sdo­ga­nata da una moda che men­tre lascia il corpo delle donne quasi com­ple­ta­mente sco­perto dà l’alibi che deriva dall’uso spe­ci­fico in spiag­gia o nelle piscine, che in Ame­rica sono sem­pre state di moda, e non solo in Cali­for­nia.

Così, se Pin up e addi­rit­tura le dive del bon­dage, come Bet­tie Page e le sue epi­goni, pos­sono essere auto­riz­zate a esi­birsi con bustier, culot­tes ridot­tis­sime, sot­to­ve­sti e tutto il resto degli indu­menti che appar­tiene al mondo della lin­ge­rie, l’esibizione delle donne in bikini disturba quel comune senso del pudore che è sem­pre dif­fi­cile defi­nire. Soprat­tutto in un Paese che è nato facendo dei vizi pri­vati e delle pub­bli­che virtù più una fede che una cul­tura.

Alla fine, la libe­ra­zione di un indu­mento così pec­ca­mi­noso arriva più dall’accettazione sociale del voye­ri­smo maschile che da una presa di coscienza sulla libertà fem­mi­nile. La riprova è che men­tre i costumi da bagno delle donne negli anni con­ti­nuano a ridursi, fino al far cadere il reg­gi­seno con la nascita del topless e fino a ridurre lo slip al tanga o al peri­zoma, il costume da bagno maschile diventa sem­pre più coprente: pas­sata l’epoca dello slip e rele­gato il famoso modello Speedo all’attività spor­tiva nelle piscine olim­pio­ni­che, oggi la mag­gior parte degli uomini ete­ro­ses­suali usa pan­ta­lon­cini di media lun­ghezza, dallo short al ber­muda da surf, e si stende a pren­dere il sole accanto a donne ete­ro­ses­suali semi­nude. Un po’ di mali­zia porta a dire che gli uomini, con­tra­ria­mente alle donne, non sop­por­tano la valu­ta­zione pub­blica delle loro forme anatomiche.
    Sofia Loren Miss Eleganza 1950

Ma pro­se­guendo con la sto­ria del bikini, in Europa tutto va più liscio, secondo il per­corso in discesa che di solito nel Vec­chio Con­ti­nente hanno sem­pre avuto le nascite delle mode. In Ita­lia, con­tra­ria­mente a quanto si possa pen­sare, Lucia Bosé si fa vedere in due pezzi da edu­canda, avendo l’ombelico appena coperto, al con­corso di Miss Ita­lia del 1947, che vince. E Sofia Loren (allora ancora con la f e non ancora con la ph) nel 1950 vince il titolo di Miss Ele­ganza indos­sando un bikini di raso.

La bom­ba­stica bel­lezza della Loren, non ancora diva ma già molto bella, sdo­gana il due pezzi anche Oltreo­ceano. Almeno al cinema, visto che in Ame­rica nel 1953 esce Nia­gara di Henry Hatha­way e Jean Peters appare in un due pezzi scan­da­loso, men­tre la sua copro­ta­go­ni­sta Mari­lyn Mon­roe era già in bikini sulla coper­tina di Pic­ture Post nel 1949 e arri­verà in mono­kini (cioè il bikini senza reg­gi­seno) in Something’s Got to Give del 1962 by Law­rence Schil­ler, il suo ultimo film nean­che finito di girare.

Ma ad aprire com­ple­ta­mente il mer­cato ame­ri­cano, visto che in Europa un mer­cato c’era già da metà Anni 50 gra­zie alla spre­giu­di­ca­tezza delle spiagge di Saint Tro­pez, è l’uscita di Et Dieu créa la femme di Roger Vadim che arriva sugli schermi ame­ri­cani nel 1958 (in Ita­lia è uscito, come in Fran­cia, nel 1956 con l’orrendo titolo Piace a troppi) con la finta inno­cenza di Bri­gitte Bar­dot.

A quel punto, Itsy Bitsy Tee­nie Wee­nie Yel­low Polka Dot Bikini, la can­zone di Brian Hyland del 1960, fa il resto. Il suc­cesso è com­ple­tato da Ursula Andress, mai più supe­rata Bond Girl in Agente 007 Licenza di ucci­dere del 1962. Che poi tutte le donne del mondo, per indos­sarlo libe­ra­mente sulle spiagge, abbiano dovuto aspet­tare ancora qual­che decen­nio, e la foto sui roto­cal­chi della prin­ci­pessa Mar­ga­ret d’Inghilterra già duchessa Sno­w­don che pren­deva il sole in bikini sullo yacht dell’Aga Khan in Sar­de­gna, è un altro discorso. Ma qui siamo già agli inizi degli Anni 70.

La moda, quella dei cou­tu­rier e dei desgner, arriva a occu­parsi del bikini molto tardi. In realtà, lascia il campo alle aziende spe­cia­liz­zate in cor­set­te­ria che aggiun­gono reparti e mac­chine per la pro­du­zione di reg­gi­seni pre­for­mati, con le coppe a cuore, a bal­con­cino, con o senza spal­line, che sono in tutto simili ai reg­gi­seni dell’underwear tranne che per le fan­ta­sie e i tes­suti. L’utilizzo in massa della fibra Ela­stam (che comu­ne­mente tutti chia­mano Lycra dal nome che le ha dato la DuPont, il pro­dut­tore più famoso, nel 1960) per­mette una model­li­stica più facile, con il van­tag­gio di una mag­giore imper­mea­bi­lità e velo­cità di asciu­ga­tura.

Non è che i fashion desi­gner si pre­oc­cu­pano molto di que­sto indu­mento che, dagli Anni 70 in poi, spo­pola sulle spiagge mon­diali: la moda sop­porta poco il nudo e il caldo, pre­fe­ri­sce eser­ci­tarsi sul coperto e sulle tem­pe­ra­ture più basse. A meno che non si par­lasse di avan­guar­dia. In quel caso, la fan­ta­sia dei fashion desi­gner cor­reva più della realtà. Tanto è vero che, Rudi Gern­reich, ebreo austriaco natu­ra­liz­zato ame­ri­cano e tra i primi atti­vi­sti della libe­ra­zione omo­ses­suale, dopo aver smesso di fare il bal­le­rino con la Lester Horton’s Modern Dance Com­pany a Los Ange­les nel 1942, diventa un pre­mia­tis­simo fashion desi­gner e, met­tendo a frutto la sua espe­rienza anche come dise­gna­tore di costumi per il bal­letto, già nel 1964 pre­senta il primo mono­kini, indos­sato dalla modella Peggy Moffitt.

Da allora, tutto si mischia e si tra­sforma velo­ce­mente. Le dimen­sioni si ridu­cono, l’immaginario del bikini da spiag­gia si con­fonde con quello dei set del por­no­mo­vie, i mate­riali diven­tano tec­no­lo­gici, la moda pre­tende il ritorno al costume da bagno intero e, spesso, dalle forme spor­tive, e le donne di tutto il mondo con­ti­nuano a pre­fe­rirlo tra i mille modelli dispo­ni­bili. E si ritorna all’oggi. Quando la sto­ria del bikini, intra­mon­ta­bile abito della spiag­gia, si con­fonde con gli ine­ste­ti­smi giu­sti­fi­cati dal fal­sa­mente anar­chico con­vin­ci­mento che “nella moda tutto è permesso”.


Il manifesto – 15 agosto 2015

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