Ha origini romane il
costume che dal 1946 veste le donne sulle spiagge di tutto il mondo.
Agli inizi fece tanto scandalo da causare persino uno sciopero delle
modelle che rifiutarono di indossarlo nelle prime sfilate parigine.
Michela Ciavarella
Bikini. Il costume
post atomico
Grazie alla totale
incertezza sulla sua data di nascita e sul suo uso, il
bikini è adatto a entrare nella classifica delle
cose intramontabili. Ha, infatti, tutte le
caratteristiche delle dive di cui sono vaghe la
provenienza e la data di nascita e che restano
per sempre adorate, conosciute e venerate,
come la Lola Montés di Max Ophüls o Elina
Makropoulos di Leoš Janáček, personaggi
inventati ma reali quanto le loro storie. Come loro, il
bikini è venerato per i suoi meriti incerti.
Al pari di molte storie
che sono scoppiate nella moda, infatti, il bikini ha un’origine
tutta confusa e pretestuosa, dovuta un po’ alla
semplificazione giornalistica
e molto anche al disinteresse generale della
cultura ufficiale per le cose della moda. Più
recentemente, è successo anche alla minigonna,
che si dice sia stata inventata dall’inglese Mary Quant ma era
già stata disegnata e prodotta anni prima da André
Courrège e Paco Rabanne che avevano, per quell’epoca
di dominio culturale della Swinging London,
il difetto di lavorare a Parigi.
La leggenda
metropolitana, che tutti sanno ripetere
a memoria, dice che il bikini è nato il 5 luglio
del 1946, inventato da un sarto francese, tale Louis Réard,
sconosciuto allora quanto è sconosciuto
oggi. Il quale deve avere approfittato, in tempo record,
della notizia dei primi esperimenti nucleari condotti
dall’esercito americano in Micronesia dove,
proprio agli inizi di luglio di quell’anno, vengono
sganciate ben due bombe all’idrogeno sull’isola di Bikini,
che si trova in quell’arcipelago.
La storia ha una
sceneggiatura epica che, francamente,
sarebbe più degna di un commercial per un dado da brodo.
E se grazie a essa Réard ha potuto dare il nome
Bikini alla sua invenzione di moda (che oltretutto, si
dice, le modelle avevano rifiutato di indossare e, per
poterlo mostrare, il sarto è stato costretto a chiamare
Micheline Bernardini, una spogliarellista
del Casino de Paris), l’indumento ha provocato una
deflagrazione simile a una bomba in una società che
era diventata stranamente pudica e benpensante
in fondo soltanto da poco più di un secolo.
L’intuizione di chi ha
scritto questa fragile storia che sa di luogo comune,
attribuisce anche a un tale Jacques Heim
l’invenzione precedente di un costume da bagno che si
chiamava Atollo (ancora un richiamo alla bomba all’idrogeno)
perché era il più piccolo costume da bagno del mondo ma
comunque era un pezzo intero. Réard l’ha reso ancora più
piccolo staccandolo addirittura in due
pezzi.
Fatto è che da
allora a oggi, il bikini è sempre presente,
intramontabile costume da bagno da spiaggia e da
piscina, feticcio dell’erotica maschile, indispensabile
indumento femminile e sorprendente
trappola di stile, autore degli inestetismi
e delle classifiche delle “peggio vestite”
di ogni stagione che, per puro voyerismo, aumentano
le pagine viste dei siti dei blasonati giornali di
news e dei magazines di gossip da spiaggia,
italiani soprattutto.
Mosaici di Piazzale Armerina
In realtà, tutta questa
propagandata novità il bikini non la possiede.
Non la possiede certo la sua forma, di cui si ha notizia
storica in qualche bassorilievo
mesopotamico del 1400 aC. La sua rappresentazione
più conosciuta si trova nei mosaici del III secolo della Villa
del Casale a Piazza Armerina, in Sicilia, dove le
“Fanciulle in Bikini”, conosciute anche come le
Bagnanti – impropriamente perché all’epoca
casomai si nuotava nudi – decorano i pavimenti
della palestra. Quindi, verosimilmente, una
fascia sul seno e qualcosa che suona come l’antenato
delle mutande odierne in quell’epoca meno pudica serviva alla
ragazze per fare sport e non certo per fare il bagno (oggi Eres,
un marchio francese, ne fa una linea molto simile).
Poi, evidentemente,
la storia si è dimenticata di quell’immagine
e tutto ciò che ci rimanda al bikini ci arriva da un’epoca
molto recente, l’inizio del Novecento, il secolo scorso. Ed è,
più o meno, legato alla guerra (che è un mondo di maschi)
e all’illustrazione di un immaginario erotico
che, nelle intenzioni, doveva tenere alto lo spirito dei
soldati o, quantomeno, servire da valvola di
sfogo immaginario capace di tenere lontane
e distaccate le fisicità di troppi uomini soli
rinchiusi in caserma: quando quelle immagini non
bastavano, succedeva quello che Gore Vidal racconta
in La statua di Sale, con il conseguente allarme
di “messa in pericolo” per la mascolinità
mondiale.
Forse fu anche per
scongiurare la diffusione dei troppi numerosi
episodi scoperti di un cameratismo sempre
più fisico e affettuoso tra i soldati che, agli
inizi degli anni Quaranta e poi di più con l’ingresso
degli Stati Uniti in guerra, le famose pin up vengono disegnate
sempre più spesso con meno vestiti addosso, sempre meno
con lingerie e reggiseni e culotte
e sempre più con un misto di indumenti che
ricordavano sì la culotte ma sembravano
pantaloncini, sapevano sì di reggiseni,
ma sembravano camicette annodate sotto al seno,
avevano sì l’aspetto discinto, ma erano comunque
compatibili anche come indumenti da indossare
in località al caldo, in California soprattutto.
È in questi
anni che i disegnatori Gil Elvgren, Frahm Arte,
George Petty e Alberto Vargas, già attivi durante la “Pin
up golden age”, e cioè dagli inizi degli anni Trenta
e per tutti i Quaranta, mettono per così dire il
costume da bagno Bettie Page, che solitamente
indossava corsetti e guȇpière. Cioè,
cominciano a disegnare le donne con quella forma di
indumento che, alla fine della guerra, doveva inopinatamente
assumere il nome di bikini.
Certo, nulla a che
vedere con il modello che conosciamo oggi che, semmai,
è più simile a quello delle fanciulle di Piazza
Armerina. Il “due pezzi” disegnato sulle Pin up
incollate sulle ali degli aerei bombardieri avevano
culotte alte fino a sopra i fianchi e un
reggiseno che scendeva fino a sotto le costole.
Rimaneva scoperto l’ombelico, punto centrale della
figura umana che, chissà perché, per gli uomini diventa sexy
se è quello di una donna.
Questa visione
maschilista della moda, che non è assolutamente
rara, ha comunque portato al successo la nuova bomba
del guardaroba femminile, tanto che a partire
dagli Anni 50 le donne hanno creduto che potesse essere uno
strumento per la loro liberazione sia sessuale
sia di genere. Tanto è vero che negli Usa, e ovviamente
verrebbe da dire, ne fu vietato l’uso sulle spiagge o in
luoghi pubblici.
Anche se, molti anni
prima, fu proprio il sogno americano di Hollywood
che aveva fatto trapelare le foto delle sue dive in
allevamento nelle ville di Beverly Hills, di proprietà
delle case di produzione, proprio con costumi da bagno
simili ai bikini e adagiate come statue di dee attorno
alle piscine. Del resto, Hollywood doveva cominciare
a vendere una mitologia e quelle immagini,
sebbene fatte filtrare ad arte, a quello servivano.
Rita Hayworth
Intanto, mentre la
regina del nuoto sincronizzato Esther Williams si
rifiuta di indossare il due pezzi nei suoi film per tutti gli
anni Cinquanta, Rita Hayworth già si fa fotografare
con l’ombelico scoperto nel 1946: ma lei era peccaminosa
per natura e, soprattutto, nella fantasia dei soldati
era già una bomba atomica anche con l’abito da sera.
Comunque, gli Stati uniti proibirono espressamente
l’uso del bikini alle partecipanti al concorso
di Miss Mondo del 1951. Il senso americano della pruderie
non può sopportare che la nudità, o la quasi nudità,
che consente il bikini possa essere sdoganata da una
moda che mentre lascia il corpo delle donne quasi
completamente scoperto dà l’alibi che deriva
dall’uso specifico in spiaggia o nelle piscine,
che in America sono sempre state di moda, e non solo
in California.
Così, se Pin up
e addirittura le dive del bondage, come Bettie
Page e le sue epigoni, possono essere autorizzate
a esibirsi con bustier, culottes ridottissime,
sottovesti e tutto il resto degli indumenti
che appartiene al mondo della lingerie, l’esibizione
delle donne in bikini disturba quel comune senso del pudore che
è sempre difficile definire. Soprattutto
in un Paese che è nato facendo dei vizi privati e delle
pubbliche virtù più una fede che una cultura.
Alla fine, la
liberazione di un indumento così peccaminoso
arriva più dall’accettazione sociale del voyerismo
maschile che da una presa di coscienza sulla libertà femminile.
La riprova è che mentre i costumi da bagno delle
donne negli anni continuano a ridursi, fino al far
cadere il reggiseno con la nascita del topless e fino
a ridurre lo slip al tanga o al perizoma, il costume
da bagno maschile diventa sempre più coprente: passata
l’epoca dello slip e relegato il famoso modello Speedo
all’attività sportiva nelle piscine olimpioniche,
oggi la maggior parte degli uomini eterosessuali
usa pantaloncini di media lunghezza, dallo short
al bermuda da surf, e si stende a prendere il
sole accanto a donne eterosessuali seminude.
Un po’ di malizia porta a dire che gli uomini,
contrariamente alle donne, non sopportano la
valutazione pubblica delle loro forme anatomiche.
Sofia Loren Miss Eleganza 1950
Ma proseguendo
con la storia del bikini, in Europa tutto va più liscio,
secondo il percorso in discesa che di solito nel Vecchio
Continente hanno sempre avuto le nascite delle mode.
In Italia, contrariamente a quanto si possa
pensare, Lucia Bosé si fa vedere in due pezzi da educanda,
avendo l’ombelico appena coperto, al concorso di Miss Italia
del 1947, che vince. E Sofia Loren (allora ancora con la f e
non ancora con la ph) nel 1950 vince il titolo di Miss Eleganza
indossando un bikini di raso.
La bombastica
bellezza della Loren, non ancora diva ma già molto bella,
sdogana il due pezzi anche Oltreoceano. Almeno al cinema,
visto che in America nel 1953 esce Niagara di
Henry Hathaway e Jean Peters appare in un due pezzi
scandaloso, mentre la sua coprotagonista
Marilyn Monroe era già in bikini sulla copertina
di Picture Post nel 1949 e arriverà in
monokini (cioè il bikini senza reggiseno)
in Something’s Got to Give del 1962 by Lawrence
Schiller, il suo ultimo film neanche finito di girare.
Ma ad aprire
completamente il mercato americano,
visto che in Europa un mercato c’era già da metà Anni 50
grazie alla spregiudicatezza delle spiagge
di Saint Tropez, è l’uscita di Et Dieu créa la
femme di Roger Vadim che arriva sugli schermi americani
nel 1958 (in Italia è uscito, come in Francia, nel
1956 con l’orrendo titolo Piace a troppi) con la finta
innocenza di Brigitte Bardot.
A quel punto, Itsy
Bitsy Teenie Weenie Yellow Polka Dot Bikini, la
canzone di Brian Hyland del 1960, fa il resto. Il successo
è completato da Ursula Andress, mai più superata
Bond Girl in Agente 007 Licenza di uccidere del 1962.
Che poi tutte le donne del mondo, per indossarlo liberamente
sulle spiagge, abbiano dovuto aspettare ancora qualche
decennio, e la foto sui rotocalchi della
principessa Margaret d’Inghilterra già
duchessa Snowdon che prendeva il sole in bikini sullo
yacht dell’Aga Khan in Sardegna, è un altro
discorso. Ma qui siamo già agli inizi degli Anni 70.
La moda, quella dei
couturier e dei desgner, arriva a occuparsi
del bikini molto tardi. In realtà, lascia il campo alle aziende
specializzate in corsetteria che
aggiungono reparti e macchine per la produzione
di reggiseni preformati, con le coppe a cuore,
a balconcino, con o senza spalline, che sono
in tutto simili ai reggiseni dell’underwear tranne che
per le fantasie e i tessuti. L’utilizzo in
massa della fibra Elastam (che comunemente tutti
chiamano Lycra dal nome che le ha dato la DuPont, il
produttore più famoso, nel 1960) permette una
modellistica più facile, con il vantaggio di una
maggiore impermeabilità e velocità di
asciugatura.
Non è che i fashion
designer si preoccupano molto di questo
indumento che, dagli Anni 70 in poi, spopola sulle spiagge
mondiali: la moda sopporta poco il nudo e il caldo,
preferisce esercitarsi sul coperto e sulle
temperature più basse. A meno che non si
parlasse di avanguardia. In quel caso, la fantasia
dei fashion designer correva più della realtà. Tanto
è vero che, Rudi Gernreich, ebreo austriaco
naturalizzato americano e tra i primi
attivisti della liberazione omosessuale,
dopo aver smesso di fare il ballerino con la Lester
Horton’s Modern Dance Company a Los Angeles nel
1942, diventa un premiatissimo fashion designer
e, mettendo a frutto la sua esperienza anche come
disegnatore di costumi per il balletto, già nel 1964
presenta il primo monokini, indossato dalla modella
Peggy Moffitt.
Da allora, tutto si
mischia e si trasforma velocemente. Le
dimensioni si riducono, l’immaginario del bikini da
spiaggia si confonde con quello dei set del pornomovie,
i materiali diventano tecnologici, la
moda pretende il ritorno al costume da bagno intero e, spesso,
dalle forme sportive, e le donne di tutto il mondo
continuano a preferirlo tra i mille
modelli disponibili. E si ritorna all’oggi. Quando
la storia del bikini, intramontabile abito della
spiaggia, si confonde con gli inestetismi
giustificati dal falsamente anarchico
convincimento che “nella moda tutto è permesso”.
Il manifesto – 15 agosto 2015
Nessun commento:
Posta un commento