«Storia vera e
terribile tra Sicilia e America» di Enrico Deaglio per Sellerio.
L’avvincente ricostruzione del linciaggio degli italiani nella
citta di Tellulah in Louisiana alla fine dell’Ottocento. Uccisi
dopo un diverbio per dare una «lezione» ai migranti.
Niccolò Nisivoccia
Cinque «dagos» con il cappio
al collo
Enrico Deaglio
è sempre stato, nei suoi libri, in equilibrio
fra il giornalismo, la Storia e la
narrazione. Il bellissimo Patria 1978 – 2008,
ad esempio, raccontava gli ultimi trent’anni di
vicende italiane srotolandoli come un lungo
telegiornale: un libro di Storia a tutti gli
effetti, dunque, ma sottoforma di «cronaca
a scoppio ritardato». Deaglio, in altre parole,
si è sempre proposto con la modestia del
cronista, ma forte di una profondità da
storico, ed è uno scrittore tout court, come ora
conferma Storia vera e terribile tra
Sicilia e America, appena pubblicato da
Sellerio (pp. 214, euro 14).
Siamo negli Stati Uniti:
a Tellulah, nella contea di Madison, estremo
nord-est dello Stato della Louisiana. È il 20 luglio 1899,
una caldissima sera d’estate. Cinque immigrati
italiani vengono linciati dalla folla, mediante
impiccagione. Sono i tre fratelli Defatta
(Giuseppe, Francesco e Pasquale), Rosario
Fiduccia e Giovanni Cirami; hanno fra i ventitre
e i cinquantaquattro anni. Tutti e cinque
vengono dalla Sicilia, da Cefalù, e sono
commercianti di frutta e verdura; sono dunque
cinque dagos, come venivano chiamati gli immigrati
siciliani, forse da dagger, che significa «stiletto»,
o più verosimilmente (quantomeno
secondo Deaglio) da una versione sporcata
dell’espressione as the day goes, che indicava chi veniva
assunto come lavorante «a giornata».
Tutto nasce da un
episodio piccolo, apparentemente,
e tutto dura meno di ventiquattro ore: una capra
di uno dei Defatta ha brucato l’erba, quella mattina
molto presto, dove non doveva, nel prato dell’ufficiale
sanitario del paese, il dottor Hodge, il quale per
questo la uccide con un colpo di pistola. Cosa succede
dopo? Secondo la versione ufficiale, il gruppo dei
siciliani avrebbe deciso di vendicarsi e, quella sera
stessa, uno di loro avrebbe aggredito il dottore; ne
sarebbe derivata una lite violenta, dalla quale il dottore
sarebbe uscito gravemente ferito. E qui un folto
gruppo di cittadini inizia una caccia all’uomo
(perché questo è il linciaggio, da
dizionario: un’esecuzione sommaria perpetrata
da un gruppo di cittadini nei confronti di una
persona colta in flagrante o ritenuta colpevole
di un delitto molto grave), alla fine della quale i cinque
siciliani vengono catturati e subito dopo
impiccati, mentre un sesto, siciliano di Cefalù a sua
volta, riesce a scappare.
Quando viene
a conoscenza dei fatti, Deaglio intuisce che «la
storia era molto più grande di così», e cioè «più
orrenda, più infame, più misteriosa, ma anche più
avventurosa e quasi fiabesca»; e il
libro, che da questa intuizione nasce, ne costituisce
la spiegazione del perché. Non c’entra la capra,
secondo Deaglio.
C’entra invece
l’emigrazione dei siciliani, che era iniziata pochi anni
prima, verso l’America, dove i siciliani avrebbero
dovuto prendere il posto dei «negri» nelle piantagioni
di cotone, perché i «negri» avevano perso parte della
loro affidabilità; e c’entra il «vento
freddo» che accompagnava quell’emigrazione. C’entrano
la disillusione che induceva alla partenza
(perché Garibaldi era stato una promessa di libertà
non mantenuta), l’illusione del riscatto che l’America
doveva essere, la nuova disillusione che per molti ne
sarebbe seguita, l’ostilità degli americani nei
confronti dei nuovi arrivati, la convinzione che
fossero una «razza inferiore», non dei «negri» ma dei
«negroidi» da trattare come i primi erano stati sempre
trattati, e c’entrano dunque anche le teorie
razziste dell’epoca, tanto italiane quanto
americane; c’entra però anche il timore dell’ascesa di
una nuova classe sociale, perché pur fra stenti e fatiche
i siciliani si stavano facendo valere. C’entra tutto
questo insieme.
Deaglio indaga,
raccoglie documenti e prove e scopre la
fragilità della versione ufficiale dei fatti,
poi cerca ancora, si confronta, si interroga, e alla
fine la sua versione è diversa: il dottor Hodge era
stato semplicemente un «consapevole,
freddo, agente provocatore usato da chi voleva
eliminare i siciliani dalla parrocchia»
e il linciaggio di Tellulah uno dei primi
casi americani di «uso della folla per motivi
politico-economici».
Oggi, a distanza di
tanti anni, potremmo dire che i cinque siciliani da
Cefalù, nel loro ruolo di vittime, e nel loro essersi
trovati «al centro di una particolare
congiunzione astrale, fatta di geopolitica,
schiavitù, grandi calcoli economici»,
rappresentarono un simbolo involontario.
E nello sguardo di uno di loro, tramandatoci da
una foto, a Deaglio sembra di rivedere il
medesimo sguardo dell’ignoto ritratto da Antonello da
Messina, nel quale secondo qualcuno sarebbe racchiusa
l’espressione di un vero e proprio «universale
carattere italiano».
Il manifesto – 3 luglio
2015
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