Dal 1918 al 1933 la
Germania repubblicana fu “il laboratorio della modernità”.
Cinema, filosofia, drammaturgia, architettura, letteratura,
giornalismo, grafica: una grande rivoluzione culturale ed estetica.
Angelo Bolaffi
Weimar prima del fuoco
Pochissimi anni è durata
la Repubblica di Weimar. Eppure quanto accadde in Germania tra
il 1918 e il 1933 fu una vera e propria rivoluzione culturale. Un
evento che per radicalità e dimensioni non trova paragoni a parte
ilRinascimento italiano. E ha trasformato quegli anni, “i ruggenti
anni Venti”, in un mito che ancora oggi ci intriga e ci affascina
almeno quanto ci riempie di sgomento il suo traumatico epilogo:«Non
vi sono due Germanie — così Thomas Mann nel celebre
discorso La Germania e i tedeschi tenuto alla Library of Congress di
Washington nel 1945 interrogandosi sulle ragioni di quella catastrofe
— l’una buona e l’altra malvagia, ma (...) vi è una Germania
soltanto, il cui bene per una perfidia del diavolo degenerò in
male».
Dunque Weimar: con una
stupefacente rapidità che sorprese gli stessi protagonisti, la
Germania guglielmina uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale e
umiliata dalla pace “cartaginese” di Versailles si spogliò come
d’incanto della sua vecchia cultura prussiana, militarista e
filistea lasciando il passo a un alternativo “spirito del
tempo” cosmopolita, liberale e illuministico. Cambiò tutto:
valori, costumi, comportamenti. Per tantissimi, certo, ma non per
tutti. Anzi i nemici di Weimar, nazionalisti e antisemiti, ma
anche la maggioranza silenziosa del popolo tedesco, da subito
dichiararono guerra a quella che sprezzantemente venne bollata
come Jüdische Republik, “repubblica degli ebrei”.
Una guerra condotta senza
esclusione di colpi dal settimanale Der Stürmer diretto
da Jülius Streicher poi fatto fuori nel 1934 nella Notte
dei lunghi coltelli e dalla stampa nazional-tedesca dell’impero
mediatico di Alfred Hugenberg. Ma anche i difensori della
repubblica ebbero la loro stampa pubblicata da potentissimi gruppi
editoriali progressisti. Veri e propri magnati come gli Ullstein la
cui rivista Berliner Illustrierte fu il periodico del suo
genere più letto in Europa. Sempre questo gruppo editoriale (che
esiste ancora oggi) pubblicò un settimanale femminile come Die
Dame o il mensile maschile di formato tascabile Uhu . Per le
casalinghe il Blatt der Hausfrau , i bambini si divertivano
sfogliando la rivista Heitere Fridolin e gli intellettuali
potevano dire la loro sul Querschnitt , la rivista a essi
dedicata.
In fondo il grande
paradosso della Repubblica di Weimar — così chiamata dal nome
della bellissima città della Turingia nella quale venne scritta la
prima costituzione democratica d’Europa — sta tutto qui:
nonostante un’accanita opposizione nei suoi confronti e un feroce
terrorismo di destra (tantissime le vittime eccellenti, da Rosa
Luxemburg o Walther Rathenau per citare solo alcuni
nomi) in quegli anni ebbe luogo la più intensa «esperienza della
modernità » (Marshall Berman) dell’intero Novecento.
E la Germania si
trasformò in un vero e proprio laboratorio nel quale tutti i canoni
della cultura tradizionale e i codici artistici precedenti vennero
totalmente scompaginati. Nacque il teatro politico di Brecht,
Piscator e Kurt Weill e il giornalismo di viaggio impegnato: ancora
oggi i reportage, pubblicati a puntate sul Frankfurter Zeitung
, di Joseph Roth sulla Russia diventata Unione Sovietica, ma
soprattutto quelli sull’Ucraina, si leggono che è un piacere.
Sull’asse Dessau-Weimar- Berlino il Bauhaus sviluppò l’esperienza
della moderna archi-tettura, anche grazie alla diffusione
dell’omonima rivista che nel 1919 pubblicò il manifesto del
movimento di Walter Gropius.
La Neue
Sachlichkeit definì i nuovi termini dell’estetica. Nel 1927
Rudolf Hilferding, il geniale ministro delle finanze
socialdemocratico, elaborò la teoria (ancor attualissima) del
“capitalismo organizzato”. E negli studi di Babelsberg, a metà
strada tra Berlino e Potsdam, venne con Metropolis celebrato
l’espressionismo cinematografico. Due anni dopo, nel 1929, Erich
Maria Remarque pubblicò Niente di nuovo sul fronte occidentale , un
grandioso monumento letterario dell’antimilitarismo: tradotto in
cinquanta lingue vendette oltre venti milioni di copie nel mondo
diventando il testo più letto dopo la Bibbia.
Sempre nel 1929 Alfred
Döblin innalzò con Berlin Alexanderplatz un insuperato
monumento a Berlino, che della Repubblica di Weimar fu non solo
capitale politica ma anche spirituale. Leni von Riefenstahl aveva
mostrato al mondo (ma, ahimé, anche a Hitler) l’enorme potenza
mediatica della fotografia e John Heartfield si rivelò un
geniale autore di fotomontaggi avendo intuito prima di tutti che
«l’arte è un’arma », che le masse sono un potere e che per
questo il potere ha bisogno delle masse. E i libri sono per questo
uno strumento decisivo per l’emancipazione dell’umanità. Anche
se proprio il fallimento di Weimar è forse la più clamorosa
conferma che «la cultura non impedisce la barbarie» come ha scritto
ormai qualche decennio or sono Cesare Cases nella introduzione
all’edizione italiana della pionieristica ricerca La cultura di
Weimar di Peter Gay apparsa nel 1968.
I nazisti appena giunti
al potere grazie al ricorso sistematico alla violenza, ma anche al
sostegno delle masse e degli esponenti del “modernismo reazionario”
(Jeffrey Herf) per prima cosa liquidarono come “degenerata e non
tedesca” tutta la cultura weimariana. E inscenarono in tutte le
città un rogo di libri — il più grande sulla Opernplatz di
Berlino il 10 maggio del 1933 — «per eliminare» queste le parole
di Goebbels «con le fiamme lo spirito maligno del passato». Fu il
primo passo nella discesa agli inferi chiamata Shoah, secondo il
terribile presentimento di Heinrich Heine: «Dovunque si bruciano
libri, si finisce per bruciare anche gli uomini».
Ma Weimar, che Ernst
Bloch aveva definito «una nuova età di Pericle », nonostante
tutto ha sopravvissuto al suo tragico fallimento. È stata più forte
dei suoi nemici. L’ emigrazione in America della Intelligenz
ebraico-tedesca (artisti, scrittori, filosofi, registi) ha avuto,
infatti, come paradossale conseguenza, la più grande trasfusione che
abbia mai avuto luogo nella storia delle scienze sociali e delle
arti: una osmosi, una vera e propria ibridazione il cui esito, se
così possiamo esprimerci, è stato la “germanizzazione” della
cultura americana.
Per formazione e cultura
gli ebrei tedeschi che trovarono rifugio in America (oltre
trecentomila) portarono nel loro bagaglio di profughi “visioni del
mondo” caratterizzate da un profondo scetticismo nei confronti di
ogni concezione unidimensionale del progresso e verso qualsiasi forma
di fideismo scientista che, invece, era allora dominante nel mondo
accademico americano. E questo ha provocato anche le risentite
proteste dei sacerdoti dell’ortodossia conservatrice intellettuale
americana. Allan Bloom nel 1987 in La chiusura della mente
americana chiese agli americani «di liberarsi una volta per
tutte dalle influenze nefaste della cultura tedesca» che avrebbe
trasformato la cultura americana in una «versione alla Disneyland
della Repubblica di Weimar».
Per decenni la Repubblica
di Weimar è stata raccontata come un modello paradigmatico di
“autodissoluzione” di un sistema di democrazia parlamentare. Oggi
l’esperienza di Weimar non viene più giudicata a partire solo
dall’ottica del suo fallimento ma piuttosto valorizzata
enfatizzando quella delle grandi innovazioni culturali e
istituzionali che l’hanno caratterizzata. Non viene più esibita
come un modello politico e costituzionale fallimentare bensì come un
esperimento che ha letteralmente precorso i tempi. L’interesse
della ricerca si è spostato dalle cause del suo tragico epilogo
all’importanza come laboratorio della modernità culturale. Questa
è la grande eredità di cui ha potuto fare tesoro prima la
Repubblica di Bonn e poi, dopo la caduta del Muro, la Repubblica di
Berlino.
La Repubblica – 2 agosto 2015
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