17 agosto 2015

WEIMAR LABORATORIO DELLA MODERNITA'





Dal 1918 al 1933 la Germania repubblicana fu “il laboratorio della modernità”. Cinema, filosofia, drammaturgia, architettura, letteratura, giornalismo, grafica: una grande rivoluzione culturale ed estetica.

Angelo Bolaffi

Weimar prima del fuoco


Pochissimi anni è durata la Repubblica di Weimar. Eppure quanto accadde in Germania tra il 1918 e il 1933 fu una vera e propria rivoluzione culturale. Un evento che per radicalità e dimensioni non trova paragoni a parte ilRinascimento italiano. E ha trasformato quegli anni, “i ruggenti anni Venti”, in un mito che ancora oggi ci intriga e ci affascina almeno quanto ci riempie di sgomento il suo traumatico epilogo:«Non vi sono due Germanie — così Thomas Mann nel celebre discorso La Germania e i tedeschi tenuto alla Library of Congress di Washington nel 1945 interrogandosi sulle ragioni di quella catastrofe — l’una buona e l’altra malvagia, ma (...) vi è una Germania soltanto, il cui bene per una perfidia del diavolo degenerò in male».

Dunque Weimar: con una stupefacente rapidità che sorprese gli stessi protagonisti, la Germania guglielmina uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale e umiliata dalla pace “cartaginese” di Versailles si spogliò come d’incanto della sua vecchia cultura prussiana, militarista e filistea lasciando il passo a un alternativo “spirito del tempo” cosmopolita, liberale e illuministico. Cambiò tutto: valori, costumi, comportamenti. Per tantissimi, certo, ma non per tutti. Anzi i nemici di Weimar, nazionalisti e antisemiti, ma anche la maggioranza silenziosa del popolo tedesco, da subito dichiararono guerra a quella che sprezzantemente venne bollata come Jüdische  Republik, “repubblica degli ebrei”.

Una guerra condotta senza esclusione di colpi dal settimanale Der Stürmer diretto da Jülius Streicher poi fatto fuori nel 1934 nella Notte dei lunghi coltelli e dalla stampa nazional-tedesca dell’impero mediatico di Alfred Hugenberg. Ma anche i difensori della repubblica ebbero la loro stampa pubblicata da potentissimi gruppi editoriali progressisti. Veri e propri magnati come gli Ullstein la cui rivista Berliner Illustrierte fu il periodico del suo genere più letto in Europa. Sempre questo gruppo editoriale (che esiste ancora oggi) pubblicò un settimanale femminile come Die Dame o il mensile maschile di formato tascabile Uhu . Per le casalinghe il Blatt der Hausfrau , i bambini si divertivano sfogliando la rivista Heitere Fridolin e gli intellettuali potevano dire la loro sul Querschnitt , la rivista a essi dedicata.

In fondo il grande paradosso della Repubblica di Weimar — così chiamata dal nome della bellissima città della Turingia nella quale venne scritta la prima costituzione democratica d’Europa — sta tutto qui: nonostante un’accanita opposizione nei suoi confronti e un feroce terrorismo di destra (tantissime le vittime eccellenti, da Rosa Luxemburg o Walther Rathenau per citare solo alcuni nomi) in quegli anni ebbe luogo la più intensa «esperienza della modernità » (Marshall Berman) dell’intero Novecento.

E la Germania si trasformò in un vero e proprio laboratorio nel quale tutti i canoni della cultura tradizionale e i codici artistici precedenti vennero totalmente scompaginati. Nacque il teatro politico di Brecht, Piscator e Kurt Weill e il giornalismo di viaggio impegnato: ancora oggi i reportage, pubblicati a puntate sul Frankfurter Zeitung , di Joseph Roth sulla Russia diventata Unione Sovietica, ma soprattutto quelli sull’Ucraina, si leggono che è un piacere. Sull’asse Dessau-Weimar- Berlino il Bauhaus sviluppò l’esperienza della moderna archi-tettura, anche grazie alla diffusione dell’omonima rivista che nel 1919 pubblicò il manifesto del movimento di Walter Gropius.

La Neue Sachlichkeit definì i nuovi termini dell’estetica. Nel 1927 Rudolf Hilferding, il geniale ministro delle finanze socialdemocratico, elaborò la teoria (ancor attualissima) del “capitalismo organizzato”. E negli studi di Babelsberg, a metà strada tra Berlino e Potsdam, venne con Metropolis celebrato l’espressionismo cinematografico. Due anni dopo, nel 1929, Erich Maria Remarque pubblicò Niente di nuovo sul fronte occidentale , un grandioso monumento letterario dell’antimilitarismo: tradotto in cinquanta lingue vendette oltre venti milioni di copie nel mondo diventando il testo più letto dopo la Bibbia.

Sempre nel 1929 Alfred Döblin innalzò con Berlin Alexanderplatz un insuperato monumento a Berlino, che della Repubblica di Weimar fu non solo capitale politica ma anche spirituale. Leni von Riefenstahl aveva mostrato al mondo (ma, ahimé, anche a Hitler) l’enorme potenza mediatica della fotografia e John Heartfield si rivelò un geniale autore di fotomontaggi avendo intuito prima di tutti che «l’arte è un’arma », che le masse sono un potere e che per questo il potere ha bisogno delle masse. E i libri sono per questo uno strumento decisivo per l’emancipazione dell’umanità. Anche se proprio il fallimento di Weimar è forse la più clamorosa conferma che «la cultura non impedisce la barbarie» come ha scritto ormai qualche decennio or sono Cesare Cases nella introduzione all’edizione italiana della pionieristica ricerca La cultura di Weimar di Peter Gay apparsa nel 1968.

I nazisti appena giunti al potere grazie al ricorso sistematico alla violenza, ma anche al sostegno delle masse e degli esponenti del “modernismo reazionario” (Jeffrey Herf) per prima cosa liquidarono come “degenerata e non tedesca” tutta la cultura weimariana. E inscenarono in tutte le città un rogo di libri — il più grande sulla Opernplatz di Berlino il 10 maggio del 1933 — «per eliminare» queste le parole di Goebbels «con le fiamme lo spirito maligno del passato». Fu il primo passo nella discesa agli inferi chiamata Shoah, secondo il terribile presentimento di Heinrich Heine: «Dovunque si bruciano libri, si finisce per bruciare anche gli uomini».

Ma Weimar, che Ernst Bloch aveva definito «una nuova età di Pericle », nonostante tutto ha sopravvissuto al suo tragico fallimento. È stata più forte dei suoi nemici. L’ emigrazione in America della Intelligenz ebraico-tedesca (artisti, scrittori, filosofi, registi) ha avuto, infatti, come paradossale conseguenza, la più grande trasfusione che abbia mai avuto luogo nella storia delle scienze sociali e delle arti: una osmosi, una vera e propria ibridazione il cui esito, se così possiamo esprimerci, è stato la “germanizzazione” della cultura americana.

Per formazione e cultura gli ebrei tedeschi che trovarono rifugio in America (oltre trecentomila) portarono nel loro bagaglio di profughi “visioni del mondo” caratterizzate da un profondo scetticismo nei confronti di ogni concezione unidimensionale del progresso e verso qualsiasi forma di fideismo scientista che, invece, era allora dominante nel mondo accademico americano. E questo ha provocato anche le risentite proteste dei sacerdoti dell’ortodossia conservatrice intellettuale americana. Allan Bloom nel 1987 in La chiusura della mente americana chiese agli americani «di liberarsi una volta per tutte dalle influenze nefaste della cultura tedesca» che avrebbe trasformato la cultura americana in una «versione alla Disneyland della Repubblica di Weimar».

Per decenni la Repubblica di Weimar è stata raccontata come un modello paradigmatico di “autodissoluzione” di un sistema di democrazia parlamentare. Oggi l’esperienza di Weimar non viene più giudicata a partire solo dall’ottica del suo fallimento ma piuttosto valorizzata enfatizzando quella delle grandi innovazioni culturali e istituzionali che l’hanno caratterizzata. Non viene più esibita come un modello politico e costituzionale fallimentare bensì come un esperimento che ha letteralmente precorso i tempi. L’interesse della ricerca si è spostato dalle cause del suo tragico epilogo all’importanza come laboratorio della modernità culturale. Questa è la grande eredità di cui ha potuto fare tesoro prima la Repubblica di Bonn e poi, dopo la caduta del Muro, la Repubblica di Berlino.


La Repubblica – 2 agosto 2015

Nessun commento:

Posta un commento