31 agosto 2015

G. SARTORI, IL PREZZO DELLA TERRA


IL PREZZO DELLA TERRA (autismi della terra # 1)

di Giacomo Sartori


Se potessi farei solo buche nella terra. Col vento e con la pioggia, nel solleone più incandescente, dove ogni respiro è fuoco nei polmoni, quando l’inverno mi morde le dita: l’importante sarebbe essere solo io e lei, senza distrazioni, senza alcun rompiscatole attorno. Io e la terra abbiamo un buon rapporto, da sempre. Io faccio le cose che devo farle, e lei mi lascia fare. Quando ho finito la saluto (mentalmente) e vado via. Come si prende commiato da una persona con la quale abbiamo simpatizzato in treno, e che non rivedremo più. Forse se quel viaggio invece di qualche ora fosse durato due giorni, di quell’individuo che ci ha scaraventato nel pozzo avvincente della sua esistenza non ne avremmo potuto più, ma l’amicizia estemporanea è fiorita l’intervallo esatto per scongiurare l’assedio degli ineluttabili difetti, o anche solo per cominciare a soffrire delle ripetizioni (che prima o poi spuntano sempre). Anche a me dispiace ogni volta voltare le spalle, quando ho finito le mie alchimie.
So bene che la mia vita deve continuare, e non posso consumarla tutta in quella buca, sarebbe assurdo, ma provo un po’ di rimpianto. Certo porterò via con me le fotografie (io che non ho mai scattato e collezionato immagini), e i campioni per il laboratorio, e quindi non è una vera e propria separazione ineluttabile, ma sono cosciente che quel paio d’ore trascorse mezzo seppellito sotto il livello della superficie sono un miracolo che non si ripeterà più. Non con quella sua vividezza dei sensi e dell’intelletto, quella pregnanza quasi sensuale, per non dire carnale, quella sua purezza minerale. Ne resterà solo un ricordo sempre più sfuocato, nella mia mente che si fa scivolare via i ricordi tra le sue dita troppo lisce. Perdita certo compensata da altri incontri simili o anche molto differenti, questo non posso prevederlo, come succede nella vita.
Purtroppo il mio lavoro comprende anche tutt’altro. Certo queste brevi storie d’amore sono il fulcro, la culla per così dire da dove nasce tutto il resto, e verso cui tutto deve convergere, ma a ben vedere finiscono per farsi agognare: sono la droga che mi tiene legato alla professione che faccio, ma sono sempre troppo poche, troppo spaziate. Come ogni tossicomane vorrei che fossero più numerose, più frequenti: sono in carenza. Purtroppo è così.


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 Tanto per cominciare ci sono le coatte immobilizzazioni al computer. Ore e giorni di carezze alla scatola che è a casa mia, ma è connessa con immensi archivi di dati, istituzioni, centri di ricerca, biblioteche, migliaia di persone in carne ed ossa sparse per il mondo, anche loro come me inchiodate davanti a uno schermo e a una tastiera, resi irreali. Quella protesi che sembra essere al mio servizio con le sue capacità infinite, e in realtà mi isola dal resto dell’umanità, alienando con la sua bulimica pletora il mio fisico e la mia mente, tagliando in definitiva le ali ai miei sogni. Le trame asettiche nelle quali mi incatena sono agli antipodi del senso di avvicinare il vero, di essere libero, di stare effettivamente vivendo, che provo quando sono in compagnia della terra.
Faccio anch’io come tutti, mi piego. Come ogni innamorato mi nascondo che il mio amore comprende anche sprazzi pedissequi, per non dire assai sgradevoli, accanto a quelle felici. Altro che transitori effetti collaterali, se dovessi analizzare i fatti con rigore stechiometrico risulterebbe che la maggior parte del mio tempo la trascorro seduto nella semioscurità, come uno schiavo che rema in una galera. L’era digitale ha creato nuovi paria, e io ne sono uno, lo so bene. Ma non si può pretendere che la visione di un innamorato sia oggettiva: quando mi domandano cosa faccio mi immagino l’odore di miceli e di sasso, l’alito vegetale del vento, il tenero sotto le scarpe. Senza rievocare la macchina infernale che fa di me quello che vuole, rispondo con un sorriso citrullo che gioco con la terra.
Un’incombenza ancora peggiore delle catene digitali, sono gli incontri con le persone che mi commissionano i lavori. Per farlo devo recarmi in questo o quell’ufficio di questo o quel servizio o istituto, contornato in genere da una miriade di altri uffici simili o poco differenti. Devo entrare in portoni con placche di denominazioni ufficiali, devo percorrere corridori ognuno con un suo odore ben particolare, e con fotografie o poster alle pareti, in genere con ieratiche montagne e boschi (o anche un lago alpino accecato da un sole arrogante), incrociando fantasmi di esseri umani che vanno e vengono come uccelli che si spostano per motivi chiari solo a loro da un ramo all’altro. Devo prendere ascensori con rivestimenti dozzinali o anche sontuosi ma mai belli, mai accoglienti, con specchi che non incontrano mai facce entusiaste, e quindi sembrano essi stessi tristi. Sono labirinti di corridoi e scale che ormai conosco bene (a partire da un certo punto la vita tende a ripetersi), ma ai quali non mi sono mai davvero abituato, e che per certi versi mi stupiscono come fosse la prima volta.
Ogni volta che mi sprofondo in uno di quegli itinerari obbligati la mia esistenza lavorativa, che è legata in modo indissolubile a quella non lavorativa (non ho mai saputo separarle né temporalmente né spazialmente), annega in quell’inerzia solo lavorativa che ha nei suoi atomi il beneplacito della società, è ritenuta anzi necessaria, o comunque funzionale, ineluttabile. La mia vita un po’ lavorativa e un po’ no, e proprio per questo carente di legittimità, e quasi sconveniente, se non addirittura un po’ losca, urta contro quella fiacca come depurata di tutte le scorie non lavorative (alle quali è consentito di affiorare solo nella forma di noia e velata tristezza), e in quell’impatto violento c’è qualcosa che mi fa sentire anomalo e alieno, che condanna senza appello le modalità raffazzonate nelle quali organizzo la mia esistenza.
Lì dentro i toni di voce e gli sguardi rivelano gerarchie di valori ben diverse dalle mie, ben altre meccaniche esistenziali, altre cosmologie. Le persone che devo incontrare si occupano anche loro di terra, ma lo fanno portandosi dietro quel suggello di tedio ufficiale, quella rassegnata responsabilità derivante dal fatto di avere una scrivania e il nome stampato su un cartellino a destra della porta, di far parte di un gran congegno con le sue regole e obblighi, un preciso organigramma, una criptica burocrazia. Del resto la loro rispettabilità professionale è per così dire aprioristica, per certi versi quasi divina, non deve essere difesa giorno dopo giorno come la mia. Questi convalescenti sanno cos’è la terra?, mi chiedo. Se ne occupano, ma l’hanno mai toccata? E mentre lo penso darei chissà cosa per essere in una buca.


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Quei funzionari fingono con se stessi e con gli altri di avere un congruo interesse per quello che fanno, e chiamano questa loro impostura impiego, o lavoro: la terra è un pretesto come un altro. Il mio rapporto con la terra è invece passionale, per certi versi extraconiugale, forse anche un po’ incestuoso. Niente regole da rispettare per me, nessun sovrano che pianifichi le mie giornate, niente sorrisi un po’ ipocriti con i colleghi, niente capi di cui sparlare, niente stipendio fisso. Solo i rituali che mi impongo io stesso, e gli spifferi sempre presenti provenienti dal vuoto dell’assurdo.
Non lo vorrebbero dare a vedere, ma è chiaro che mi vedono come uno che non sa valutare bene il giusto peso delle cose, e mosso da incongrui moventi, legati a chissà quali scompensi: uno che non si sa bene perché faccia quello che fa, con che fine. Uno spostato che finge un entusiasmo esagerato per la terra, che è pur sempre terra: un fanatico. Io stesso mi sento fuori luogo, una volta che il mio buon umore si è prosciugato: sorrido, parlo con scioltezza, sguaino come gioielli nei loro scrignetti foderati di feltro i pezzettini del mio sapere, perché sono cosciente che se non li convincessi sarei separato dalla mia amata, ma dentro di me soffro per quel mio non avere nessuna targhetta o titolo amministrativo, per quel mio rispondere solo a me stesso. E la mia stessa relazione con la terra mi appare remota e per tanti versi assurda. Sono io che sono un’eccezione, sono io che sono diverso, la normalità è questa, mi dico.
So bene che non sopporterei di stare chiuso in quel carcere nemmeno una giornata, so che non potrei fare miei quei modi di fare senza gioia, io che anche nella depressione – forse ben più grave – ho le mie fisime, quei sospiri con il marchio della ripetizione coatta e dell’ubbidienza a invisibili superiori, come sempre indissolubilmente intrecciato a rancori e servili invidie. Mi sembra pur sempre di essere io dalla parte del torto, quasi mi mancasse qualcosa, e proprio per questo perdo fiducia nelle mie frasi: ho la sensazione che siano poco convincenti, che svelino le mie complicate mediazioni con me stesso. Più il tempo passa più mi appaio un dilettante che fa le cose per leggerezza, che per certi versi finge. Un ciarlatano, un truffatore. Se non addirittura un mitomane che ha bisogno di ingannare anche se stesso.
Quando esco mi accorgo che la tensione mi si è accumulata nel cranio dolorante: non mi resta che andare a casa e prendere una pastiglia, distendermi sul pavimento con il cuscinetto ghiacciato sulla fronte, ritagliandomi una parentesi non lavorativa che certo loro non potrebbero permettersi. Per poi però ricuperare con gli interessi la sera, quando loro giaceranno sedati nei loro divani, affrancati dalle preoccupazioni del lavoro, e io invece sgobberò. Ritrovando un po’ alla volta la mia fiducia nella terra.


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 Talvolta le persone che devo incontrare sono dirigenti, e allora gli uffici trasudano in ogni dettaglio il lusso austero e anche spietato del potere, il distacco dalle basse quisquiglie quotidiane. Io ce la metto tutta per abbigliarmi meglio che posso (già in questo tradisco le mie convinzioni egualitarie e i miei ecologismi), e incedo guardando lontano davanti a me, come quando si è resi invulnerabili dal proprio abbigliamento. Bisogna però vedere cosa si diranno quelle teste abituate a soppesare le persone con occhiate invisibili da statua sul suo piedestallo, mi dico però mentre mi fanno aspettare (succede sempre). Quei loro occhi di statua indifferente colgono subito il dettaglio che rivela come stanno davvero le cose: una suola un po’ troppo consunta, un rammendo sulla maglia, il bottoncino mancante.
Se fossi meno indulgente con me stesso capirei che i miei sforzi sono quelli di un contadino che si mette addosso le cose migliori che ha nell’armadio, indumenti magari di fattura discreta, ma senza quell’inconfondibile nota superiore dei capi di lusso, e comunque – basterebbe quello a far precipitare il palco – legati a mode legate già seppellite nel tempo, reperti archeologici senza nulla in comune con le normative pubblicità che irrompono di continuo nel mio campo visivo. I miei modelli introiettati provengono del resto dalla contestazione e dalla controcultura: si tratta di paradigmi estetici per molti versi opposti a quelli dei dominatori. Io ho sempre aborrito il potere e i suoi simboli, e quello che considero un vestirmi neutro porta certo le tracce di questa idiosincrasia, senza peraltro indulgere alle informatiche sciatterie lanciate dai nuovi magnati californiani. Per non parlare del mio inurbano taglio di capelli, dei miei occhiali riaggiustati con la colla.
Cerco insomma di adeguarmi alla dittatura estetica neoliberale, e mi compiaccio che i miei interlocutori fingano che ci sia riuscito: dopo i saluti di rito ci mettiamo a parlare del lavoro che ho fatto o che farò. O meglio, in genere io parlo del lavoro che ho fatto o farò, e loro mi ascoltano con le loro ieratiche teste di statua. In linea generale a me viene bene ascoltare quello che dicono gli altri, ma lì sono io che devo espormi, che devo convincerli a mollare i cordoni della borsa. Per una volta non posso essere solo perverso spettatore.
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 Prendo allora la parola come golia impugna la fionda, come un condannato a morte si gioca l’ultima carta per invocare la grazia. Descrivo i pregi dei buchi che ho fatto o vorrei fare, lascio intendere che sono molto meglio di quelli che si fanno di solito, e che porteranno molti vantaggi. Mi sprofondo in inessenziali dettagli tecnici, e poi invece raggrumo troppo idee in una frase spiccia e un po’ ironica, velleitariamente spiritosa, altrettanto stonata. O anche mi lancio in considerazioni di ordine universale, per non dire filosofiche, sottintendo che la terra e i massimi sistemi sono intimamente legati. Cerco insomma di fare più bella figura possibile. In generale ci vado troppo forte, decanto quello che faccio calcando troppo le tinte.
Mentre sproloquio le statue mi guardano come se le mie frasi fossero un enigma, come se io stesso fossi un mistero da risolvere. Quasi che il mio disquisire tecnico, che chiaramente le annoia, fosse la traduzione di una trama nascosta con tutt’altri significati, ben più importante della sua maschera. Le mie parole non occultano però altre parole, o almeno non con il mio beneplacito. I monumenti avvezzi a cercare le parole dietro le parole (come certi maniaci sollevano le pietre per vedere se sotto c’è una lumaca), socchiudono allora gli occhi di marmo come si fa davanti a un problema che non riusciamo ancora a svelare. Mi nasce l’impressione che me ne vogliano, a giudicare da certi scivolamenti delle labbra e da certi respiri. Ma forse hanno semplicemente la sensazione di perdere tempo, si dicono che dietro quella mia opacità (la chiarezza per loro è colpevole buio fumogeno, o pazzia), non c’è niente.
Parlando al cospetto di questi obelischi turgidi di loro stessi sento l’oppressione della loro abitudine a servirsi degli uomini come pedine (e delle azioni come raffiche di mitragliatore), del loro esplicito non esitare di fronte a nulla, pur di perseguire voraci strategie ascensionali. Ma naturalmente sento anche il peso del mio bisogno di costruirmi castelli in aria, di sfuggire alle responsabilità, di isolarmi per proteggere i miei deliri, di rubare a destra e a manca lacerti di senso da incollare su quello che faccio, mimetizzando così la mia inanità, il mio pedissequo fallimento esistenziale. In fondo sono anch’io un essere interessato, un furfante, mi dico. E è proprio questa seconda percezione, riguardante solo me stesso, che finisce di solito per prevalere, delle bramosie dei potenti non mi importa più di tanto (e a essere bistrattato ci sono abituato: si direbbe anzi che mi piaccia). E’ normale che loro tramenino per acquisire ancora più potenza e diventare ancora più temibili, è la loro ragione di vita, mi dico. Quello che non è normale è che io racconti ancora a me stesso delle panzane: in fondo anch’io mi servo della terra come alibi, anch’io penso solo a me stesso, mi dico.
Poi finalmente posso scappare. Se i cordoni della borsa sono stati sciolti (o anche solo me ne resta la speranza), sono felice, e con cristallina incongruenza penso alla terra, come un padre potrebbe pensare al figlio per il quale fatica tanto. Adesso potrò fare altre buche, mi dico, e già mi immagino di essere seppellito fino alle spalle, con i capelli scompigliati da una brezza reduce dalle pieghe di odorose colline. Ma anche se non ho ottenuto niente sono soddisfatto, perché posso finalmente sbucare all’aria aperta: quei labirinti burocratici che percorro a ritroso mi appaiono meno claustrofobici di prima, quasi normali, quasi belli. I poster e i manifesti non mi danno più noia con la loro menzognera versione del mondo. E anche le facce che incontro mi sembrano meno mostruose. Certo non sono gioiosi, non sono entusiasti, ma sono pur sempre visi umani, mi dico.


(questo racconto è stato pubblicato su “Lo Straniero” di luglio 2015, numero 181, con il titolo “Gli incontri per la terra”. Noi l'abbiamo ripreso dal sito  http://www.nazioneindiana.com/2015/08/31/gli-incontri-per-la-terra-autismi-della-terra-1/

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