Malgrado fosse un’abitudine diffusa e la famiglia Almodóvar
vivesse in umili condizioni, tanto da mandare il figlio in seminario pur
di farlo studiare, quando Pedro, a otto anni, si è trasferito coi
genitori in Estremadura non ha mai abitato in una grotta, al contrario
di quello che racconta il suo ultimo film. È un dettaglio da mettere
subito in evidenza, per cominciare a capire il tipo di rielaborazione
narrativa e cinematografica compiuta da
Dolor y gloria. Che usa
materiali autobiografici, ma non è, prima di tutto, la messa in scena
di una confessione o di un resoconto retrospettivo. È un progetto più
complesso, in un certo senso anche più ambiguo e perciò più bello,
perché è un’opera su come possiamo entrare in contatto con il nostro
passato, con i desideri e le sofferenze che lo hanno fatto esistere, con
i buchi reali e metaforici da rammendare, o con le ferite da far
chiudere, servendoci, lungo il corso della vita, di immagini, finzioni,
romanzi o disegni di noi stessi che, come in uno spettacolo pirotecnico,
non sono mai fermi, o identici, ma possono spostarsi, variare e
amalgamarsi, al pari dei colori che, nei titoli di testa – la prima cosa
che vediamo – si mescolano e si reimpastano, disegnando nuove forme,
come in un caleidoscopio.
Non è la casa vera dunque, il soggetto in scena,
ma lo sguardo del cinema, che reinventa la dimora d’infanzia e la
rimette in vita, dentro un nuovo campo della visione, situandola, per
l’appunto, in una dimensione sotterranea e in un certo senso fluida,
proprio come l’elemento in cui si inabissa la macchina da presa,
all’inizio del film, inquadrando un uomo sottacqua, in piscina, a occhi
chiusi, con una lunga cicatrice sulla schiena. È lì, sotto la vita
reale, che apre gli occhi il film, articolando una trama circolare in
cui si alternano, combinandosi attraverso varchi sensoriali che
ricordano le intermittenze proustiane (il contatto con l’acqua, il suono
di un pianoforte, la vista di qualcosa) due piani narrativi: quello del
tempo presente e quello del tempo ricordato. L’azione di aprire e
chiudere gli occhi (perché si è sott’acqua, o ci si addormenta, o si
perdono i sensi per effetto della droga, della febbre e dell’anestesia) è
il dispositivo visuale che funziona da connessione tra i due piani.
Il primo livello narra la storia di Salvador Mallo (Antonio Banderas), un
alter ego
di Almodóvar, vale a dire un regista famoso, nel pieno della gloria, ma
invecchiato, sofferente e in crisi creativa, che decide, trentadue anni
dopo il primo film (
Sabor), di incontrare Alberto Crespo
(Asier Gómez Etxeandía), il protagonista del suo debutto – avevano
litigato perché l’attore si drogava. Va a trovarlo a casa e lui stesso,
per la prima volta in vita sua, comincia a fumare eroina. Qualche giorno
dopo, Alberto cerca a sua volta il vecchio amico, legge di nascosto un
testo di Salvador e gli chiede di poterlo usare per farne uno spettacolo
teatrale. Si tratta di un racconto intitolato
Adicción (
Dipendenza)
e dedicato al più grande amore di Salvador: Marcelo, tossicomane,
incontrato nei primi anni Ottanta, e sparito dalla vita del regista da
più di trent’anni. Proprio a una replica del monologo firmato e
interpretato da Alberto, per una casualità legata alle procedure di
un’eredità che lo riportano da Buenos Aires a Madrid, arriva tra gli
spettatori anche Federico, cioè il vero Marcelo, vale a dire l’amante
perduto di Salvador, che si riconosce nella storia, capisce che è stata
scritta da Salvador e decide di cercarlo e incontrarlo. Dopo una
telefonata, un appuntamento nella bella casa del regista piena di opere
d’arte, e una lunga notte di emozionanti ricordi restituiti alla parola,
Federico rivela di non aver più avuto esperienze omosessuali e di avere
una famiglia, dei figli e una nuova compagna: di essere felice,
insomma; intanto che Salvador, rispecchiandosi nell’ascolto di questo
racconto, vive il dolore tributato alla sua gloria, e ci fa sentire,
guardandola, tutta la sua malinconica solitudine. Ma, sulla soglia dei
saluti, arriva l’emozione di un ultimo bacio, solo un attimo, per
sentire, a occhi chiusi, il desiderio dell’altro; poi l’addio. Salvador
decide di smettere di drogarsi, di curarsi meglio, di farsi operare per
una sporgenza ossea che gli occludeva l’esofago, e di tornare,
finalmente, a dirigere un nuovo film.
Dolor y gloria mescola il dramma alla commedia, perché
questo primo livello di racconto, per tutto l’arco narrativo del film,
si intreccia con un secondo livello composto da nove distinte sequenze
risfogliate come in un sogno. È il piano narrativo del tempo ricordato,
nel corso del quale
Dolor y gloria, intanto che racconta gli
eventi del primo livello della storia, mette in scena anche alcuni
momenti significativi della vita di Salvador. Si comincia dalla prima
infanzia, a partire da un momento originario da Paradiso perduto, con la
madre e altre donne che lavano i panni al fiume; in un secondo
passaggio ulteriore il regista personaggio diventa anche narratore, e
racconta l’entrata nel coro del collegio; andando avanti, i ricordi
procedono a gomitolo anziché lungo una linea, perché il terzo momento
rivissuto, vale a dire l’epoca del trasferimento nella grotta, nella
realtà storica era accaduto prima dell’andata in seminario (seconda
sequenza). Proseguendo (quarto passaggio), ecco l’incontro con Eduardo,
un giovane imbianchino – pittore analfabeta al quale il bambino
insegnerà a leggere e scrivere e per il quale vivrà la prima
inconsapevole forma di desiderio; la rabbia per l’andata in collegio
(quinto momento, ma anteriore, cronologicamente, al secondo); e la
madre, in vecchiaia (sesto passaggio), quando la donna viene a vivere,
prima della morte, a casa del regista, dove Salvador/Pedro si prende
cura di lei; l’ospedale (settimo inserto); la parte (l’ottava), di nuovo
a ritroso, risalente a quando il bambino è stato ritratto dal muratore,
in un disegno che, nella biografia effettiva di Salvador, il
protagonista ritroverà e acquisterà, dopo più di mezzo secolo, a
un’esposizione di arte popolare. Dietro il disegno si legge una lettera
di Eduardo, mai consegnata al suo destinatario. Proprio dopo questo
ritrovamento, e dopo la scelta, pacificante, di non andare a cercare il
giovane per il quale aveva provato un primo desiderio, ma di farne
semmai un film, ecco che arriva l’ultimo prelievo dal tempo perduto (il
nono), in cui il film riprende e ripropone la situazione già raccontata
nel terzo salto all’indietro, ma mostrandolo, stavolta, in una
prospettiva diversa e distante, perché l’inquadratura si allarga,
oltrepassando i bordi della storia rappresentata sinora e mutando un
nuovo campo della visione, perché adesso ci fa vedere la finzione: una
fonica, le apparecchiature di regia, il volto del regista che controlla
la ripresa. Ci troviamo, dunque, in un film dentro a un film, o intorno
alla realizzazione di un film. Tecnicamente, siamo in piena
metanarrazione: il film contiene sé stesso, l’opera è contenitore e
contenuto. Ma di cosa? Qui sta il punto e la grandezza di
Dolor y gloria,
un’opera straordinariamente costruita e stratificata, in senso
narrativo e visivo, ma non per un formalismo compiaciuto di sé e basta.
In questo film la prima battuta che sentiamo è quella di una
lavandaia, un’amica della madre, che dice «vorrei essere un uomo per
poter fare il bagno nuda» (situazione che, effettivamente, accadrà nella
scena chiave). Ciascuno dei personaggi principali passa il tempo a
rintracciarsi (Salvador con Alberto, e viceversa; Federico con Salvador,
il muratore, invano, con Salvador); tutti si appropriano di identità
altrui o falsificano la propria; in questo film che tante volte
assomiglia, anche drammaturgicamente, a una galleria di specchi e di
ritratti sdoppiati (ben tre sono i volti della madre: quello di Penélope
Cruz, quello di Julieta Serrano e quello della vera madre ritratta
nella foto sul comodino), il rapporto tra realtà e finzione non è più
impostato in termini di polarità, ma di reciprocità circolare. Federico è
il vero Marcelo, ma anche Marcelo è il falso Federico; Alberto è il
falso Salvador, e viceversa. È come se il passato diventasse una valle
di echi, di cui i molteplici ritratti, le immagini e gli sdoppiamenti
messi in scena creano una specie di vertigine in cui dolore e gloria non
sono più due attori, due situazioni, ma sono i volti di un unico corpo
di illusioni che, proprio come il cinema, sono abitazione e
habitus,
sono finzioni e verità che stanno assieme. È così che la finzione
diventa, può diventare, la forma più vera di racconto di sé, oltre che
la compagna più rassicurante («non posso vivere senza i miei quadri»).
L’uovo da sarta con cui la madre rammenda il calzino del figlio, e
che, prima di morire la donna lascerà in eredità a Salvador/Pedro è il
simbolo di una creatività che ripara, che ricuce, che chiude gli
strappi. Precisamente come fa il cinema, che riconcilia con il passato.
Non recupera e basta: proietta, finge, reinventa scene anche mai
accadute (mai la vera madre di Almodóvar può avergli detto di essere
stata delusa dal figlio), ma che servono a curare, a cicatrizzare il
dolore, a estrofletterlo, a spostarlo: proprio come delle
madeleines nere,
come il film fa dire alla madre anziana, a un certo punto, in maniera
evidentemente inverosimile eppure, in senso cinematografico,
meravigliosamente vera.
Così, quei nove inserti che inframezzano il primo livello della storia non sono, allora,
ricordi ma
proiezioni,
reinvenzioni romanzesche del passato (il protagonista non fa che
leggere romanzi) attraverso le quali curare il dolore: della solitudine,
e di un senso faticoso dell’identità e del desiderio omosessuali che
non hanno mai potuto essere vissuti “normalmente”, e non sono stati
veramente accettati, magari nemmeno dalla famiglia (era lì che viveva,
nella scena ricostruita, la fantasia della delusione della madre), forse
persino combattuta (la madre non ha mai fatto arrivare il disegno al
suo destinatario), o accolta solo apparentemente da un mondo che
riconosce valore pieno di famiglia affetti, calore, eredità, molto
spesso, solo dentro un sistema di regole sociali eteronormate.
Il volto di Salvador/Pedro che ascolta il racconto di Federico, quel
volto che pare che traguardi la felicità del suo antico amante per
specchiarsi nella sua solitudine, è una delle più belle prove d’attore
degli ultimi anni. Perché Banderas è davvero bravo, ma pure perché tutto
il film prepara e compone il clima di quella scena, che per la capacità
di resa di una ferita dell’anima potrebbe essere avvicinata
all’interpretazione di Anna Magnani nell’episodio
La voce umana, di Rossellini (
L’amore,
1948), da Cocteau: in entrambi i casi una situazione scenica di tipo
teatrale, in un interno notturno, e una regia che sovraespone, in tutto
il suo isolamento fisico e simbolico, qualcuno che usando il proprio
volto, trasformato in uno schermo che guardiamo, ci fa fare esperienza
di una lacerazione tra presenza e assenza, tra la storia dei propri
ricordi, e, in controcampo, la storia diversa raccontata da un altro che
con le sue parole sta svuotando la tua pretesa di un amore assoluto.
Tutto era ed è finzione, dunque, ma non vuol dire che tutto fosse e
sia falso. Anche per questa strada, nell’opera di Almodóvar, tutta la
vita è cinema. Proprio questa idea di fondo è trasformata da
Dolor y gloria in
una dichiarazione d’amore incondizionato per la finzione come sorella
di sangue del dolore e della gloria. Tant’è vero che l’empatia profonda
tra gli spettatori e il film non nasce dall’interpretazione di Banderas
che fa Almodóvar, ma dal contrario. Il vero attore, la vera maschera che
ci fa provare il dolore dentro la gloria non è Banderas ma la sua
controfigura fuori campo. È proprio Pedro, è lui l’attore: Pedro
Almodóvar, ovvero il suo cinema.
Testo ripreso da https://www.doppiozero.com/materiali/amore-di-finzione