Hannah Arendt, gli equivoci su Marx e l'insostenibile banalità del male
Donatella Di Cesare
Le polemiche che Hannah Arendt ha suscitato in vita, e alle quali aveva quasi finito per abituarsi, non si sono mai interrotte e, anzi, con la pubblicazione degli scritti postumi, sono andate persino acuendosi. Contribuirà a riaccendere il dibattito anche il volume Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale appena uscito per Raffaello Cortina. Si tratta di due testi: uno più breve, di carattere introduttivo, uno più lungo e sistematico, in cui Arendt punta a far emergere i nessi che legano Karl Marx a tutta la riflessione politica precedente, da Platone a Hegel. Furono redatti entrambi in occasione delle conferenze tenute all’Università di Princeton nell’autunno del 1953.
Esistono
elementi totalitari nel marxismo? E in che modo potrebbe esserne
responsabile Marx? Forse Arendt aveva intenzione di scrivere un
volume su questo tema — avverte Simona Forti che ha curato il
volume. È ovvio, d’altronde, attendersi una risposta dalla
filosofa che ha sostenuto la tesi dei due totalitarismi,
sottolineando l’affinità tra comunismo sovietico e nazismo.
Ripresa da Martin Heidegger, e rilanciata nell’America del
maccartismo, questa tesi, rispondente allo spirito della «guerra
fredda», non regge né sotto il profilo storico né sotto quello
filosofico ed è stata perciò oggetto di numerosissime critiche
nella filosofia degli ultimi decenni — da Günther Anders a Jacques
Derrida. Gli echi polemici non si sono mai spenti. Se ne trova
traccia anche in volumi pubblicati di recente, come quello di Tama
Weisman "Hannah Arendt and Karl Marx"(Lexington Books, 2013).
Non
si può imputare a Marx la deriva dello stalinismo — sostiene
Arendt. «Chiunque tocchi Marx, tocca la tradizione del pensiero
occidentale». E questo perché la linea che unisce Aristotele a Marx
è più diretta di quella che unisce invece Marx a Stalin. Ma la
posizione di Arendt appare più ambigua e complessa, come emerge nel
confronto tra Aristotele e Marx su cui riflette Adriana Cavarero
nella postfazione. In un celebre passo Aristotele definisce l’uomo
un «animale politico che possiede il lógos », che ha la parola, e
perciò può partecipare alla vita politica della pólis, della
città. Secondo Marx invece l’uomo è l’animale che lavora e
anzi, su questo animal laborans è incentrata la sua opera.
Ecco,
dunque, per Arendt, la grandezza, ma anche il limite di Marx: aver
visto nel lavoro ciò che distingue gli umani dagli animali.
Grandezza perché Marx, sulla scia di Hegel, comprende che, nel mondo
che va inaugurandosi con il capitalismo, il lavoro diventa l’asse
centrale della vita e tutti sono destinati a diventare lavoratori. Il
limite sarebbe, però, nel modo di intendere il lavoro che, se da un
canto viene glorificato — e l’erede di questa glorificazione è
l’Unione Sovietica —, dall’altro viene visto come una faticosa
costrizione. Quindi per Marx «non la libertà, bensì la necessità
è ciò che rende umano l’uomo». E di liberazione si potrà
parlare solo quando l’umanità sarà giunta alla fase finale della
storia, solo quando sarà stata prodotta, con lacrime e sangue, la
società senza classi, il regno della libertà. Non si tratta, per
Arendt, solo della contraddizione tra la necessità ineludibile e la
libertà sempre rinviata. Marx universalizza il lavoro, intravvede e
profetizza una «società dei lavoratori», dove le differenze
vengono abolite, ma dove sarebbe appunto il lavoro ad accomunare, non
la parola. Proprio perché concepisce una sfera politica dove viene
meno il ruolo decisivo del lógos, aprirebbe la strada al
totalitarismo.
In
questa interpretazione Marx appare un Giano bifronte che per un verso
è rivolto alla tradizione della filosofia politica occidentale, per
l’altro guarda già sinistramente al dominio totalitario. Comunque
la si pensi, per nulla convincente è l’immagine di un Marx
aristotelico tardivo che situa in un futuro indefinito la vita della
pólis greca. Piuttosto è Arendt che riprende una concezione
metafisica dell’essere umano inteso come «animale razionale»,
corpo e anima, che Heidegger aveva già criticato nella sua Lettera
sull’«umanismo». Perché l’umanità dell’uomo non può
essere ridotta a una animalità, seppure contraddistinta dalla
parola. L’essere umano va ripensato. E Heidegger lo fa anche
attraverso Marx, in particolare il giovane Marx dei Manoscritti
economico-filosofici del 1844.
Poco
convincente è anche la tesi, che Arendt ha sostenuto nel saggio La
tradizione e l’età moderna (contenuto nel volume Tra
passato e futuro, edito da Garzanti), secondo cui Marx pensa la
politica solo come dominio e glorifica la violenza. È probabile che
il dibattito intorno ad Arendt, che ha già toccato questi temi, si
concentrerà ancor più, nel prossimo anno, sul nodo
filosofico-politico della rivoluzione. Com’è noto Arendt ha
scritto un libro che è ormai un classico Sulla rivoluzione
(pubblicato da Einaudi). Il suo giudizio, però, sul fallimento della
rivoluzione francese e di quella russa, e sul successo di quella
americana, è sempre più nel mirino. La discussione sul periodo del
terrore e sulla «dittatura» di Robespierre, in cui Arendt vede a
torto il preludio di quella bolscevica, è stata avviata in Francia
dal libro di Sophie Wahnich La liberté ou la mort, del 2003,
a cui hanno fatto seguito molti studi critici. Arendt, insomma, non
smette di far parlare di sé.
Aumentano
a ritmo serrato le pubblicazioni che fanno ormai del suo pensiero un
punto di riferimento imprescindibile nella filosofia continentale. Le
direzioni sono soprattutto due. La riflessione sui fenomeni globali,
a partire da quelli dei profughi, della cittadinanza, dei diritti
umani, prende le mosse dalle sue idee. Dall’altra parte va
assumendo contorni sempre più nitidi il profilo di una filosofa che
si sottrae a ogni etichetta e a ogni classificazione e che è stata
una apolide del pensiero. Riesce perciò difficile seguire Emmanuel
Faye che, nel suo ultimo libro Arendt et Heidegger, scritto
dopo i Quaderni neri, intenta un nuovo processo, questa volta
non contro Heidegger, bensì contro la sua allieva, rea di non aver
preso abbastanza le distanze dal maestro e di trovarsi perciò in una
insanabile contraddizione rispetto alla posizione assunta contro
Adolf Eichmann.
Proprio
la «banalità del male» continua a essere uno dei temi caldi. Non
solo perché il suo ritratto di Eichmann appare sempre più datato.
Oggi sembra davvero discutibile ridurre le motivazioni ideologiche e
politiche come fa Arendt: «L’ideologia non ha avuto, credo, una
grande importanza. Questo mi sembra l’aspetto decisivo». Nel suo
libro Eichmann vor Jerusalem, pubblicato prima in Germania,
poi negli Stati Uniti, la storica Bettina Stangneth ha aspramente
criticato questa visione. Risponde all’esigenza di liberare quella
vicenda dall’ombra di Arendt il saggio Il processo Eichmann
di Deborah Lipstadt (Einaudi). Ma le questioni aperte sono in
particolare due. Se Eichmann era solo un burocrate, la rotella di un
ingranaggio, come avrebbe potuto essere condannato? Arendt parla
della «scandalosa stupidità» di Eichmann, della sua «assenza di
pensiero», della incapacità di «mettersi nei panni degli altri».
Il rischio, purtroppo, è stato ed è quello di aver aperto le porte
a una parola «banalità», spesso usata a sproposito, che ha finito
non di rado per banalizzare la questione del male.
Corriere
della Sera, 27 Novembre 2016
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