E’ uscito da qualche settimana il nuovo numero di «Fillide», una rivista totalmente online che raccoglie le riflessioni sui temi della comicità e dell’umorismo. Il numero 22, leggibile qui, è dedicato al tema «Eros e comicità». Presentiamo la prima parte di un saggio di Davide Di Poce sulla poesia di Jolanda Insana. Il resto del saggio si può leggere su «Fillide», seguendo il link in fondo
La infibuli e occhieggi
la corteggi e riecheggi e la schiaffeggi
spremi spolpi e te la fai – la lingua
Jolanda Insana, Il collettame
La pupara Insana
Pupara sono
e faccio teatrino con due soli pupi
lei e lei
lei si chiama vita
e lei si chiama morte.[1]
Con queste parole Jolanda Insana, nata a Messina nel 1937 e morta a Roma nell’ottobre 2016, si presentava al mondo letterario di fine anni Settanta. Era stato Giovanni Raboni a scommettere sul suo talento, pubblicando nel 1977 Sciarra amara, sua prima raccolta di poesie, nel ventiseiesimo numero del “Quaderno collettivo della Fenice”, che il poeta dirigeva per Guanda in quegli anni.
Da allora la «pupara» Insana non ha mai smesso di pronunciarsi sulla vita e la morte con un linguaggio disturbato – una vera e propria barbarica dislalia: da Lessicorìo ovvero Lessicòrio (scritto tra il 1976 e il 1980, ma pubblicato nella sua versione integrale solo nell’edizione Garzanti del 2007) fino a Turbativa d’incanto (2012), passando per Fendenti fonici (1982), Il collettame (1985), La clausura (1987). Le opere più mature sviluppano pienamente i temi delle raccolte precedenti, Medicina carnale (1994), L’occhio dormiente (1997), La stortura (2002), La tagliola del disamore (2005), Satura di cartuscelle (2008), Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina (2009). Del 2017, postumo, è Cronologia delle lesioni 2008-2013, ultimo canto – melodia, grido, sberleffo – di una produzione poetica ricchissima.
Nell’introduzione alla raccolta d’esordio, Raboni collocava la poetessa nella «schiera dei macheronici», tra coloro che partecipano della «grandiosa “funzione Gadda” isolata una volta per tutte da Contini».[2] E in effetti nel panorama della poesia femminile che si sviluppa tra secondo Novecento e primi anni Duemila, Jolanda Insana spicca per la particolarità della sua voce:
Se la grandezza di un poeta sta, anche e soprattutto, nell’assoluta unicità della propria voce, nell’impossibilità, sempre e comunque, di confonderne il suono e il ritmo, le parole di Jolanda hanno il dono prodigioso della grazia definitiva e irripetibile di una loro pronuncia.[3]
Questo scriveva di lei Dario Tomasello nel 2009 in una raccolta di saggi dedicati alla poetessa, con cui si intendeva celebrare la pubblicazione dell’opera insaniana nella prestigiosa collana degli Elefanti di Garzanti nel 2007[4].
Il pastiche linguistico
L’operazione linguistica compiuta dalla Insana è, infatti, delle più raffinate e trasgressive che abbiamo avuto a partire dalla seconda metà del Novecento: «bestemmia» e «insulto» sono le parole che la scrittrice stessa ha trovato per definire la sua irriverente voce poetica.[5]
«Tra fissità e gesticolazione, declamato e parlottìo, solennità araldica e caricatura espressionistica»[6] si muove la poesia di Jolanda Insana e tra due lingue, la lingua materna – il dialetto siciliano – e l’italiano della tradizione letteraria, lingua seconda.
Nella scuoletta di Monforte le parole che leggeva sul sillabario acquistavano un senso solo convertendole in siciliano […]. Dalla scuola di Messina[7], invece, ricaverà altre parole, greche e latine, che poi tradurrà nella lingua scoperta alla scuoletta, l’italiano.[8]
Ma è la stessa autrice a offrire spunti di riflessione a questo proposito:
Meschina quella casa
dove la lingua si rallegra e canta
e il dialetto tace. [9]
Nella sua poesia il lessico dell’italiano medio-alto si accosta a forme diverse: espressioni latine (per restare nel confine della stessa opera, Fendenti fonici, ci sono espressioni di tono apparentemente solenne: «male dormit poeta qui non manducat»), neologismi di ispirazione popolare («triccheballacco», «tricchetracche»), neologismi appartenenti al registro basso («cacasegni», con riferimento ai poeti che si rifanno alla tradizione), intercalari tuonanti come bestemmie («è giocoforza perdìo dare fendenti fonici»), latinismi di impronta maccheronica (pensiamo al verso «de cultello ad pistolam»[10]); sicilianismi («amanti teneruzzi e ruvidazzi»; oppure pensiamo alla «sciarra» che dà il titolo alla raccolta d’esordio: è un sicilianismo che vuol dire «alterco aspro, violento», «rissa»); lessico della critica e degli studi linguistici risemantizzato o decontestualizzato («gli altrui topoi rosicano la carta», «sento che finirò olofrastica»).
Nel pastiche della Insana non mancano, inoltre, riferimenti alla letteratura alta («vorrei che tu e io uscissimo dall’incantamento», «è rimasto un passero solitario»; tre versi dopo, con chiaro riferimento leopardiano, «niente illusioni»); e a quella religiosa («le vie del sublime sono infinite»). Nella raccolta successiva a Fendenti fonici, Il collettame (1985), compare nuovamente un riferimento a Leopardi piuttosto velato, anzi, raffinato:
ordinatore di pena e di penna
il libro stempra il mio barbarico ondamento
ma la fantasia del cuore non è buona.[11]
«Triccheballacco dell’ironia»
Come è facile notare, tutti i riferimenti alla letteratura alta sono concepiti in funzione parodica, e così i latinismi, i neologismi, il turpiloquio: questo suo fare poetico, «poesificio» per usare un altro suo neologismo, questo teatrino di pupi, questo suo «triccheballacco» è, in definitiva, un «triccheballacco dell’ironia».[12] Come i giullari della tradizione medievale, Insana, cantore senza fissa dimora e senza denti, balbettante[13], «stercoraria e nullatenente»[14], si prende gioco della “poesia” con la «p» maiuscola, quella dei poeti laureati:
Come il padrone è padrone
perché ha torto e vuole ragione
così tu sei poeta
Petrarca Petrarca
quanti guai.[15]
Al poeta che si comporta da «ruffiano pennivendolo»,[16] la Insana non può che rivolgersi rabbiosamente:
come mi tocchi
ti subisso di dissenteria
per navate labirinti portolani e così sia
vai con quella ruffiana di Melpomene e spazia[17] via
soggetto vuoto per oggetti perduti.[18]
se vuoi metterla così
e insisti con l’ispirazione
non c’è problema
lei è la cocotte dei mediocri
aspettala anche tu
come l’aspettano trafficanti e impotenti
nei vicoli più deserti
o nelle piazze più affollate
ma non fare che di me si dica
che sono descaduta
io ti apro le porte del paese reale[19]
se tu mi pisci
io ti caco
poeta senza pepe[20]
ti metti di casa e poteca
in cortigli e imbrogli
manco per pane e companatico
ma io-poesia che c’entro
con tutta questa porcheria? [21]
Ancora al poeta «leccacarte» dice:
Mi inviti a pasta e sarde
a pastiera di pasqua
e a ricotta salata
poi apri la bocca e dici cacca
pretendendo d’insegnare a spese d’altri[22]
però non scappo anche se ci fu un tempo
che mi fecero scappare per arcadie salotti e sacrestie
ma non ero io
la poesia
era la pallida e sminchiata ombra mia[23]
il cacasegni sticchioso
risbaldo rubaldo
facendo ciarlmanti frappe e bugie
recinge il suo regno di balordìa
per bettolare a tirapancia
con favolatori di lessi bollenti
e lessemi bolliti
è giocoforza perdìo dare fendenti fonici.[24]
Quel «cacasegni» può essere preso come esempio delle neoformazioni – neoplasmi del corpo linguistico – di stile insaniano: esse appartengono al registro basso ma spesso sono di ispirazione dotta. In «cacasegni» è possibile ritrovare Catullo che, nel suo Liber, in uno dei momenti di più acceso accoramento, si rivolge a un poeta oggi sconosciuto, Volusio, definendo i suoi Annali «cacata carta» (carme 36). E con l’opera di Catullo quella della Insana condivide un altro aspetto: la rabbia annidata – annodata – nei versi: «In ipsa ira vita stat» leggiamo in Medicina carnale;[25] («- perché ti arrabbi tanto? / – mi arrabbio, dunque sono» scrive in Il collettame.[26]
Nei versi della Insana riecheggiano i giambi di Ipponatte, poeta citato nelle sue prose di autocommento[27] e le invettive di Marziale, di cui la poetessa fu traduttrice: pensiamo alla polemica che il poeta del I secolo d. C. ingaggiò con coloro che praticavano l’epos e la tragedia con i loro toni seriosi e i loro argomenti abusati, lontani dalla realtà; pensiamo alla skòmma che attraversa i versi di Marziale, al suo «realismo osceno» e al suo sguardo sulle cose, ai suoi occhi che si deformano a forza di osservare un mondo deformato. Così si rivolge in questi termini al poeta con la «p» maiuscola o, come lo chiama lei, «poeta senza pepe»:
carichi fumo con la grinta junior
e ti pensi di fare sangue e latte con travaglio
fumo mi dai e fumo ti rimando[28]
carne venduta merce in ribasso
vuoi diventare come il santo del quadro
appeso al muro
e quattro di pappa cinque di nappa
metti a soqquadro comparati e baronie
e fai il soldo con la carta
nascondendo l’asso nella manica.[29]
La stessa poesia della Insana, inoltre, si sviluppa almeno fino a Fendenti fonici attraverso una sorta di piccoli componimenti numerati, molto simili a degli epigrammi.
A questo tipo di poeta, però, a differenza di Marziale – in maniera più simile al satirico Giovenale – Insana oppone un contraltare morale; a questo «fumo» lei oppone la crudezza della nudità e della «verità»:
nuda
più nuda di così
si muore
Ti piglio a maleparole semplicemente perché
andato nel campo delle esercitazioni
non sai dare coltellate di verità.[30]
Note
[1] Insana 20072, 17.
[2] Raboni 20072, 12.
[3] Tomasello 2009, 58.
[4] Nell’edizione Garzanti – Gli elefanti del 2007 sono raccolte le poesie che vanno dal 1977 al 2006, in quanto è uno dei rari casi di pubblicazione dell’opera di una poetessa ancora in vita, che nel decennio successivo non ha diminuito l’intensità del suo lavoro creativo.
[5] Insana 20072, 575.
[6] Ibidem.
[7] All’università di Messina Insana si laureò in Lettere classiche.
[8] Scrive Giovanna Ioli , cit. in Tomasello 2009, 58
[9] Insana 20072, 74.
[10] Se «cultello» è ablativo da «cultellus», «pistola» è un falso latinismo giacché in italiano «pistola» risale, attraverso il francese «pistole», al ceco «pistal», «fischietto»; e questo verso è inserito in una serie formata da latinismi autentici.
[11] Insana 20072, 180. «Egli è un poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo» (Leopardi in riferimento a Monti in Zibaldone 36). In questo modo la poetessa sembra voler dire che anche la sua poesia non è poesia del cuore, cioè sentimentale.
[12] Insana 20072, 352.
[13] «Non ho accesso alla parola / e quando con fatico dico fame / faccio vento e non posso masticare // è un’ossessione la bocca / poi che si mangia i denti e fa sputazza» (“La chiacchiera” in La stortura, Insana 20072, 342); «ho un disturbo d’articolazione / un difetto d’occlusione / chiudo male la bocca / l’occhio mi balla / mi muovo con circospezione / non ho equilibrio né sostegno» (La stortura) (Insana 20072, 394).
[14] Ibidem.
[15] Insana 20072, 155. Non a caso Giovanna Ioli ha colto questo riferimento a Petrarca per mettere in evidenza il legame tra la lingua della Insana e quella di Dante (Tomasello 2009, 59-60).
[16] Insana 20072, 121.
[17] Formazioni del genere fanno pensare ai «lapsus» caratteristici della lingua poetica di Amelia Rosselli.
[18] Insana 20072, 153.
[19] Ivi, 151.
[20] Ivi, 136.
[21] Ivi, 154.
[22] Ivi, 143.
[23] Ivi, 120.
[24] Ivi, 124.
[25] Ivi, 242.
[26] Ivi, 188.
[27] Ivi, 178-180.
[28] Ivi, 142.
[29] Ivi, 156.
[30] Ivi, 146.
Articolo ripreso da LE PAROLE E LE COSE
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