SENECA E LA CAPACITA’ DI ARROSSIRE
Mario Pintacuda
La lettura delle “Lettere a Lucilio” di Seneca costituisce sempre un arricchimento impagabile. Le epistole del filosofo, ormai ritirato a vita privata dopo gli anni passati accanto all’imperatore Nerone, sono una miniera di spunti, un costante invito alla riflessione, un’analisi profonda della condizione umana. Come ha scritto Luca Canali, si tratta di “una grande opera di poesia”, scritta “con la spenta emozione di chi, compiuti gli stessi errori e sofferti gli stessi dolori, senza perdere indulgenza, né acquistare rigore, annunzia la vittoria dell’amore per la vita germogliato nella consuetudine con la morte, della solidarietà con gli uomini senza distinzione di classe”.
Da quasi tutte le lettere si ricavano ancora oggi messaggi di una validità sconcertante, a dimostrare quanto siano risibili, inconsistenti e disinformate le affermazioni di chi frettolosamente considera obsolete e inutili le opere antiche.
La lettera 11 prende spunto da una visita che Seneca ha appena ricevuto: è venuto da lui un amico del suo destinatario Lucilio, un “giovane di buona indole”, che ha manifestato nobiltà d’animo e notevole ingegno. Chiamato però inopinatamente a parlare, il giovane “è stato preso alla sprovvista” ed è stato colpito da un improvviso turbamento, per cui “un’ondata di rossore gli è salita al viso” (“illi ex alto suffusus est rubor”). Seneca però non trova disdicevole che il ragazzo sia arrossito; ritiene infatti che la capacità di provare vergogna e pudore non abbia niente di deplorevole.
A questo punto il filosofo descrive l’emozione che può assalire improvvisamente anche gli uomini “di animo saldo”: «Ci sono uomini, anche di animo saldo, che, di fronte a una moltitudine, si sciolgono in sudore, proprio come se fossero affaticati o avessero caldo; ad altri, quando stanno per iniziare un discorso, tremano le ginocchia; altri battono i denti e hanno la lingua impacciata e le labbra appiccicate. Questi difetti non si riesce a eliminarli né con la disciplina, né con l'abitudine, ma la natura fa sentire la sua forza e costringe anche gli uomini più robusti a ricordarsi di essa a causa di quel difetto. Fra queste c'è il rossore che sale d'un tratto al volto anche di uomini autorevoli».
Non si tratta di una caratteristica solo giovanile: anche gli anziani possono arrossire; e Seneca fa degli esempi illustri: «Silla era particolarmente violento quando il sangue gli saliva alla faccia. Pompeo aveva un aspetto mite, ma davanti a una moltitudine arrossiva sempre, specie se doveva fare un discorso. Ricordo che Fabiano [= Papirio Fabiano, uno dei maestri di Seneca], chiamato come testimonio in senato, arrossì, e questa forma di pudore accrebbe la dignità del suo aspetto».
La timidezza, la vergogna, il rossore improvviso condizionano coloro che sono “di sangue eccitabile che sale rapidamente al viso”; questa caratteristica è difficile da sradicare e nemmeno la saggezza riesce a eliminarli: «per estirparli tutti, dovrebbe ottenere il completo dominio sulla natura» (aggiungiamoci che, ai tempi di Seneca, non esistevano psicoterapeuti e personal trainers…).
Un esempio lampante, per il filosofo, è costituito dagli attori: essi infatti «riproducono con parole e gesti adeguati i vari sentimenti umani, come il timore, la trepidazione, la tristezza, cercano di imitare la verecondia abbassando il volto e la voce e tenendo gli occhi fissi a terra, ma non hanno la capacità di provocare il rossore: esso non può essere né dominato, né provocato. Sono fenomeni indipendenti dalla volontà, che si manifestano da sé e da sé scompaiono; e nessuna umana saggezza può impedirli o favorirli».
Il rossore dunque non si può fingere, non è mai artefatto, non è programmabile e controllabile; tuttavia per Seneca è una manifestazione positiva proprio perché spontanea, sincera, frutto di un’emotività che è anche passionalità. Non a caso il filosofo è contento di avere visto questo flusso emozionale nel suo giovane visitatore («non è riuscito a vincere del tutto quell’intimo turbamento che in un giovane è un buon segno»).
Rileggendo la lettera di Seneca, mi chiedevo quanta gente, oggi, abbia ancora la capacità di arrossire. Arrossire di fronte alle ingiustizie, agli scandali, alle situazioni sconcertanti e deplorevoli. Arrossire quando si sbaglia, quando ci si comporta male, quando si è colti in fallo. Arrossire di vergogna quando si commette una cattiva azione, di pudore quando qualcosa dovrebbe mettere in imbarazzo, di disagio quando siamo di fronte a qualcosa di moralmente inaccettabile. La realtà odierna, spudorata, cinica, arrogante, non prevede più il rossore delle proprie azioni.
Non si vergognano certi politici di dire oggi A e domani B, facendoci credere di avere sempre detto B o dicendoci che abbiamo capito male noi. Non si vergogna chi dovrebbe dimettersi quando ne vengono smascherate le magagne e le irregolarità, ma semmai dà la colpa ad altri, con un immancabile scaricabarile per cui se tutti sono colpevoli nessuno lo è veramente. Non si vergogna chi semina odio sui social, chi disprezza il prossimo senza alcun rispetto, chi vomita fiele su tutto e tutti.
Quanto sono lontani i tempi in cui, sessant’anni fa, Giorgio Gaber cantava “Non arrossire”: “Non arrossire / quando ti guardo, / ma ferma il tuo cuore / che trema d'amor”. Oggi quasi nessuno arrossisce. Era profetico l’Amleto shakespeariano, quando si chiedeva: “O Vergogna, dov’è il tuo rossore?” (“O shame, where is thy blush?”).
Un’ultima considerazione. La lettera 11 di Seneca si conclude, come spesso capita, con un corollario, nel quale viene dichiarata l’opportunità di avere davanti a noi l’esempio di una persona autorevole, che possa farci da guida e da maestro: «Ormai la lettera esige una conclusione. Eccone una, utile e salutare, che voglio imprimerti nell'animo: “Dobbiamo rivolgere tutta la nostra stima e il nostro affetto verso un uomo onesto e averlo sempre avanti agli occhi, in modo che possiamo vivere e operare sempre come se quello stesse a guardarci”. […] Si eviterebbero molti peccati, se, quando stiamo per commetterli, fosse presente un testimone. È bene provare un sentimento di venerazione per una persona che, con la sua autorità, possa rendere migliori anche gli aspetti più segreti della nostra vita. Felice colui alla cui presenza, anzi al cui semplice pensiero, ci si corregge! […] Scegliti un uomo di cui ti piacciono le parole, il modo di vivere e il volto stesso che riflette il suo animo. Tienilo sempre davanti a te, o come guida o come esempio. Ci occorre - ripeto - una persona a cui adeguare i nostri costumi: non possiamo correggere le cattive abitudini se non ci riferiamo costantemente a una norma».
Sarebbe bello trovarne tante, oggi, di persone così: guide, maestri, punti di riferimento di alto livello morale e di profondo spessore intellettuale. Forse proprio per questo, quando (come in quest’ultimo anno) viene a mancare qualcuno che ci ha regalato emozioni, insegnamenti, sentimenti, esempi di vita, ci sentiamo tutti più poveri. Ma, in mancanza di persone così, è importante comunque il “riferimento costante a una norma”, il desiderio di avere sempre dei valori che ci facciano da guida e da faro.
E comunque, quando non riusciamo a essere perfetti, quando sbagliamo, quando siamo al di sotto dello standard che desidereremmo, quando per qualunque motivo ci sentiamo a disagio o in imbarazzo, non dobbiamo provare vergogna a vergognarci, non dobbiamo arrossire di arrossire, non dobbiamo esitare a diventare come il nanetto Mammolo.
Diffidiamo invece, semmai, di chi non arrossisce mai, di chi resta sempre impassibile, di chi si vergogna di vergognarsi.
MARIO PINTACUDA
Nessun commento:
Posta un commento