13 giugno 2021

LINGUA E GUERRA

 


Riprendo dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=41856  questo bel pezzo:

LINGUA DELLA GUERRA.                                    IL LIVIO DI MACHIAVELLI

di Andrea Salvo Rossi

 

[È uscito nel 2021, per la Salerno Editrice, il saggio Il Livio di Machiavelli. L’uso politico delle fonti di Andrea Salvo Rossi, dedicato alle manipolazioni delle fonti storiografiche antiche presenti nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Pubblichiamo un estratto del paragrafo conclusivo del terzo capitolo, dedicato alla traduzione e intitolato  Lingua della guerra, politicità della traduzione: su Discorsi, ii 16 ( pp. 184-197)].

 

Precisamente a metà del secondo libro, Machiavelli dedica un capitolo al paragone tra gli eserciti antichi e quelli contemporanei: «Quanto i soldati de’ nostri tempi si disformino dagli antichi ordini».[1] Questo capitolo inaugura una sezione piuttosto compatta dell’opera, dedicata al problema delle milizie, all’interno della quale sono svolti molti dei temi che confluiranno successivamente nell’Arte della guerra: il problema degli schieramenti durante la battaglia campale (ii 16), quello dell’artiglieria (ii 17), la superiorità della fanteria sulla cavalleria (ii 18) e, prevedibilmente, la questione delle truppe mercenarie (ii 20). In ragione dell’importanza di questi temi, i capitoli in questione sono stati esaminati soprattutto come laboratori della teoria machiavelliana della guerra: questo, concretamente, ha voluto dire dare maggior risalto ai passaggi relativi alla storia contemporanea che non agli episodi classici sui quali essi erano esemplati.

 

Questo è vero anche per il capitolo qui in esame, letto soprattutto alla luce dei passaggi dedicati alla battaglia di Ravenna, interessanti per il più vasto problema delle riscritture divergenti di episodi della storia contemporanea all’interno della produzione dell’autore.[2] Ciò ha fatto sì che venisse trascurata una delle peculiarità di questo capitolo, ossia la presenza di più punti in cui Machiavelli riflette sulla lingua della guerra, sulla sua efficacia e sulla sua traducibilità. Per questa ragione, in questa sede si seguirà un angolo di lettura piuttosto stretto: tralasciandone l’interpretazione globale, ci soffermeremo sui punti del testo che presentano spunti di ordine metalinguistico, per capire se essi diano qualche indizio utile a capire come Machiavelli intende la pratica della traduzione. Iniziamo dal brano del capitolo in cui viene presentato l’exemplum romano:

 

La più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con alcuna nazione del popolo romano, fu questa che ei fece con i popoli latini nel consolato di Torquato e di Decio. Perché ogni ragione vuole che, così come i Latini, per averla perduta, diventarono servi, così sarebbero stati servi i Romani, quando non l’avessino vinta. E di questa oppinione è Tito Livio, perché in ogni parte fa gli eserciti pari di ordine, di virtù, d’ostinazione e di numero; solo vi fa differenza, che i capi dello esercito romano furono più virtuosi che quelli dello esercito latino.[3]

 

Machiavelli precisa subito che quello che sarà discusso non va considerato come un episodio qualunque: la guerra latina è «la più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con alcuna nazione». Combattuta dal popolo romano, che è a sua volta il più importante popolo che mai abbia combattuto guerre secondo la filosofia della storia che sorregge la struttura dei Discorsi, essa diventa una sorta di guerra ideale, di universale concreto all’interno del quale è possibile misurare il fatto della guerra in sé. Questo giudizio è attribuito allo stesso Tito Livio, che avrebbe enfatizzato la parità dei due schieramenti per dare risalto alla crucialità del conflitto che li aveva coinvolti.

 

Ci sono ben cinque punti di questo capitolo “bellico” in cui Machiavelli si attarda su questioni linguistiche di dominio traduttivo. La cosa deve avere certo qualche importanza visto che Machiavelli aveva dichiarato di voler presentare nel capitolo unicamente i fatti politicamente rilevanti dell’episodio, rimandando a Tito Livio per una esaustiva presentazione dello stesso:

 

Mostra Tito Livio, nel mostrare questa parilità di forze, tutto l’ordine che tennono i Romani negli eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello che io vi giudico notabile e quello che, per essere negletto da tutti i capitani di questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuffe dimolti disordini.[4]

 

Ciò che conta degli Ab urbe condita, dunque, è solo ciò che può servire ai «capitani di questi tempi» ed è su questo che si soffermeranno i Discorsi, da non intendersi come un’esposizione organica della storia antica, ma quasi come un’antologia di episodi selezionati in base alla rilevanza politico-militare del loro contenuto. In questo senso è interessante anche l’uso che Machiavelli fa del verbo discorrere poiché, nel concreto sviluppo del testo, esso definisce la tipologia testuale dell’opera: i Discorsi sono un attraversamento cursorio della storiografia romana perché in essa si possano reperire strumenti utili alla comprensione del presente. Tutto ciò che viene omesso non è attribuibile alla distrazione o alla poca accuratezza dell’autore, ma alla percezione che esso fosse inessenziale: per l’esaustiva trattazione della storia di Roma c’è, dopo tutto, Tito Livio e non avrebbe senso produrne un doppio con un commento continuo. Non è a lettori incapaci di approcciare da soli il testo degli Ab urbe condita che Machiavelli si rivolge, ma a quei lettori che volessero intendere il senso politico della storia antica per imparare, con essa, ad agire nel presente.

Torniamo alla nostra questione. Il primo momento del capitolo a presentare il nodo lingua-guerra è, in realtà, una traduzione piuttosto fedele di quanto Machiavelli aveva letto negli Ab urbe condita:

 

La parità che Tito Livio dice essere in questi eserciti era che, per avere militato gran tempo insieme, erano pari di lingua, d’ordine e d’armi; perché nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo, e gli ordini e i capi degli ordini avevano i medesimi nomi.[5]

 

Derivante dal seguente passaggio liviano:

 

curam acuebat quod adversus Latinos bellandum erat, lingua, moribus, armorum genere, institutis ante omnia militaribus congruentes: milites militibus, centurionibus centuriones, tribuni tribunis compares collegaeque iisdem [in] praesidiis, saepe iisdem manipulis permixti fuerant. per haec ne quo errore milites caperentur, edicunt consules ne quis extra ordinem in hostem pugnaret.[6]

 

Come in Livio, così in Machiavelli il primo termine di paragone tra due eserciti è il fatto di condividere la medesima lingua («lingua congruentes», «pari di lingua»). Questa comunanza deriva dal fatto che gli eserciti dei due schieramenti avevano «militato gran tempo insieme» («saepe iisdem manipulis permixti»). Livio chiarisce che ciò rappresentava un problema dal punto di vista eminentemente pratico: condividere la lingua voleva dire poter intendere i comandi dei generali avversari e confonderli con i propri, ragione per cui fu esplicitamente vietato ai soldati di combattere extra ordinem, cioè al di fuori della posizione assegnata. Machiavelli non spiega, invece, quale sia la ragione per cui un paragone tra due eserciti debba tener presente anche il dato linguistico, ripetendo però – fuori dalla stretta osservanza del testo liviano – che «gli ordini e i capi degli ordini avevano i medesimi nomi». Nel segno della lingua di guerra si apre e si chiude la prima incursione nel testo di Livio: le cose e i nomi delle cose rendono identici lo schieramento romano e quello latino, tanto che – dirà Machiavelli nel prosieguo del ragionamento –  ci sarà bisogno di «qualche cosa istrasordinaria» perché uno dei due possa ottenere la vittoria sull’altro. Per ora tralasciamo la soluzione proposta da Machiavelli e continuiamo la lettura. Dopo aver presentato la cornice storica del ragionamento, l’autore si attarda su una lunga descrizione dello schieramento delle truppe romane nel quale, di nuovo, troviamo considerazioni di ordine linguistico:

 

Dico adunque che per il testo di Livio si raccoglie come lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere: e nominavano la prima astati, la seconda principi, la terza triarii, e ciascuna di queste aveva i suoi cavagli. Nello ordinare una zuffa, ei mettevano gli astati innanzi; nel secondo luogo, per ritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi; nel terzo, pure nel medesimo filo, collocavano i triari. I cavagli di tutti questi ordini gli ponevano a destra e a sinistra di queste tre battaglie; le stiere de’ quali cavagli, dalla forma loro e dal luogo, si chiamavano «alae», perché parevano come due alie di quel corpo. Ordinavono la prima stiera, degli astati, che era nella fronte, serrata in modo insieme che la potesse spignere e sostenere il nimico. La seconda stiera, de’ principi, perché non era la prima a combattere, ma bene le conveniva soccorrere alla prima quando fussi battuta o urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi e di qualità che la potessi ricevere in sé, sanza disordinarsi, la prima, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza stiera, de’ triarii, aveva ancora gli ordini più radi che la seconda, per potere ricevere in sé, bisognando, le due prime stiere de’ principi e degli astati. Collocate adunque queste stiere in questa forma, appiccavano la zuffa: e se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano nella radità degli ordini de’ principi, e tutti uniti insieme, fatto di due stiere uno corpo, rappiccavano la zuffa. Se questi ancora erano ributtati, sforzati, si ritiravano tutti nella rarità degli ordini de’ triari, e tutte a tre le stiere, diventate uno corpo, rinnovavano la zuffa; dove essendo superati, per non avere più da rifarsi, perdevano la giornata. E perché ogni volta che questa ultima stiera de’ triarii si adoperava, lo esercito era in pericolo, ne nacque quel proverbio: «Res redacta est ad triarios», che a uso toscano vuole dire: «Noi abbiamo messa l’ultima posta».[7]

 

Come si vede, Machiavelli ritorna su problemi di comprensione e traduzione delle parole della guerra per ben tre volte. La prima considerazione è relativa alla partizione generale delle truppe: «lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere». La parola latina cui allude questo passo è, ovviamente, acies […]. Questa attenzione al tecnicismo linguistico, molto rara nei Discorsi, è sempre relativa a fatti di guerra: nel capitolo successivo a quello che stiamo leggendo, ad esempio, Machiavelli, ragionando sulle battaglie campali, dirà che esse sono «chiamate ne’ nostri tempi, con vocabolo francioso, giornate, e, dagli Italiani, fatti d’arme»;[8] ancora nello stesso capitolo, nel commentare la tendenza dei suoi compatrioti a gestire l’assedio di una città in piccoli reparti, dirà che gli italiani «spicciolati si conducano alle battaglie, le quali loro, per nome molto proprio, chiamano scaramucce»,[9] riferendosi all’etimologia del lemma, probabile diminutivo di “scherma”.

 

La seconda considerazione è relativa al posizionamento dei reparti di cavalleria delle tre divisioni: essi sono collocati lateralmente alle tre file di fanti e dunque, precisa Machiavelli «dalla forma loro, e dal luogo, si chiamavano alae perché parevano come due alie di quel corpo».

 

Ultima considerazione di ordine linguistico di questa seconda sequenza del capitolo è la versione «ad uso toscano» del proverbio «res redacta est ad triarios» che, seguendo Machiavelli, vorrebbe dire «noi abbiamo messa l’ultima posta». Già in Livio troviamo un riferimento alla natura proverbiale dell’espressione: «si apud principes quoque haud satis prospere esset pugnatum a prima acie ad triarios se sensim referebant; inde rem ad triarios redisse, cum laboratur, prouerbio increbruit».

Le osservazioni sparse nel capitolo precipitano poi su una sorta di bilancio conclusivo, nel quale ancora una volta Machiavelli propone una riflessione sul linguaggio militare:

 

E benché queste cose paiano facili ad intendere, e facilissime a farsi, nondimeno non si è trovato ancora alcuno de’ nostri contemporanei capitani che gli antichi ordini imiti, e i moderni corregga. E benché gli abbino ancora loro tripartito lo esercito, chiamando l’una parte antiguardo, l’altra battaglia e l’altra retroguardo, non se ne servono ad altro che a comandarli nelli alloggiamenti; ma, nello adoperargli, rade volte è, come di sopra è detto, che a tutti questi corpi non faccino correre una medesima fortuna.[10]

 

Siamo alla fine di Discorsi, ii 16: Machiavelli, tirando le somme della lunga escursione presentata, sottolinea quanto sarebbe semplice imitare gli eserciti antichi, cosa che rende ancora più insopportabile la persistente incapacità dei «capitani contemporanei» nel passare dalle parole ai fatti. Dell’antica virtù militare essi hanno trattenuto solo nominalmente la tripartizione dei soldati, chiamando «antiguardo» il reparto degli hastati, «battaglia» quello dei principes e «retroguardo» quello dei triarii, ma «non se ne servono ad altro che a comandarli nelli alloggiamenti». Nell’onomastica degli eserciti contemporanei si conserva precisamente, ma oziosamente traccia di quelli antichi: nessuno però è in grado di far seguire alle parole le cose. La divisione dell’esercito è utile solo a distribuire negli alloggiamenti – cioè quando non si sta combattendo – i diversi soldati, ma sul campo di battaglia non si segue la strategia romana e le schiere italiane «si ingarbugliano insieme tutte», incapaci di sostenersi l’un l’altra durante lo scontro.

 

Questa chiusura di capitolo ci consente di leggere retrospettivamente i luoghi appena presentati. La lingua della guerra, quella che accomuna Romani e Latini, per essere efficace ha bisogno di essere innervata in un universo referenziale nel quale il significante è conseguenza del significato, senza rappresentarne un’etichetta arbitraria (com’era per le tre divisioni italiane che poi si liquefacevano sul campo di battaglia). Le divisioni latine si possono chiamare «toscanamente» tre schiere perché sono effettivamente tre ordinate file orizzontali di soldati, che hanno il compito di subentrare durante lo scontro ogni qual volta chi si trova davanti è costretto a retrocedere. Allo stesso modo le ali della cavalleria erano definite così perché «parevano come due alie di quel corpo»: il loro nome, cioè, restituiva cristallinamente la loro funzione. Se non c’è un «corpo» –  un’organizzazione coerente delle truppe nelle quali ogni schiera lavori come un organo e sia funzionale al tutto – non ha senso avere ali, poiché alla prima difficoltà l’organizzazione dello schieramento esplode e non è più possibile ritrovare una disposizione sensata delle forze in campo. In questo senso il ruolo dei triarii merita qualche considerazione ulteriore, stante il valore proverbiale di quel reparto. Si sa che per Machiavelli il problema di come disporre in campo aperto la fanteria  rappresenta un nodo cruciale: esso ritornerà nella certosina descrizione della disposizione degli eserciti in campo cui è interamente dedicato il terzo libro dell’Arte della guerra;[11] soprattutto, esso era presente nella Exhortatio ad capessendam Italiam che chiudeva il Principe:

 

È necessario pertanto prepararsi a queste arme per potersi con la virtù italica defendere da li esterni. E benché la fanteria svizzera e spagnuola sia essistimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro, ma confidare di superargli.[12]

 

L’organizzazione dell’ultima linea di fanteria nell’esercito romano consente dunque a Machiavelli di tornare su un problema che aveva, in realtà, caratterizzato molte pagine della sua produzione. Così Andrea Guidi:

 

In tutte le sue opere Machiavelli restò vincolato ad una concezione tattica della guerra centrata sulla battaglia in campo aperto, dove una numerosa fanteria di popolo in armi, educato tanto al valore civile, oltre che a quello tecnico e militare, potesse dimostrare la sua superiore virtù offensiva fondata sulla tenacia in combattimento e sul movimento coordinato delle truppe.[13]

 

La fanteria, cioè, non rappresenta per Machiavelli solo una divisione dell’esercito, ma è il correlativo oggettivo del valore dei soldati, essendo il reparto che, più di ogni altro, è legato al coraggio degli uomini che lo compongono e alla loro capacità di agire come un unico corpo collettivo. Anche nei Discorsi, il modo in cui Machiavelli motiva la necessità di questa terza fila di soldati non ha tanto a che fare con considerazioni strettamente strategiche, servendo piuttosto ad istituire una relazione tra valore delle truppe e tenuta dell’esercito durante le avversità della guerra, ossia, ancora una volta, tra virtù e fortuna:

 

I capitani de’ nostri tempi, come egli hanno abbandonati tutti gli altri ordini e della antica disciplina non ne osservano parte alcuna, così hanno abbandonata questa parte, la quale non è di poca importanza; perché chi si ordina di potersi rifare nelle giornate tre volte, ha a avere tre volte inimica la fortuna a volere perdere, e ha ad avere per riscontro una virtù che sia atta tre volte a vincerlo.[14]

 

Dotarsi di tre schieramenti ordinati vuol dire triplicare le occasioni di vittoria, perché a determinare la sconfitta dovrebbe sopraggiungere per tre volte un accidente sfortunato o presentarsi in guerra un nemico tre volte più virtuoso. La tripartizione dell’esercito, in questo passo, smette quasi di essere un accorgimento bellico – tra i tanti possibili – e dà allegoricamente conto della necessità di utilizzare ogni stratagemma per contrastare gli imprevisti della fortuna durante la battaglia.  In questo modo si può dare ragione della traduzione «ad uso toscano» del modo di dire «res est redacta ad triarios». Livio dice infatti che il proverbio si ripete «cum laboratur», quando si è in pericolo; anche Valturio, presentando questa espressione nel suo De re militari, l’aveva glossata allo stesso modo: «quando voleano significare il periculo de la battaglia, diceano essere la pugna pervenuta a gli triarii».[15] Machiavelli non dice affatto che l’espressione indica una generica situazione di pericolo, ma che essa segnala l’aver messo «l’ultima posta», l’essersi giocati –   diremmo noi oggi –  il tutto per tutto. Lo slittamento semantico è evidente e fa sistema con gli altri luoghi in cui ritorna la questione della necessità di immaginare un nuovo modo (un «ordine terzo») di disporre la fanteria in campo: per riformare gli eserciti italiani c’è bisogno di creare le condizioni perché in guerra ci si giochi ogni cosa, senza vie di mezzo o, per citare ancora Machiavelli, ricordando il rischio esiziale di «mettere in pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze».[16]

 

Chiudendo il cerchio: all’inizio del capitolo, dichiarando l’equipollenza di Latini e Romani, Machiavelli aveva sostenuto che dovette accadere qualcosa di straordinario per determinare la vittoria degli uni sugli altri. Leggiamo finalmente il passo in questione:

 

Era dunque necessario, sendo di pari forze e di pari virtù, che nascesse qualche cosa istrasordinaria che fermasse e facesse più ostinati gli animi dell’uno che dell’altro; nella quale ostinazione consiste (come altre volte si è detto) la vittoria, perché, mentre che la dura ne’ petti di quelli che combattono, mai non danno volta gli eserciti. E perché la durasse più ne’ petti de’ Romani che de’ Latini, parte la sorte, parte la virtù de’ consoli fece nascere che Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo, e Decio se stesso.[17]

 

Il cuore del problema, dunque, non è strettamente relativo alla, pur importante, distribuzione ordinata delle truppe sullo scacchiere di guerra. Il problema, profondamente machiavelliano, è quello dell’ostinazione, cioè del modo in cui si riescono a persuadere i soldati che, in una determinata battaglia, la ritirata non è consentita ed è necessario combattere fino alla vittoria o alla morte. Questo problema attraversa i Discorsi da parte a parte ed è su di esso che si sviluppano le successive considerazioni militari: se la fanteria è preferibile alla cavalleria è, prima di tutto, perché essa è più ostinata e meno propensa alla fuga di quanto non sia una divisione costretta a dipendere dai capricci di un animale;[18] se le truppe mercenarie sono inferiori alle armi proprie è perché, inevitabilmente, esse sono meno propense alla totale dedizione, combattendo per denaro e non per una profonda convinzione circa la giustezza e l’urgenza della guerra; la brutalità dei sacrifici che i popoli antichi compivano prima di una battaglia è uno stratagemma valido perché esso soffoca nel sangue ogni titubanza nel combattimento;[19] un esercito con tre ordini è migliore perché, in esso, ogni ritirata ricostruisce la prima linea impedendo per tre volte che ogni battuta d’arresto diventi una fuga precipitosa.

 

Tutti i riferimenti alla lingua della guerra presenti in questo capitolo fanno sistema: essi pongono il problema del rapporto tra efficacia delle parole ed efficienza dei referenti che quelle parole indicano. La lingua, d’altronde, viene presentata da subito in questo capitolo come dispositivo di guerra, come ciò che consente la trasmissione degli ordini dai generali ai soldati. Essa è registrata immediatamente sul punto di tradursi in azioni concrete ed è da questa prospettiva che diventa interessante nel confronto tra l’esercito romano e quello latino.

 

D’altro canto che la lingua fosse uno strumento di potere con il quale bisogna fare i conti Machiavelli lo aveva già detto nel capitolo terzo del Principe, ponendo il problema della «disformità di lingua» come uno dei nodi con i quali deve fare i conti chi si trova a governare un «principato misto»:

 

Dico pertanto che questi stati, quali acquistandosi si aggiungono a uno stato antico di quello che acquista, o ei sono della medesima provincia e della medesima lingua o non sono. Quando sieno, è facilità grande a tenerli, maxime quando non sieno usi a vivere liberi: e a possederli sicura mente basta avere spenta la linea del principe che gli domina va, perché, nelle altre cose mantenendosi loro le condizioni vecchie e non vi essendo disformità di costumi, gli uomini si vivono quietamente; come si è visto che ha fatto la Borgogna, la Brettagna, la Guascogna e la Normandia, che tanto tempo sono state con Francia: e benché vi sia qualche disformità di lingua, nondi me no e’ costumi sono simili e possonsi in fra loro facilmente comportare.[20]

 

In questo senso è possibile dire che questo capitolo alluda ad una sorta di “politicità” della traduzione. Il problema della traduzione da una lingua all’altra è, per Machiavelli, subordinato a quello della traduzione della lingua in azioni, effetti, cose. La traduzione deve esplicitamente tener conto della sua efficacia extra-linguistica: non serve tradurre Livio pedissequamente, serve che quella traduzione garantisca ancora una performatività al discorso. Non ha senso, come fanno i generali italiani, tradurre con accuratezza i nomi delle divisioni dell’esercito, se quella traduzione si atrofizza in una conservazione sterile di nomi senza essere incarnata nella “verità effettuale” della strategia di guerra. «Sono le forze che facilmente si acquistano i nomi; non i nomi le forze»[21] si legge nel primo libro dei Discorsi; e dunque: non si risolve il divario tra ordini e antichi e moderni ripetendo stancamente i nomi dei primi, ma provando a recuperarne la concreta potenza vitale.

 

Contro l’inconsistenza dell’erudizione che vede nei classici un repertorio di preziosi pezzi da museo si aprono, del resto, i Discorsi: non c’è molta differenza tra i nobili collezionisti che acquistano statue antiche per arredare la propria casa e i generali che usano antiche nomenclature unicamente per dividere i posti letto dei soldati nell’accampamento.[22] Quello che Machiavelli vuole recuperare è un uso produttivo delle parole: le alae della cavalleria devono chiamarsi così perché accompagnano il corpo della fanteria; le divisioni hanno bisogno di tre nomi perché devono essere posizionate in tre diversi raggruppamenti, ognuno con una funzione specifica. Al limite, è preferibile che la traduzione aggredisca il testo tradotto perché con esso sia possibile illuminare nuovamente un significato politico altrimenti opaco: è il caso del proverbio sui triarii, volto «ad uso toscano» evidentemente non ad verbum, ma a ben vedere nemmeno ad sensum. L’espressione idiomatica scelta da Machiavelli sposta infatti il focus dalla circostanza del fatto (il pericolo), alla disposizione etica con cui quella circostanza va abitata (giocarsi il tutto per tutto, “mettere l’ultima posta”). Machiavelli condivide con altri attori della Firenze delle guerre d’Italia questa necessità di ritrovare un’effettualità delle parole e dei discorsi della politica, quando di fronte alla crisi della repubblica le vecchie concettualizzazioni della tradizione umanistica sembrano incapaci di dire efficacemente il presente.

 

Machiavelli, Guicciardini, Savonarola sviluppano, è stato detto, una vera e propria «retorica della guerra e dell’emergenza»,[23] da intendere come il tentativo costante e mai definitivamente risolto di restituire alla parola politica la sua possibilità di presa sulla realtà. Questa urgenza non era evidentemente maturata nelle quiete stanze dell’ozio letterario, ma aveva a che fare con la cesura storica rappresentata dalla calata di Carlo VIII in Italia nel 1494. All’interno di una frattura che aveva reso inservibili gli equilibrismi diplomatici delle Signorie italiane, la ricerca di un nuovo modo di pensare e dire la politica aveva investito radicalmente tutti i tecnici di governo. Ciò che si doveva fuggire, come Francesco Senatore ha mostrato studiando le fonti documentarie della mediazione politica dell’Italia rinascimentale,[24] era il ricorso alle «parole senza effecti», con ciò intendendo il rischio di cadere intrappolati nell’artificiosità di un linguaggio ormai incapace di aderire ad una realtà sconvolta dalle guerre.

 

Tornando a Discorsi, ii 26, per concludere, si può dire che l’insistenza con cui nel capitolo Machiavelli pone nello stesso tempo il problema della lingua e il problema della guerra, il problema della scelta delle parole come indissolubile dalla scelta delle pratiche politiche, confermi l’idea che, al versante opposto di una traduzione condotta secondi i crismi della filologia, esista una politicità della traduzione. Se le parole di Livio rischiano di non essere efficaci, esse possono essere sostituite, soppresse, riordinate, sforzate sintatticamente tramite interpolazioni: ciò che conta è che alla fine di questo processo ‘alchemico’ che è la traduzione machiavelliana sia possibile ricavare dalla miniera della storia antica dei materiali non più inerenti, ma vivi, pulsanti, capaci di dare nuova linfa ad un pensiero che guarda al passato per dare senso al presente.

 

Note

 

[1] Discorsi, ii 16 1.

[2] Su quest’episodio si può ormai rimandare, anche per la bibliografia pregressa, a Fournel, Zancarini, Ravennabattaglia di, in Sasso et aliiEnciclopedia Machiavelliana, cit., vol. ii, 2014, pp. 388-391.

[3] Discorsi, ii 16 2-4.

[4] Discorsi, ii 16 9.

[5] Discorsi, ii 16 6.

[6] ‘Accresceva la preoccupazione il fatto che si doveva combattere contro i Latini, i quali avevano comuni con Roma la lingua, i costumi, la foggia delle armi, e soprattutto gli ordinamenti militari: i soldati coi soldati, i centurioni coi centurioni, i tribuni coi tribuni erano stati camerati e colleghi, frammisti negli stessi presìdi e spesso negli stessi manipoli. Per timore che questo stato di cose potesse indurre i soldati in qualche inganno i consoli ordinarono che nessuno combattesse contro il nemico fuori delle file’. Ab urbe condita, viii 6 15-16.

[7] Discorsi, ii 16 12-19.

[8] Discorsi, ii 17 2.

[9] Discorsi, ii 17 10.

[10] Discorsi, ii 16 33-34.

[11] Così la presentazione della materia per bocca di Fabrizio Colonna: «Io son certo che a volere dimostrare bene come si ordina uno esercito per far la giornata, sarebbe necessario narrare come i Greci e i Romani ordinavano le schiere negli loro eserciti. Nondimeno, potendo voi medesimi leggere e considerare queste cose mediante gli scrittori antichi, lascerò molti particolari indietro e solo ne addurrò quelle cose che di loro mi pare necessario imitare, a volere ne’ nostri tempi dare alla milizia nostra qualche parte di perfezione». (Machiavelli, L’Arte della guerra. Scritti politici minori, cit., p. 127)

[12] Machiavelli, Il Principe, cit., p. 150.

[13] A. Guidi, Dall’‘Ordinanza per la milizia’ al ‘Principe’: “ordine de’Tedeschi” e “ordine terzo” delle fanterie in Machiavelli, in «Bollettino d’italianistica», i 2015, pp. 7-18, alla p. 18.

[14] Discorsi, ii 16 20.

[15] R. Valturio, De re militari VIII: il luogo, contenuto in un’opera che Machiavelli senz’altro conosceva, è segnalato da Francesco Bausi, nell’apparato della sua edizione critica (Discorsi, nota 47, p. 401).

[16] Discorsi, i 23 1.

[17] Discorsi, ii 16 7-8.

[18]«Oltre a questo si truova, come negli uomini, de’ cavagli che hanno poco animo e di quegli che ne hanno assai, e molte volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da un uomo vile, e un cavallo vile da uno animoso; e in qualunque modo che segua questa disparità, ne nasce inutilità e disordine». Discorsi, ii 18 8.

[19] «Onde deliberarono fare l’ultima prova: e perché ei sapevano che a volere vincere era necessario indurre ostinazione negli animi de’ soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che la religione, pensarono di ripetere uno antico loro sacrificio, mediante Paulo Paccio loro sacerdote». Discorsi, i 15 3.

[20] Machiavelli, Il Principe, cit., pp. 73-74.

[21] Discorsi, i 34 4.

[22] Sulle analogie argomentative che collegano il motivo proemiale del rifiuto di una storiografia intesa come antiquariato a questo passo avevano già sollevato l’attenzione Fournel e Zancarini: «Ce qui est ici mis en évidence c’est qu’il ne suffit pas de reprendre la logique des mots si l’on ne comprend pas ce qu’elle dit de l’histoire en train de se faire. Et que les mots peuvent mourir – ou devenir de simples traces, n’intéressant que les antiquaires, quand ce qu’ils disaient ne correspond plus à une réalité» (‘Ciò che qui è messo in evidenza è che non basta riprendere la logica delle parole se non si comprende ciò che essa dice della storia nel suo costituirsi. E che le parole possono morire o diventare tracce che interessano solo gli antiquari, quando ciò che indicavano non ha più corrispondenza nella realtà. J.C. Zancarini, J.L. Fournel, La langue du conflit dans la Florence des guerres d’Italie, in Les mots de la guerre dans l’Europe à la Renaissance, ed par M. Fontaine e J.L. Fournel Geneve, Droz, 2016, pp. 259-284, alla p. 272.

[23] J.L. Fournel. Retorica della guerra, retorica dell’emergenza nella Firenze repubblicana, in «Giornale critico della filosofia italiana», s. vii, xxvi 2006, 3, pp. 389-411.

[24] Cfr. F. Senatore, Parole/Effecti: le langage de la médiation politique dans les sources documentaires de la Renaissance italienne, in Les mots de la guerre dans, cit., pp. 197-229, alle pp. 217-218.

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