Riprendiamo il nostro viaggio, con l'aiuto de il manifesto. Ritorniamo a Istanbul: un
ritorno, pieno di nostalgia, in un Oriente visitato a vent'anni, alla
ricerca di un mondo ormai scomparso. Un viaggio tra sogni e
ricordi.
Emanuele Giordana - La porta d'Oriente
Turchia e Iran, la strada
per l'Oriente 40 anni dopo. Cercando di far ordine tra ricordi e
inevitabili cambiamenti I tempi del golpe a Istanbul e quelli dello
scià a Teheran. L'Iran di Khomeini e gli oppiomani nascosti. Ostelli
e deserti. I bazar di Istanbul ieri e oggi. Merda di cavallo al posto
dell'hashish La piazza Taksim vietata da Erdogan e Mashhad, città
sacra degli sciiti alle porte dell'Afghanistan
Istanbul la magica,
Costantinopoli la bella, Bisanzio la grandiosa, la magica, la
sublime, Porta d'oro d'Oriente. Eccola che appare alle prime luci
dell'alba. Dietro, alle spalle, la frontiera greca e l'ultimo
baluardo dell'Occidente che si infrange su una bandiera con la mezza
luna del sultano.
Il profumo d'oltreconfine ti ha già investito e il primo minareto, nella città di Edirne che l'autobus per Istanbul ha appena attraversato, promette il sogno che sta per avverarsi. Ai primi abbagli del nuovo sole, tra una nebbia estiva e calda che fatica a diradarsi, appaiono le lunghe braccia al cielo delle moschee della Sublime porta, il primo vero passaggio a Est, la prima vera tappa esotica del «Viaggio all'Eden», il percorso che negli anni Settanta migliaia di giovani adolescenti e non intraprendevano per scoprire se stessi, la cultura di un altro continente e tutta la possibile gamma di droghe che si incontrava lungo quel cammino.
Il viaggio anche allucinogeno iniziava effettivamente a Istanbul, la capitale degli ottomani, la sede del Sultano, il luogo dove i Giovani Turchi avevano pensato la Turchia moderna e la città da cui Mustafa Kemal Atatürk aveva, negli anni Venti, lanciato la sua sfida all'Asia e all'Europa promettendo ai suoi ordine, ricchezza e modernità, levando il velo alle donne e il fez agli uomini e ammiccando alle dittature occidentali di Roma e Berlino che affascinavano l'Asia per essere soprattutto anti britanniche.
Istanbul era il primo vero bazar del Grande viaggio. E non solo per quello splendido mercato coperto che oggi ancora, non meno di ieri, ha conservato intatto il fascino di un labirinto di spezie, profumi e tappeti. A Istanbul trovavi il passaporto che poteva servirti, la compagnia di frikkettoni che con il Magic Bus ti portava per una modica cifra a Kabul, il passaggio su un Ford Transit, un pulmino Volskswagen, una dodoche (la mitica due cavalli Citroën), una Fiat 850. Oppure il biglietto del treno che ti portava fino a Erzurum, terra di curdi e di violenze nascoste, da cui guadagnare, dopo la lunga traversata anatolica, la frontiera iraniana (il libretto di appunti di quell'epoca dice 10 dollari da Istanbul a Teheran).
A Istanbul si comprava di tutto: sacchi a pelo e scarpe da ginnastica venduti a due lire da chi era rimasto senza soldi, passaporti rubati, stecche lisce di hashish verde essiccato, pasticche di ogni tipo in farmacie ammiccanti. Una teoria infinita di taxisti arrotondava lo stipendio scarrozzandoti a Tophane o Taksim, illuminando la notte con clacson assordanti, scaricandoti dallo spacciatore di fiducia. L'ebbrezza saliva e i ritrovi erano gli stessi raccontati da un film di Alan Parker del 1978 - «Fuga di mezzanotte» - storia vera di un giovane americano ai ferri per un chilo di «fumo» intercettato all'aeroporto, proprio nei favolosi Settanta.
All'epoca la Turchia era
un susseguirsi di golpe militari. Anche quelli turchi, come i
Colonnelli greci (ma ad Ankara eran generali), chiudevano un occhio
sul mercato che ogni giorno si consumava davanti alla moschea blu di
Solimano, al Pudding Shop (oggi ancora aperto con foto di quell'epoca
alle pareti), nelle viuzze a pochi metri dalla mirabile basilica
bizantina della Divina Sapienza (poi moschea e infine museo di
Ayasofya) o sopra l'enorme cisterna sotterranea costruita da
Giustiniano nel 532. Chiudevano un occhio ma fino a un certo punto e
se cascavi nella rete eran guai. Potevi corrompere il poliziotto che,
presumibilmente era d'accordo con lo spacciatore, ma se girava male
finivi dentro e le pene eran severissime. A volte invece si trattava
semplicemente di «pacchi», come per quella coppia marchigiana cui
avevano venduto un chilo di sterco di cavallo. Hai voglia a fumare
quell'intruglio di paglia verdognola dal gusto inequivocabile di
stalla.
Oggi la piazza Taksim, all'epoca ritrovo esclusivo per ricconi e turisti con la T maiuscola e il portafoglio rigonfio, è lo specchio delle contraddizioni della Turchia di Erdogan. Il suo partito ha obbligato i militari a farsi da parte e nel contempo è riuscito a realizzare il sogno che Atatürk aveva cominciato sperando di fare del suo paese una Germania asiatica coniugata a un risveglio panturco. Ma il prezzo da pagare per il modernismo liberista di Edogan è stato l'abbandono della laicità, una prerogativa della repubblica turca costruita dall'occhiuto Mustafa Kemal sulle rovine dell'Impero ottomano. L'effetto recente, non ancora ben compreso da noi osservatori che continuiamo a non capire le profonde trasformazioni di questo Paese, è stata un'ennesima primavera mediorientale (i turchi non sono arabi) in cui una gioventù progressista e persino ecologista ha dato scacco a un uomo che ha finito per fare la figura del satrapo. A piazza Taksim. Forse tutto ciò si sarebbe potuto evitare se la poco lungimirante visione europea avesse fatto uno sforzo per includere la Turchia nell'Unione, rinunciando alla retorica delle radici cristiane e accettando un dato di fatto, se è vero che i turchi che vivono tra le nostre genti si contano a milioni. E da anni.
All'epoca invece i turchi che tornavano dalla Germania sull'Orient Express in compagnia di giovani liceali torinesi, universitari di Glasgow, studenti di Lucerna, assomigliavano agli ultimi italiani che tornavano dal Belgio o dalla Francia dove ancora, a noi «terroni d'Europa», ci chiamavano «rital», «piaf», «macaroni». Annunciavano - quei turchi che rientravano in patria per le ferie - che dopo i Balcani e la Grecia, baluardi occidentali, saresti arrivato alla Sublime Porta, il vero ponte, sospeso su due mari, tra Est e Ovest, tra l'alba annunciata del risveglio asiatico (che avremmo conosciuto trent'anni dopo) e il tramonto europeo (cui siamo immersi adesso fino al midollo).
Allora non avresti detto che Istanbul, a quarant'anni di distanza, sarebbe assomigliata, in certi quartieri, più a Vienna che ad Aleppo (col suo splendido mercato coperto oggi bombardato dalla guerra civile) ma nemmeno che Erdogan avrebbe fatto una guerra esagerata e perdente a birra e raki, il distillato nazionale, cui ha opposto di recente l'uso ben più islamico dell'ayran, lo yogurt salato e diluito che è tra l'altro un vera delizia. Le due cose per altro si sposano divinamente nella tradizione gastronomica di una grande cucina dominata da una delle migliori miscele di té del mondo, servita in sottili bicchierini panciuti orlati da un filo dorato.
A Istanbul c'era chi già si era arenato con una siringa in un braccio o chi si era fatto fregare tutti i suoi averi da un abile cambiavalute di piazza. Altrimenti in città ci restavi tre-quattro giorni, visitavi due moschee, compravi una stecca di fumo a prezzi esorbitanti, pascolavi tra l'Old Gulhane - un alberghetto che ora è un ristorante di lusso - e il Balikesir - l'ostello con camerate militari per scarsamente abbienti - se non avevi scelto di dormire, a metà prezzo e per sconfiggere la calura, sul tetto di una pensione. Per partire si prendeva un traghetto sul Bosforo che ti portava a Üsküdar, la parte orientale della città sull'altra sponda e via col treno verso Oriente dove ti aspettava l'Iran dello Scià Reza Palhevi.
Teheran aveva pochi alberghi deputati al percorso del Viaggio all'Eden (uno in particolare, l'Amir Kabir). E a Teheran non ti fermavi proprio. Niente o quasi da fumare, una polizia efficiente e incorruttibile, una città caotica e poco affascinante, sospesa tra l'antico che andava scomparendo e la modernità voluta dai Palhevi che si erano scontrati coi mullah ed erano scesi a patti con le sette sorelle. Ci stavi due giorni sì e no a Teheran e via verso Mashhad, capitale del Razavi Khorasan, città sacra e santuario di Ali, ottavo imam dello sciismo duodecimano, ma, soprattutto, rampa di lancio per l'Afghanistan di cui già avevi assorbito il fascino nei racconti di chi tornava verso casa. Ma a starci qualche giorno di più scoprivi una realtà che non potevi certo decifrare in due giorni.
Lo Scià era laico e modernista ma governava con un pugno di ferro che non conosceva guanti di velluto e assomigliava al maglio di Istanbul o di Atene se non peggio. Ahmad ad esempio, fratello di un nostro coetaneo, aveva scoperto dopo vent'anni di onorato servizio nella macchina amministrativa dello stato, che in realtà lavorava per la Savak, il terribile servizio segreto dello Scià per cui spiavano 60mila agenti più qualche migliaio di inconsapevoli funzionari pubblici. No, povero Ahmad, le liste di nomi che meticolosamente ordinava, non erano quelle di chi non aveva pagato la bolletta della luce ma di chi andava spiato, guardato a vista, perseguito, torturato, ucciso. Quando la cosa gli venne rivelata Ahmad entrò in uno stato di depressione che curava fumando oppio da mane a sera. A casa sua scoprimmo che in realtà a Teheran il mercato clandestino degli oppiacei era fiorentissimo (e ancora oggi ci sono circa due milioni di oppiomani, quasi il 3% degli iraniani): i vecchi oppiomani «certificati» avevano una specie di tessera annonaria che consentiva loro l'acquisto contingentato dell'alcaloide ma ce n'era per tutti. Se sapevi come ungere, nessuno avrebbe detto nulla e la tua vita sarebbe passata tranquilla consentendoti di reprimere il tuo dramma personale, quale che fosse, nel fondo dell'anima.
La pipa ad oppio di Ahmad era una boccia rotonda di ceramica lavorata con un buco centrale accanto al quale si appoggiava una pasta essiccata di tariok, oppio dal colore ambrato e, a volte, di qualità sopraffina come il cosiddetto «senatore». Fumava ampie volute Ahmad dalla lunga canna infilata nella ceramica e come lui mille altri. Gli stessi che qualche anno più tardi, pur di liberarsi dello Scià e di una modernità imposta col terrore, accettarono di buon grado l'arrivo di Khomeini. Persino gli studenti di sinistra, com'era Edin il fratello di Ahmad, esultavano per l'ayatollah esiliato a Parigi. Ma poi scoprirono che anche la Savak si era fatta islamica. Un giorno Edin fu prelevato proprio dai nuovi guardiani della fede che, spulciando registri simili a quelli preparati dal fratello, avevano scoperto la sua adesione al movimento comunista o le simpatie per la stagione di Mossadeq - che aveva nazionalizzato la Anglo-Iranian Oil Company nel 1951 - soffocata dai Palhevi con l'aiuto dei servizi americani e britannici. Non tornò a casa mai più.
Difficilmente entravamo in profondità nelle cose dei paesi che attraversavamo, una riflessione venuta col senno di poi. Quell'allegra comitiva di viaggiatori, che per i motivi più svariati aveva lasciato Dublino o Catania, Parigi o Casale cremasco, si interrogava poco sulla realtà sociale e politica di Turchia, Iran o Afghanistan. Liquidavamo i regimi come «dittature» e non applicavamo a quelle realtà la stessa meditata ricerca che avevamo fatto nei nostri paesi d'origine per capire i diritti dei lavoratori o il modo di evitare le ingiustizie sociali. In questo riflettevamo forse l'incapacità occidentale di capire un continente studiato, con le lenti deformanti di una cultura «orientalista», come un asettico formicaio.
In più eravamo
abbagliati dal mito del Viaggio all'Eden: più attratti dai vicoli
delle periferie che dai monumenti del centro, da contadini analfabeti
anziché da intellettuali in grado di spiegarci cosa vedevamo, da
occasionali compagni di viaggio che ci raccontavano semmai della vita
ad Amsterdam o a Oslo, il che restituiva un senso di appartenenza
collettiva che alla fine, nonostante il rispetto e la curiosità per
l'Asia, ci trincerava inevitabilmente nella truppa variegata degli
Occidentali. Attenti, con meno sussiego e più simpatici forse dei
turisti tradizionali, ma beatamente ignoranti e felicemente vittime
di un fascino avvolgente che finalmente ti permetteva di perderti
altrove, via dalla pazza folla delle città grigie e borghesi che ci
eravamo lasciati alle spalle. Coraggio, una visitina al tempio di
Mashhad e poi via verso l'orizzonte afgano.
(3 )
(Da: Il manifesto del 23
agosto 2013)
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