Amiamo il tema del viaggio come metafora della vita, ma anche come narrazione dell'esistente (e dunque comprensione del passato). Per questo ci piace particolarmente la serie di articoli di Paolo Rumiz sui luoghi e i ricordi (terribili) della prima guerra mondiale che confermano pienamente quanto mi raccontava mio nonno. Hemingway aveva perfettamente ragione: il "Vate nazionale" era davvero un gran figlio di puttana; e mio nonno l'aveva capito prima di Hemingway!
Paolo Rumiz -Tra fanti e poetastri di
retrovia
Per i soldati, borracce
ridicole da mezzo litro e l'acqua che serviva innanzitutto a
raffreddare le mitragliatrici. Così al fronte si beveva dalle
pozzanghere, passandosi il tifo Spazi ristretti, dedali di
montarozzi. E Quota 28, conquistata per pochi minuti in un'impresa
suicida dal maggiore Randaccio istigato dall'interventista
D'Annunzio.
Prima lo chiamavano "la
fronte". Poi venne D'Annunzio, che all'assalto con la baionetta
non c'era andato mai, e lo ribattezzò "il fronte". E ora
eccola lì quella cosa obbligata a esser maschio dai poetastri di
retrovia e dai gerarchi del regime. Mi arriva addosso tutto in una
volta, in un dedalo di montarozzi spelacchiati, paludi e risorgive
tra il castello di Duino e Monfalcone. Sono sceso a piedi
dall'Hermada, e il viaggio cambia subito scala, ma non nel senso che
entra in qualcosa di incommensurabile. Qui è l'esatto contrario: gli
spazi si restringono. Come avere Maratona, Cheronea e le Termopili
concentrate in un sobborgo di Atene. Il paradigma dell'inconcepibile.
C'è un solo modo per muoversi lì dentro: a piedi. E c'è una sola mappa per non perdersi: quella uno al 25 mila firmata "Transalpina, Trieste". Il Carso non è roba da Gps. Ricordo quando il ruvido Alessandro Ambrosi, "paròn" della libreria, sbucando da una trincea di volumi, me l'aperse davanti. La quantità di particolari era tale che brontolai: «Non mi bastano gli occhi». Al che lui, ghignando, mi mise in mano una lente, che aveva già previsto nella confezione. E ora rieccomi qua, con quel dannato ingranditore da tasca, a cercare l'inizio del sentiero. Da qui a Gorizia sarà così. I luoghi di Toti, Stuparich, Lussu e Ungaretti pigiati in un rettangolino. Quattrocentomila morti liofilizzati in un "war game", in una leziosa miniatura. La guerra di posizione.
Nubi grasse si ammassano sulla pianura. Il "gate" che porta al fronte si nasconde nei pochi metri fra la ferrovia, l'autostrada e la vecchia provinciale costiera, sopra le fonti del Timavo, che lì emerge a due passi dal mare, dopo un lungo percorso sotterraneo. «Rispettate il campo della morte e della gloria » c'è scritto sul parallelepipedo di pietra dedicato all'invitta Terza Armata, ma il monumento perde pezzi, ha la lebbra. Ho il voltastomaco. Presto è il centenario di un evento fondativo del Paese, siamo all'ingresso di uno spazio forse più tremendo di Ypres, della Somme e della Marna, ma non c'è nessuno che pensa a ridare decoro a questo sterminato museo diffuso.
Quota 28, presa per pochi minuti dal maggiore Giovanni Randaccio, in un'impresa suicida istigata da Gabriele D'Annunzio. È la primavera del '17. L'ufficiale e i suoi uomini sono spinti su una passerella oltre il Timavo, sotto tiro austriaco, con l'obiettivo di tentare un'incursione sul castello di Duino e innalzarvi un gigantesco Tricolore. Un'azione puramente propagandistica, utile solo al poeta, che — invelenito dal falle — urla di sparare sui fanti intrappolati che si arrendono e poi ricama letteratura sull'agonia dell'ufficiale, il quale muore — egli scrive — fra le sue braccia, con la testa sulla bandiera. Sì, detesto D'Annunzio. Un narciso incendiario che ha soffiato sul fuoco dell'intervento come nessuno. «Mezzo milione di mangiaspaghetti morti, e che gusto ci ha provato quel figlio di puttana », così scrive di lui, spietatamente, Ernest Hemingway al ritorno dal fonte del Piave.
Fronte italo-austriaco, chilometro zero, estate 1915. Comincia un
viaggio irreale. Giani Stuparich che scrive lettere rannicchiato dietro
un muretto a secco, in mezzo alla puzza di escrementi — non ci sono
latrine in prima linea e si defeca ovunque purché al riparo dai tiratori
scelti — e sotto una pioggia continua, passando notti nel fango,
assalito da incubi e ondate di sonno bestiale. Cadorna, sbarbato e
ineffabile, che registra la contabilità dei morti nel suo quartier
generale di Udine.
II primo assalto al San
Michele, con la banda che intona la Marcia Reale e gli uomini che
salgono impacciati da 35 chili di zaino sulle spalle, a farsi
macellare dalle mitragliatrici. Scene che mandano in archivio in
pochi istanti le immagini folgoranti di Calatafimi, e tutta l'epopea
garibaldina. Battaglioni di nubi in corsa sulla pianura, poi è il
diluvio mentre salgo dalle paludi di Sablici verso i colli di
Monfalcone. Fango e pietre, pietre e fango. Mi lascio inzuppare, i
vestiti pesano. Borraccia vuota e sete, nonostante l'acqua che vien
giù. "Fante". Mastico questo bisillabo pesante, e mi par
di sentire per la prima volta la sua miserabile essenza. Fante senza
nome, fante austriaco e italiano vestito di lana cotta anche
d'estate, fante obbediente e incrostato di fango, con le scarpe
addosso per settimane, fante pazzo di sete, con una borraccia
ridicola, da mezzo litro al giorno. C'era bisogno d'acqua in prima
linea, ma soprattutto per raffreddare le mitragliatrici. I ragazzi
venivano dopo. Si narra che le reclute austriache sbattute al fronte
nel '15, dopo aver esaurito le riserve, si buttarono a bere nelle
pozzanghere, passando poi il tifo agli italiani.
Stazione di Monfalcone, biglietto per Redipuglia, il tabaccaio che mi guarda come un miserabile. Bevo una birra a canna, poi allo specchio del wc mi accorgo di avere una zecca sul collo. L'ho beccata nella boscaglia. Per fortuna so come si fa: basta prenderla con due dita e girare in senso antiorario. Viene via subito, operazione riuscita. Ho letto che ci si spidocchiava fra soldati, e appena c'era tempo si bollivano le camicie per disinfettarle. Anche le mie necessità si stanno facendo elementari, come il mio pensiero. Desidero una doccia, il resto non conta. E quando salgo sul locale per Udine con l'alpenstock e lo zaino, sento di appartenere già a un altro tempo.
Mazze ferrate, cesoie, tagliole, triboli. Al museo di Redipuglia trovo nelle bacheche gli strumenti della crocefissione del fante. Leggo che i reticolati furono collaudati sulle bestie, dai cow boys del Texas, per poi essere usati sugli umani. Trecento tipi ce n'erano. Maschere a gas mi guardano come spaventapasseri, come cavalieri neri del Signore degli anelli.
Mi rannicchio a scrivere sotto un albero del Colle Sant'Elia. Non so per chi lo faccio. Forse per me stesso. Sento che questo mio diario di trincea altro non è che una lunga lettera non spedita.
(Da: La Repubblica del 10
Agosto 2013)
Vi rinvio al precedente post: LA I GUERRA MONDIALE RACCONTATA DA MIO NONNO.
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