Danilo Dolci e Ignazio Buttitta a Roccamena nel 1964
Questa mattina rubo all' amico Giuseppe Casarrubea un bel pezzo pubblicato sul suo blog:
GIUSEPPE CASARRUBEA - LE PAROLE E IL TEMPO DEI SICILIANI
Provate
a fare il futuro con un qualsiasi verbo della lingua italiana,
traducendolo in siciliano. Vi sarà impossibile. Per riuscirci dovete
usare un ausiliare e coniugarlo con un infinito per dare solo l’idea che
avete intenzione di fare qualcosa o che qualcosa potrebbe succedere. Un
solo esempio: farò.
In siciliano dite: aiu a fari.
Tre parole al posto di una come se si facesse fatica a concepire
un’azione semplice che deve ancora essere messa in opera. I latini
l’avrebbero chiamata perifrastica attiva, e avrebbero usato un
participio futuro che per un siciliano è un concetto remoto,
improponibile. Una vera e propria complicanza dell’esistenza.
A
pensarci bene, però, in siciliano, a differenza dell’italiano, il
futuro è inesistente, non per motivi casuali, ma per una ragione di
fondo che vedremo tra poco. Questo tempo perde l’efficacia della
certezza dell’intenzione e si dissolve in una sorta di dovere, di
compito facoltativo. Quindi possiamo dire che esiste secondo una sua
particolare torsione linguistica, un suo adeguamento alla condizione di
quella popolazione, i siciliani, appunto, che lo hanno trasformato da
realtà negativa in risorsa necessaria. Alla faccia dei comuni studiosi
di lingua. Aiu a fari significa devo fare, ma non è farò. Come
si vede il futuro si piega ad essere presente, a confondersi con esso.
Il senso di questa fusione di tempi è che, sapendo che non è mai certo
quello che può essere il futuro, nessuno può impegnarsi a realizzarlo.
Può solo, mediante una scelta soggettiva e rischiosa, cercare di
realizzarlo ora. Qui e subito. Perciò farò diventa faccio: fazzu. Sempre con la clausola sottintesa: ‘Se me lo consentono’.
Il
salto va dall’etica e dall’infinita casistica delle intenzioni, alla
certezza delle affermazioni. Le implicazioni hanno una portata
ineludibile perché ci conducono al versante dell’esperienza secolare e
alle sue varianti per l’avvenire. Perché non è indifferente che per
secoli e millenni i siciliani abbiano avuto un vissuto che ha impedito
loro di sognare, e ha concesso loro soltanto il desiderio dell’avvenire.
La
loro lingua riflette, quindi, un bisogno di autodifesa, ma anche una
carenza strutturale, il cui effetto è il particolare modo che il
siciliano ha di guardare al passato. Ciò che è appena avvenuto, è, per
lui, remoto, cioè rimosso. I siciliani hanno infatti quest’altra
caratteristica comportamentale e culturale: quella di cancellare in
tempi brevi la memoria. Un modo, tra i più efficaci, per rinnegare una
storia passata che li ha privati del diritto al futuro.
GC
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