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l'analisi di Revelli, ma siamo più pessimisti. Soprattutto ci
colpisce la passività sociale, di cui nessuno parla, ma che permette
che questa farsa ridicola e malrecitata da una classe politica
impresentabile continui. Oggi riprende il campionato di calcio:
milioni di disoccupati e precari torneranno ad avere qualcosa a cui
pensare e per cui scendere in piazza.
Marco Revelli - Otto Settembre
Un paese che prende anche
solo lontanamente in considerazione l'idea che si debba «garantire
l'agibilità politica» a un condannato in via definitiva per una
«ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un paese che
vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi vertici,
esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha
smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza.
O che ha fatto
dell'indecenza la condizione della normalità. Un sistema
dell'informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente
tutto ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo
(si leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema
che ha smarrito la propria elementare funzione di controllo
democratico (e anche il senso della dignità professionale).
L'Italia si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico della propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una crisi morale senza precedenti.
L'Italia si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico della propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una crisi morale senza precedenti.
L'autunno presenterà
conti salati: una disoccupazione che, nonostante la ripresina
nord-europea, continuerà a peggiorare (con gli ammortizzatori
sociali da rifinanziare). Una fragilità del sistema bancario che
continua a strozzare il credito alle imprese e neutralizza anche i
limitati vantaggi del tardivo e parzialissimo pagamento della
montagna di miliardi dovuti dallo stato (che andranno nella
stragrande maggioranza a ripianare i debiti contratti nel frattempo
per sopravvivere). L'incombente aumento dell'Iva, che non ha ancora
trovato voci alternative di copertura. La necessità di reperire
entro l'inizio del prossimo anno i 50 miliardi di euro della prima
delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact, vera e
propria macina al collo di un paese che stenta a restare a galla. Un
livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato bloccato
da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria Ocse.
Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale: o, se si preferisce, un'impennata d'orgoglio. Senza il senso di una rottura di continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di personale politico, percezione della possibilità di un «nuovo inizio», come è stato nei momenti cruciali della nostra storia, dalla «crisi di fine secolo» alla «ricostruzione» nel secondo dopoguerra.
Invece ci tocca assistere
allo spettacolo deprimente di una continuità ossessivamente
riaffermata contro ogni «natura delle cose»: l'assemblaggio forzato
dei vecchi protagonisti del disastro in una comune maggioranza di
governo, uniti nell'unico imperativo di durare sopravvivendo ai
propri vizi privati e alle proprie inesistenti pubbliche virtù.
Consegnati in ostaggio a uomo finito e alla sua esigenza di
prolungare la propria fine oltre ogni limite fisiologico, giorno per
giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio - l'ineleggibilità, la
decadenza da senatore, l'applicazione della sentenza e le misure
alternative... - giocando sull'unico atout che gli è rimasto: la
golden share governativa. La minaccia del «muoia Sansone con tutti i
filistei».
Li possiamo già immaginare i prossimi mesi, con il tormentone osceno del «grazia sì, grazia no» («La chiedo, non la chiedo»...). Delle macchine del fango al lavoro e degli infiniti ricorsi fatti solo per guadagnare tempo. Degli aeroplanini in volo sulle spiagge con «Forza Silvio» e degli avversari politici trasformati in imbarazzati testimoni o omologhi complici.
Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa primavera, la nascita del governo delle larghe intese, pesa come un macigno. Sta su solo perché le due forze che lo compongono - oltre a essere sostanzialmente omologhe nell'idea di società prodotta dall'establishment economico-finanziario e dalle tecnocrazie europee - sono entrambe fragilissime, sull'orlo di una simmetrica dissoluzione. Lo è il Pdl, di fatto già dissolto nella ri-nascitura Forza Italia, e identificato ormai senza residui nel destino politico del suo capo-padrone. Ma lo è anche il Pd, lacerato tra una miriade di cordate interne senza più alcun rapporto con le rispettive culture politiche (che la leadership del partito verrà contesa tra due ex democristiani, Letta e Renzi, in lotta tra loro, la dice lunga). Da due vuoti potenziali non può nascere un pieno d'azione politica. Ci si può limitare alla manutenzione del disastro, rinviando sine die i nodi da sciogliere, «guadagnando tempo», appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal disastro: lo si può dilazionare. Si possono inventare mille bizantinismi, ma non si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio.
È questo il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino della «sinistra» e in particolare del Pd (ma anche di Sel), a cominciare dall'intervento di Goffredo Bettini: la gravità della simmetrica crisi della «parte emersa» del nostro sistema politico (quella su cui sono permanentemente accesi i riflettori dell'informazione ufficiale). L'irrisolvibilità delle contraddizioni accumulate nel corpo di quei due soggetti politici che - ricordate? - nel famigerato passaggio veltroniano-berlusconiano del 2007 e 2008 avrebbero dovuto dar vita a un sistema politico Bipolare, Maggioritario ed Egemonico (si disse proprio così, nella neolingua di allora), monopolizzando l'intero spazio pubblico e bloccandolo rispetto a ogni idea alternativa di società.
Quel progetto giace ora in frantumi (che Enrico Letta cerca di nascondere sotto il tappeto della propria azione di governo come la cattiva casalinga fa con la polvere). Ma non ho letto una sola riga di presa d'atto. O di autocritica. Né una sola proposta all'altezza della gravità, sul modo di uscire dall'impasse. E forse non per caso: perché probabilmente a quella crisi non c'è soluzione, se si rimane entro il cerchio magico dell'attuale classe politica, con come unici ed esclusivi protagonisti i soggetti politici esistenti (e potenzialmente falliti).
Eugenio Scalfari, qualche giorno fa, su Repubblica, ha evocato il 25 luglio del 1943 (Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni), quando appunto Benito Mussolini fu liquidato dal suo stesso partito e finì ai «domiciliari» sul Gran Sasso. Non ha ricordato, credo per scaramanzia, la breve parentesi badogliana e soprattutto la data successiva, l'8 settembre, quando tutto andò giù ed esplose la più grave crisi istituzionale del nostro paese. Eppure val la pena rifletterci, su quelle tormentate vicende. Non solo perché questi primi 100 giorni del governo Letta un po' ricordano (fatte le debite proporzioni in termini di drammaticità) i «45 giorni di Badoglio», col suo «la guerra continua» a fianco del vecchio alleato e la tendenza a dilazionare la resa dei conti. Ma anche, e soprattutto perché l'8 settembre non è solo (o meglio, non è tanto) il momento della «morte della patria», come è stato affrettatamente definito. È la fine di «quella» patria indegna, e il punto d'origine di un'altra Italia. Fu, nel naufragio della vecchia Italia, un punto di rinascita e di selezione di una nuova classe dirigente, sulla base di una «scelta morale» che si trasformò in risorsa politica. Quella data ci dice che a volte, per ricominciare, bisogna finire.
P.S. L'8 settembre è anche il giorno in cui Landini e Rodotà hanno convocato quanti sono consapevoli della gravità della situazione e dell'urgenza di una risposta (e proposta) credibile. Ci saremo in molti, per cogliere questo segnale di speranza.
(Da: il manifesto del 17
Agosto 2013)
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