Dal sito http://www.leparoleelecose.it/ riprendo le
stimolanti risposte di un giovane
ricercatore dell’Università di Palermo sull’attuale
stato della critica letteraria nel nostro Paese:
Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita
un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele
Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della
generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Nelle prossime settimane
ripubblicheremo l’inchiesta su «Le parole e le cose». Oggi pubblichiamo le
risposte di Matteo Di Gesù.
1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi
esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale
eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento
inevitabile nell’esercizio critico?
Considero fuorviante, quando non ipocrita, qualsiasi
pretesa di neutralità nella formulazione di un giudizio critico, tanto più se
viene espresso nell’agone di un discorso (e di un conflitto) interpretativo
pubblico come può essere quello proprio della critica militante. Naturalmente
non ritengo affatto che una sede accademica o un presunto distacco scientifico
garantiscano una sorta di terzietà dell’esercizio critico: del resto esiste
ormai una copiosa bibliografia di epistemologia e filosofia della scienza – da
Feyerabend a Bourdieu – che ha messo in discussione la pretesa obbiettività
della descrizione scientifica (semmai mi pare che proprio in ambito umanistico
e più specificamente letterario, specie in Italia, questo dibattito abbia
trovato troppo pochi riscontri). Parafrasando Foucault, comprendere significa
anche prendere posizione (e quello compiuto della critica letteraria è
soprattutto un tentativo di comprensione, di un testo e del contesto che lo ha
generato). Per quanto ovvio possa sembrare, mi pare che valga la pena ribadire
questo assunto, senza infingimenti e senza condiscendenza verso la pratica
corrente di una critica addomesticata o, peggio, assimilata a un’informazione
pubblicitaria (naturalmente occulta o, meglio, malcelata). Come è il caso di
tenere sempre a mente che l’esercizio critico è sempre un gesto pubblico e
quindi “politico”, e che l’interpretazione è una modalità di relazione con
l’altro da sé ed è data soltanto in quel contesto plurivoco e democratico che
essa stessa contribuisce a generare.
Il paradosso, o se si vuole il contrappasso, per chi
in questi anni ha ostinatamente attaccato a testa bassa l’esercizio di una
critica militante competente e “partigiana”, è che a scalzare il pedante e
petulante critico “ufficiale”, in nome di una presunta riconquista di una
libertà di giudizio e di una asettica e velleitaria democrazia delle opinioni,
si creda siano stati i lettori-commentatori dei blog letterari o, peggio, dei
portali delle librerie on line. Aver salutato come fossero truppe di
liberazione l’esercito di click che con un “mi piace” o con un tweet
hanno preteso di sovvertire l’elitarismo dell’argomentazione critica è stata
una delle trovate più tendenziose e ridicole dei ricettatori di falsa coscienza
di questi anni.
Ciò non significa, evidentemente, coltivare il
rimpianto per la buona, vecchia, critica militante di una volta, tantomeno
astenersi dal rinegoziare la nozione stessa di critica militante, per quello
che ne resta oggi: implica piuttosto la necessità di mettere in discussione
anche i luoghi tutt’altro che neutri nei quali la si esercita, occuparsi delle
condizioni della sua ricezione pubblica, non sottostare necessariamente alle
logiche mercantili, monopolistiche e normalizzanti, che sovraintendono a buona
parte della produzione letteraria italiana. Per tornare al postulato della
domanda, insomma, mi pare che urga tornare a individuare e a delimitare i
“campi” nei quali si sceglie di militare: e più che sulle ragioni di ordine
estetico (tutt’altro che trascurabili, comunque), ritengo che attualmente sia
necessario non tanto e non solo professare partigianerie e opzioni critiche
alternative, quanto piuttosto contribuire ad estendere e consolidare un
dibattito indispensabile a proposito delle idee di letteratura correnti:
tornare a formulare il quesito paradossale «che cos’è la letteratura» non può
che esserci utile.
Ma, a ben vedere, proprio su tali questioni, una parte
consistente dei critici quarantenni ha riaperto i lavori e rinnovato
profondamente la discussione, sovente operando scelte di campo nette e
prendendo posizioni altrettanto chiare: penso ad alcuni dibattiti promossi da
TQ (quello sull’editoria, per dirne uno), ad alcune nuove collane indipendenti
di saggistica letteraria, ai contenuti di riviste e blog letterari aperti negli
ultimi anni.
2. L’altra caratteristica della critica storica è il
senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e
delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”.
Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro
atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi,
c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?
«I maestri si mangiano in salsa piccante» sentenziava
il corvo di Uccellacci e uccellini. Una frase del genere oggi suonerebbe
del tutto inattuale. «Lasciateci almeno la salsa piccante» forse sarebbe più
consona ai tempi che viviamo, non solamente a proposito della critica e delle
sue scuole. Non certo, evidentemente, perché scarseggino figure autorevoli
adeguate a trasmettere saperi e valori agli allievi, o anche semplicemente a
insegnare loro ad adoperare i ferri del mestiere, a condividere un metodo. Ma piuttosto
perché è stato alterato, forse irreparabilmente, un sistema di relazioni, reali
e simboliche, tra le generazioni.
Per rispondere adeguatamente a questa domanda,
probabilmente si dovrebbe cominciare da un libro a mio parere indispensabile
qual è Cosa resta del padre di Massimo Recalcati. Ma perfino un felice
romanzetto pubblicato nel 2012, a proposito dei maestri e del nostro rapporto
disperatamente frustrato con loro, propone un’allegoria eloquente: nell’Uomo
d’argento di Claudio Morici, una sorta di comunità di eterni fuori-sede
dediti alle birrette, alle droghe leggere e ai coiti occasionali professa
l’anestetizzazione dei sentimenti e l’azzeramento di ogni prerogativa civica
che esuli dallo sbraco quotidiano, dal procacciarsi cibo e alcool con poco
sforzo e dal bivacco notturno al «Paradiso terrestre», il locale notturno in
voga. Guida spirituale dell’io narrante del romanzo («il mio maestro», lo
appella appunto il protagonista) è un uomo-statua pitturato d’argento: immobile
su una panchina, il Maestro è la massima incarnazione di questa indifferenza
cosmica agognata dal suo allievo, alle cui sollecitazioni risponde, infatti,
esercitando fino in fondo il proprio ruolo, ovvero rimanendo inesorabilmente
inerte e indifferente.
Temo che questa difficoltà a riconoscere i
padri/maestri, per venerarli e poi ripudiarli, abbia compromesso la possibilità
di ragionare ancora in termini di scuole critiche, così come credo che abbia
inibito quella feconda dialettica conflittuale che, per almeno un trentennio, nel
campo della teoria letteraria e della critica militante, ha alimentato dispute
innovative, confronti plurivoci, scambi fecondi (animando quella che Ceserani
ha chiamato, con plausibile enfasi, «età dell’oro»). Di conseguenza rischia di
apparire fuorviante parlare ancora di angoscia dell’influenza così come di
rimozione, per la generazione di critici della quale faccio parte: se proprio
si deve individuare un sentimento che ne contraddistingua il rapporto con i
padri, azzarderei l’ipotesi che a sovrintenderlo sia una sorta di malcelato
risentimento – infruttuoso, ancorché giustificabile – che oscilla tra una
convenzionale e improduttiva deferenza e un ribellismo altrettanto infertile.
Oppure si incarna in una specie di vittimismo un po’ piagnone, con il quale la
pletora di giovani critici senza famiglia prova a richiamare l’attenzione di
questi padri sterili (distogliendoli dall’unica attività che sembrerebbe
appassionarli: rimpiangere con nostalgia i bei tempi che furono), confidando di
muovere a compassione i più benevoli tra loro, farsi adottare e conquistare un
ritaglino di micropotere nel campo letterario e nel discorso pubblico da
costoro presidiato. La lagnanza sulla generazione (e sulla letteratura)
“dell’inesperienza”, aperta da Antonio Scurati, mi pare che sia stata una
testimonianza eloquente di questo vittimismo, ancorché involontaria. Non mi
riferisco tanto al contenuto del pamphlet di Scurati (sulle cui tesi
tuttavia ancora qualche riserva persiste), tantomeno all’ottimo saggio di
Daniele Giglioli Senza trauma, nel quale si prova assai utilmente a
scandagliare alcuni documenti letterari contemporanei verificando l’efficacia
di questo assunto, quanto al senso comune già vieto nel quale questo discorso
si è rapidamente sedimentato. Se poi si tiene conto di ciò che asserisce
sornione un critico diventato romanziere come Marco Santagata, secondo il quale
la generazione non traumatizzata è proprio la sua, quella nata tra il 1946 e il
1950, tanto da intitolare il suo romanzo Voglio una vita come la mia, evidentemente
qualcosa non torna. O forse, più banalmente, è la metafora dei
non-traumatizzati a rivelarsi poco efficace.
Tuttavia, mi pare che a questa condizione di orfanezza
non sia solo foriera di tristi declini e di infauste sorti regressive: se la trasmissione
del sapere e dei magisteri non procede più per via patrilineare, mi sembra che
stia prendendo campo un’idea di comunità letteraria aperta e tutto sommato
inclusiva, capace di generare relazioni orizzontali e paritetiche. Non si può
che auspicare, allora, la costruzione di una grande e ospitale casa-famiglia
della critica dentro la quale elaborare collettivamente il trauma
dell’abbandono subìto da noi non-traumatizzati.
3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio
scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della
tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi
all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi
tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si
inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra
attività critica?
Anzitutto ritengo che vada ribadito, senza deroghe
alle presunte voghe del nostro tempo, che lo studio del canone e della
tradizione, o, se si vuole, una sicura conoscenza del canone e della tradizione
letteraria italiana, come evidentemente di quella straniera e del panorama
letterario internazionale, nonché il possesso di un adeguato bagaglio teorico e
metodologico, sono prerequisiti indispensabili: non solo per ponderare giudizi
di valore fondati – ancorché, naturalmente, negoziabili nell’agone del
dibattito pubblico –, ma soprattutto per guadagnare una prospettiva adeguata
che consenta uno sguardo meno incerto e provvisorio sul presente. La mia potrà
sembrare un’affermazione troppo perentoria, tuttavia non credo affatto che sia
il sintomo di un atteggiamento regressivo o difensivo. Pur senza praticare
alcuna indulgenza nei confronti di certi stucchevoli accademismi, di inveterate
pose da sacerdoti del sacro culto della letteratura, di insopportabili e ormai
grottesche retoriche vaticinanti, si tratta semmai di rivendicare al discorso
letterario e in generale alla critica della cultura le loro prerogative di
qualità e di indipendenza, opponendosi a logiche di mercato che pretendono di
degradare qualsiasi intervento sulla produzione contemporanea a un modello di
intrattenimento standardizzato, sciatto e compiacente. Se sembrano finalmente
essersi affievolite le ciarle tendenziose che salutavano come una conquista
democratica la detronizzazione del critico di professione (quand’anche fosse
ormai da anni “senza mestiere”, per dirla con Berardinelli), vilipeso per il
suo presunto elitarismo e scalzato dal recensore occasionale o dal blogger
della domenica – come si diceva –, di contro ho l’impressione che, nei luoghi
un tempo deputati alla critica militante (a cominciare dalle pagine culturali
dei quotidiani) sia stato ormai ratificato il declino degli specialismi. A essi
sovente si è sostituito una sorta di giornalismo di costume, magari
pretenziosamente elegante ma che poco ha a che vedere con le competenze
letterarie (ma anche cinematografiche o teatrali); ovvero, più frequentemente,
un’autorialità pretestuosamente autorevole, che vorrebbe essere suffragata
dalla celebrità della firma (che sovente è quella di uno scrittore, magari
esordiente, che ha avuto la ventura di un buon successo di vendite) o
addirittura dal prestigio della testata e dalla fidelizzazione del lettore (la
formula solitamente suona più o meno: “Il libro di…”): la recensione non più
come elaborazione di un giudizio critico, dunque, ma come promanazione di un brand.
Detto questo, non mi pare che si possa lavorare
sull’attualità nella stessa maniera con la quale si studia un’opera canonizzata,
per molte quanto ovvie ragioni: una su tutte la labilità di un testo fresco di
stampa quale oggetto di intervento critico, rispetto a un’opera letteraria
sedimentata nella storia, sotto stratificazioni e superfetazioni di
interpretazioni critiche che hanno contribuito a rivelarla ma magari anche a
occultarla e deformarla. Per quanto rimanga convinto che l’ermeneutica di un
testo del passato non possa che essere immancabilmente un gesto collocato nel
presente e nelle sue contraddizioni, la sfida posta dall’opera imminente
richiede di essere affrontata con un approccio diverso, forse anche con una
buona dose di azzardo. Di sicuro l’indagine militante sull’attualità letteraria
è destinata a un pubblico per la gran parte alieno dagli studi letterari scientifici,
o comunque a un tipo di ricezione sicuramente difforme, effimera, momentanea e
contingente rispetto alla persistenza (o alla velleitaria illusione di
persistenza) di uno studio accademico: il che, ovviamente, concorre a
influenzare tanto lo stile quanto la stessa modalità discorsiva con la quale se
ne dà conto; nonché a renderla spesso assai più divertente di una dotta
discettazione accademica. D’altro canto rimango convinto che mantenere anche
uno sguardo sul presente e possibilmente concedersi la possibilità di
intervenirvi non possa che arricchire la qualità del lavoro scientifico e
accademico: l’essersi rinchiusi nella cittadella assediata dell’università ha
fatto più danni all’italianistica delle sciagurate controriforme del governo
Berlusconi. Anche per queste ragioni credo che le mie scelte di critico
militante assecondino spesso i miei interessi di studioso: leggere romanzi
contemporanei che allegorizzino i presunti caratteri nazionali, per fare un
esempio, si concilia bene con lo studio dei trattati sui costumi nazionali del
Settecento che attualmente sto conducendo. Quando curavo la rubrica «I
paralleli» per il mensile «Giudizio universale» mi piaceva l’idea che il
“classico”, anche solo momentaneamente, anche solo per giustapposizione riuscisse
a condizionare la ricezione dell’ultima novità, differendone la fruizione
mercificata che se ne fa abitualmente e sfalsando la serialità del consueto
consumo editoriale. E al contempo, che un romanzo o un saggio appena pubblicati
potessero offrire più di uno spunto per leggere o rileggere un testo del canone
nazionale e soprattutto concedere un’opportunità per alleggerirlo dai gravami
della peggiore tradizione istituzionale, ufficiale e scolastica. Cercando di
diffidare dalle smanie di attualizzazione e provando semmai a verificarne
l’attualità, talvolta l’urgenza, ripartendo piuttosto dalla distanza che li
separa da noi.
Si tratterebbe di provare a fare in modo che la
ricerca, le competenze scientifiche, raffinino le capacità di lettura del
contemporaneo, e che la lettura del contemporaneo apporti senso alla ricerca e
allo studio accademico: mi illudo di alimentare, quantomeno per me stesso,
questo processo.
4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito
critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della
critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della
rete con il mercato?
Anche in questo caso non credo si tratti di stabilire
(quantomeno in questa sede) se adesso ce la passiamo meglio o peggio di prima, ma
semmai di prendere atto che parecchie cose sono cambiate. Giusto per dirne
soltanto una: l’accesso all’informazione e al sapere (e parallelamente la loro
semplificazione e la loro “virtualizzazione”), con l’esponenziale sviluppo e
diffusione che hanno avuto i mezzi di comunicazione di massa negli ultimi
vent’anni, ha conosciuto una tale e così rapida rivoluzione che ancora
fatichiamo a ponderare quanto essa abbia mutato la nozione stessa di
conoscenza. Saperi rizomatici, orizzontali e molecolari hanno rimpiazzato
saperi sistematici, verticali, organici. È decaduto l’intellettuale
legislatore: quello che era legittimato nel suo status per prima cosa
dalla mole di conoscenze che aveva accumulato e di cui poteva disporre; ma la
sua individualità si è come polverizzata in una moltitudine di soggetti che
sanno indubbiamente assai meno, ma che negoziano e rimettono in gioco i loro
saperi con una frequenza incommensurabilmente più alta di quella dei loro padri
nobili; soggetti, oltretutto, spesso incalzati da una grave precarietà della
loro condizione sociale, anch’essa impensabile fino a un paio di decenni fa.
Sicuramente, dunque, il web ha condizionato non poco anche metodi e codici
della critica. Ritengo che li stia anche mutando, mi sembra evidente, per quanto
essi oppongano una resistenza, spesso assolutamente provvidenziale, dovuta alla
loro consistenza, alla loro tenuta culturale, per così dire (e prendere atto
che la critica letteraria non sia poi così effimera e volatile mi pare, tutto
sommato, consolante), ma forse è prematuro stilare bilanci definitivi. O
comunque complicato. Occorrerà comprendere, nella lunga durata, gli effetti
prodotti da alcune caratteristiche proprie della rete sul lavoro culturale: per
esempio quanto la rapidità abbia compromesso l’esattezza e la stessa
persistenza di ciò che si scrive; ovvero quanto e in che modo la reticolarità e
l’orizzontalità del medium digitale agiscano sugli stessi processi
discorsivi dei linguaggi critici; o ancora ridefinire (se non provare a
“misurare”) la grande disponibilità di “spazio” libero, in ogni senso, che la
rete concede: rispetto alla possibilità di scrivere di tematiche che in altri
luoghi non avrebbero cittadinanza, rispetto alla quantità di battute che ci si
può permettere di usare, rispetto agli interventi che un dibattito può
ospitare.
Di sicuro, sempre a proposito di spazio virtuale, il
web ha restituito alla critica letteraria uno spazio di libertà (nonché uno
spazio tout-court) che gli altri mezzi di comunicazione e le stesse
agenzie culturali le hanno progressivamente negato: non è certo un caso che i
nostri studenti più appassionati seguano il dibattito letterario e culturale
prevalentemente, se non esclusivamente, su «Le parole e le cose», «Doppiozero»,
«Nazione indiana», «Minima & moralia», piuttosto che sulle pagine e sui
supplementi culturali cartacei. D’altro canto, tuttavia, mi domando fino a che
punto, anche attraverso internet, non si rischi, più o meno subdolamente, di
estendere e consolidare sistemi economici, modelli sociali, culturali e di
consumo già egemonici, e di mettere in atto vere e proprie strategie di
controllo culturale (per quanto la rete come mezzo di comunicazione abbia
dimostrato, di contro, di avere il merito indubbio di facilitare i tentativi di
sabotaggio di questi e di altri sistemi di dominio). Guardando al nostro campo
di competenze, il mio timore è che a dettare legge continuino a essere le
logiche del mercato e del grande capitale, magari anche blandendo proprio la
critica dell’era digitale: timore tutt’altro che infondato, se si guarda a come
le piattaforme per la letteratura digitale siano già state predate dalle
multinazionali, dagli editori monopolisti e dalla grande distribuzione
editoriale.
5. Il nostro paese vive un momento di gravissima
emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni,
tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e
universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze
materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa
consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in
generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?
Credo che buona parte della mia risposta a questa
domanda sia disseminata nelle pagine precedenti. L’uso del superlativo
«gravissima», nella formulazione della domanda stessa, comunque, mi sembra del
tutto appropriato. Non tanto questa consapevolezza, ma questa stessa emergenza
sociale condiziona la mia posizione nel campo intellettuale, e suppongo non solo
la mia. Perché la marginalizzazione, la precarizzazione dei trenta-quarantenni
e la loro esclusione di fatto dal mondo della scuola e dell’università, oltre a
essere un’emergenza sociale e generazionale è altresì un grave danno culturale
per la comunità nazionale. Non si tratta soltanto dell’urgenza fisiologica di
un rinnovamento, ma anche della necessità di non tenere ancora fuori dalla
porta delle asfittiche università italiane idee, ricerche, questioni nuove o
analizzate in maniera innovativa, o addirittura che ormai nuove non lo sono
neanche più, sebbene da anni siano materia corrente nel dibattito culturale che
si svolge fuori dai dipartimenti. Solo per fare il primo esempio possibile:
mentre scrivo queste note ho per le mani una tesi di laurea specialistica, di
cui sono correlatore, di un’inappuntabile studentessa, firmata da una docente
di indubbia competenza e di provata serietà. Una buona tesi su Ernesto
di Umberto Saba, nella quale, tuttavia, non c’è neanche un cenno agli studi queer
in generale, e a quelli dedicati al romanzo di Saba in particolare. E questo
avviene nella facoltà di lettere di una città che da due anni ospita un
eccellente festival cinematografico internazionale e indipendente a tema queer
(il Sicilia Queer Filmfest), al quale sono legate molte iniziative
culturali e didattiche, anche collegate all’università stessa, realizzato e
animato da un gruppo di volenterosi e competentissimi trenta-quarantenni.
La drammatica questione generazionale che attraversa
il paese in generale e il lavoro culturale in particolare, questa crisi dentro
la crisi, mi riguarda come cittadino, come militante di sinistra, come
quarantenne, come lavoratore della conoscenza. E credo di poter dire, senza
timore di scadere nella retorica, che meditare un libro come La fuga dei
cervelli di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli oggi torni utile ai
critici letterari non meno della partecipazione a un convegno su Sublime e
antisublime o della diligente lettura dell’ultimo studio iperspecialistico.
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