La vignetta di Gianni Allegra, pubblicata oggi sull'edizione palermitana di Repubblica, rappresenta bene le contraddizioni che paralizzano in questi giorni l'attuale Governo della Regione Siciliana. La bellissima foto in bianco e nero ritrae invece una delle tante manifestazioni antimafia organizzate da Danilo Dolci negli anni sessanta (si riconosce benissimo in seconda fila il poeta Ignazio Buttitta che non mancava mai all'appello!)
Ora, non ci vuole molto a capire quello che voglio dire accostando la vignetta odierna alla foto di ieri: in Sicilia tutto si ripete, la storia sembra che si sia fermata da tempo. Mi ha colpito ieri vedere il gran numero di lettori di questo blog leggere, come se si trattasse di un documento nuovo, un post che avevo pubblicato più di un anno e mezzo fa ( ecco il link: http://cesim-marineo.blogspot.it/2012/02/il-sistema-di-potere-clientelare.html ) e che mi piace riproporre di seguito per la sua evidente attualità:
Qualche settimana fa l’edizione palermitana del giornale La Repubblica apriva con questo titolo: Regione, milioni per i clientes. Il sottotitolo precisava: “Assistenza, tirocini, microcredito: pioggia di soldi alle onlus di partito”. Seguiva nella pagina seguente un documentato articolo di Antonio Fraschilla che non mancava di notare come la notizia fosse trapelata solo perché qualche Associazione era rimasta esclusa dal beneficio. Questo l’inizio dell’articolo:
“La campagna elettorale per le
amministrative è già iniziata. Ad accorgersene per primi sono stati i deputati
regionali che denunciano, con tanto d'interrogazioni al governo Lombardo,
finanziamenti clientelari e poco trasparenti erogati dalla Regione «che
rischiano d'inquinare la consultazione». In particolare, nel mirino degli
inquilini di Sala d'Ercole è finita l'ultima pioggia di fondi erogati
dall'assessorato alla Famiglia: 9 milioni di euro stanziati a favore di 18
raggruppamenti di onlus, la gran parte sponsorizzate dal politico di turno, per
garantire a circa mille «disagiati e disoccupati» tirocini in aziende pagati a
700 euro al mese. Ma non solo. Nel mirino c'è anche il microcredito, altri 12
milioni di euro impegnati dalla Regione: il progetto in questione vede
interessate sulla carta 100 mila famiglie siciliane che potranno provarea
chiedere prestiti garantiti, ma a fare da intermediari tra le famiglie e le
banche saranno delle onlus individuate sul territorio con criteri definiti
«poco chiari», tanto che a Palermo e provincia risultano accreditati 23 enti,
di cui ben 3 solo a Santa Flavia (guarda caso uno tra i Comuni al voto), mentre
ci sono intere province come Ragusa, Caltanissetta e Siracusa che hanno solo
una onlus”. (La Repubblica del 15 gennaio 2012, edizione Palermo, p.II)
Nonostante
il rilievo dato alla notizia dal suddetto
giornale, nessun altro ne ha parlato.Tanto meno la tv che, come si sa, è la
principale fabbrica del consenso. Ma, come
tutti sanno, non c’è settore in Sicilia –
ma non solo in Sicilia! - che non sia condizionato dal sistema di potere clientelare. Basti
pensare alla Formazione Professionale. Sul sito http://www.sicilianews24.it
oggi si legge:
Assunzioni pilotate da politici e burocrati soprattutto in concomitanza con
le elezioni regionali, fondi pubblici assegnati a enti che in alcuni casi non
hanno neppure una sede, assenza di controlli sull'efficacia dei corsi, una
quantità di personale enorme, ben il 46% del totale dei dipendenti attivi nel
resto del Paese e tre volte superiore alla sola Regione Lombardia. E'
l'impietosa analisi del settore della Formazione professionale in Sicilia fatta
dalla commissione d'inchiesta, guidata dal deputato del Pd Filippo Panarello,
incaricata dall'Assemblea regionale siciliana di verificare cosa non va nel
sistema dopo i rilievi della Corte dei conti e alcuni scandali. Dopo avere
ascoltato per diverse settimane in audizione dirigenti regionali, operatori e
sindacati, i commissari hanno appena concluso il lavoro, stilando la relazione
conclusiva depositata a Palazzo dei Normanni e pronta per la discussione
all'Assemblea regionale. Dal rapporto viene fuori un settore 'monstre', dove
non ci sono regole certe e quelle esistenti vengono aggirate con facilità,
controllato da lobbies di potere e senza una reale corrispondenza con le
necessità di lavoro in una regione dove il tasso di disoccupazione giovanile
supera il 50%. Tra i docenti c'é chi addirittura ha soltanto la licenza
elementare, alcuni il diploma di scuola media inferiore, solo il 34% ha un
diploma di laurea. 'E' stato costruito un sistema fondato sulla crescita
esponenziale della spesa pubblica indirizzato a creare posti di lavoro, a prescindere
dalle esigenze effettive dell'utenza e dalla qualità del servizio', scrivono i
commissari nella relazione. La spesa per il comparto ammonta a 400 milioni di
euro, oltre alle risorse finanziate negli anni con i fondi europei. La quantità
del personale non ha eguali nel Paese, 8.612 dipendenti tra docenti e
amministrativi, quasi il triplo dei dipendenti pubblici della Regione
Lombardia. Gli enti che organizzano i corsi e ricevono i fondi pubblici sono
230, 'frutto di un sistema di accreditamento lacunoso, ancorché provvisorio e
sostanzialmente funzionale all'allargamento della platea', accusano i
commissari. 'Il reclutamento del personale', sostiene la commissione, 'fondato
su regole e filtri facilmente aggirabili, ha consentito continue incursioni di settori
della burocrazia e della politica' e sull'esito dei corsi 'c'é l'assoluta
mancanza di verifiche'. La commissione d'inchiesta propone all'Ars 'di
promuovere le iniziative legislative utili a riformare il sistema della
formazione e di esercitare con attenzione i compiti di indirizzo e di controllo
necessari per sollecitare una gestione rigorosa e trasparente di un settore
importante dal punto di vista economico e sociale'.
Ma viene da
chiedersi: chi controllerà i
controllori? E tornano alla mente le parole di Giovanni
Falcone: “In Sicilia, per
quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che faccia carriera (…).
La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo
quadro, far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è
l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime
sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per fare apparire come un
favore quello che è il diritto di ogni cittadino."
Qualche giorno
fa, in un Convegno di studio, il Dr. Antonio
Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, ha detto: “Il Parlamento siciliano è lo specchio fedele di una società e
di una classe dirigente profondamente inquinata, soprattutto ai piani alti,
dalle collusioni con il sistema mafioso”.
Queste parole hanno provocato un
putiferio. Il Presidente dell’ARS, on. Francesco Cascio, anche
per coprire le reazioni scomposte di alcuni colleghi, nel difendere
l’istituzione che rappresenta, ha chiesto
chiarimenti.
In attesa che il dr. Ingroia risponda all’On.
Cascio, riteniamo opportuno riproporre alcuni documenti, estrapolati dai loro
contesti originari, che fanno riferimento a vicende simili a quelle sopra
descritte, lasciando al lettore la valutazione della loro pertinenza e attualità.
Il primo testo da cui vogliamo partire risale al
1957 ed è tratto da un breve saggio di Leonardo Sciascia intitolato La mafia, pubblicato lo stesso anno sulla rivista
di Ignazio Silone Tempo Presente. Di esso, in questo momento, non ci interessa fare un’analisi puntuale. Basti ricordare il
riferimento polemico all’ intervista “di allarmante candore” rilasciata
ad un giornale milanese dall’allora Presidente della Regione Siciliana, Giuseppe
Alessi, secondo il quale la mafia del sud - opera di poveri uomini che si
mettono al passo per derubare i viandanti -
è poca cosa rispetto alla mafia del nord, in cui regnano aggiotaggi e
giochi di borsa. Sciascia osserva:
“ Come l’Alessi, sono molti i siciliani che in buona fede
riducono la mafia a sporadici fatti delinquenziali e ritengono sia un’offesa
alla Sicilia l’ammettere l’esistenza di un’associazione per delinquere con
vasto raggio d’azione e con precisi addentellati nella vita pubblica. Sono
sicuro che l’Alessi, vivendo tra Caltanissetta e Palermo e con la sua notevole
esperienza di avvocato penalista, non ignora le vere
proporzioni del fenomeno, né le collusioni ormai universalmente riconosciute
tra mafia e classe dirigente (c.m.):
ma trovandosi di fronte un giornalista continentale non ha potuto fare a meno
di minimizzare e di lanciarsi in una piccola requisitoria, peraltro non ingiustificata, contro la mafia del
nord.”
Il saggio contiene inoltre la fondamentale
indicazione di metodo da tenere costantemente presente nello studio del
fenomeno mafioso - “non
è partendo dalla razza che si può gettar luce sul fenomeno: bisogna, ancora e
sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa” cui rimarrà sempre fedele - insieme alla coraggiosa denuncia
del comportamento cinico mostrato dalle
truppe alleate in Sicilia, subito dopo lo sbarco a Licata del luglio 1943, quando, per assicurare l’ ordine pubblico, utilizzarono parecchi uomini d’onore.
Sciascia tornerà a parlare dell’aiuto decisivo dato dagli
americani alla rinascita mafiosa in Sicilia, alla fine della seconda guerra
mondiale, in una delle sue ultime interviste:
“ la mafia, che era stata combattuta dal fascismo – due mafie non avrebbero potuto coesistere! – si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani, i mafiosi, oltre al prestigio che hanno tratto dalla liberazione della Sicilia, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano forniture e coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte… ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani!”.
“ la mafia, che era stata combattuta dal fascismo – due mafie non avrebbero potuto coesistere! – si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani, i mafiosi, oltre al prestigio che hanno tratto dalla liberazione della Sicilia, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano forniture e coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte… ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani!”.
Leonardo Sciascia è stato tra i primi a considerare fallimentare
l’esperienza dell’Autonomia concessa dal Governo centrale alla Sicilia
all’indomani del crollo del Fascismo. Più precisamente lo scrittore di Racalmuto,
fin dagli anni sessanta, ha sostenuto, con buone argomentazioni, che:
il fallimento dell’autonomia regionale
si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e maneggiata come un
privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del
movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa.
Sciascia aveva le idee
molto chiare; e quando parlava di
“classe borghese-mafiosa” o
di “borghesia mafiosa” sapeva quel che diceva:
“E’ una borghesia mafiosa, quella
siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione
del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si
diceva delle zolfare : A RAPINA. Lo
sfruttamento a rapina delle zolfare era quello degli esercenti che si
preoccupavano di cavare quanto più materia possibile senza curari né
dell’avvenire delle zolfare né della sicurezza di chi vi lavorava. Ora questa
classe sembra inamovibile.
Successe all’aristocrazia, si comporta , anche
e più grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani
non credono più alle idee “. (sottolineature mie)
Eppure
lo stesso Sciascia non si è mai stancato di avvertire:
La Sicilia non è la mafia, in Sicilia c'è la mafia ma la Sicilia
non è la mafia(...).Quì la mafia non sarebbe durata tanto a lungo se non fosse
stata aiutata da un patto con lo Stato, che naturalmente non è un
patto steso a tavolino ma è un patto da vedere in quella che Machiavelli
chiamava 'la realtà effettuale delle cose'.
E’ curioso osservare che a conclusioni simili
era arrivato negli stessi anni Danilo
Dolci seguendo un percorso diverso. Basta riprendere in mano un suo vecchio
libro, raramente citato, per convincersene. Il libro s’ intitola Chi gioca solo e viene pubblicato da
Einaudi nel 1966. In esso si trova la
più ricca documentazione, raccolta da
Danilo e dai suoi più stretti collaboratori, sulle radici profonde della mafia
nella Sicilia occidentale. Come Banditi a
Partinico è un libro-inchiesta, frutto di anni di autoanalisi
popolare. Era questo il modo in cui Danilo amava denominare il suo metodo
di lavoro che scaturiva, soprattutto, da quel singolare talento che possedeva
di saper ascoltare e dare voce a tutte le persone che incontrava.
Il libro ebbe un successo straordinario. La
stessa casa editrice pubblicò la II edizione nel 1967 e, nei mesi successivi venne tradotto nelle
principali lingue del mondo (ad esempio l’edizione americana uscì l’anno seguente con questo titolo: The man who plays alone. Trad. di
Antonia Cowan. New York: Pantheon Books,1968). Ciononostante, dopo qualche
anno, l'opera scomparve dalla circolazione ed
è stata quasi del tutto dimenticata.
La rilettura del libro per me è
stata di grande utilità e mi ha aiutato a capire anche recenti fatti di
cronaca. Particolarmente istruttiva la ricostruzione di un processo e di una
sconfitta: il processo per diffamazione che Danilo subì, con relativa condanna,
per avere denunciato potenti uomini politici di collusione con la mafia.
Per mostrare quanto chiare fossero
le idee di Dolci al riguardo voglio
citare per esteso un brano della
Premessa, scritta dallo stesso Autore:
I non
pochi uomini politici compromessi con la mafia in Sicilia si potrebbero
distinguere in quattro categorie: Una
prima, dei politici spregiudicati che, soprattutto in tempo di elezioni, hanno
rapidi incontri, riunioni in cui non
badano tanto per il sottile come raccogliere voti e con chi hanno a che fare:
"se tu mi aiuti, io ti aiuto". Una seconda, dei politici che
sfruttano sistematicamente, freddamente, il gruppo chiuso mafioso, imbastendo
eventualmente tutti i possibili doppi giochi a seconda dei tempi e dei
luoghi:" sfruttati a loro volta sistematicamente dalla mafia. Una terza,
di mafiosi veri e propriche riescono ad essere eletti, talvolta anche anche ad
alte responsabilità: per fortuna non sono i più numerosi. Una quarta, di
giovani che, partiti in polemica col sistema, hanno accettato di rimanere condizionati, per poter riuscire. Quale
locale contesto ha reso possibile per più di vent'anni lo sfruttamento della
mafia (e, per un certo tempo, anche del
banditismo) a fini elettorali? La mafia ha così potuto nell'ultimo dopoguerra
partecipare al governo dell'Italia dal livello comunale, provinciale,regionale
ai più alti livelli.
Poco più
avanti Danilo si domanda:
A chi vede Palermo e la provincia circostante, non
occorre molto per verificare che la grande maggioranza della popolazione è
scontenta, molto spesso gravemente scontenta, amara, a lutto. "Perchè, […],
questa maggioranza di scontenti non riesce a diventare maggioranza di diversa azione,
nuova spinta, nuova maggioranza politica?
La
risposta a questa fondamentale domanda
va ricercata, secondo Danilo, oltre che nella incoerenza ed inadeguatezza dei
principali partiti di opposizione di allora, nell'omertà istituzionale che egli
descrive con parole che riecheggiano quelle del secolo precedente di Napoleone
Colajanni:
"finchè i rappresentanti dello Stato cercano ad ogni
costo di coprire […] ministri, sottosegretari più o meno inseriti nella
struttura mafioso-clientelare; finchè si vuol far risultare ad ogni costo che
sono i mafiosi a circuire il loro politico e non si critica il reciproco
appoggio (...), lo sfruttamento reciproco; finchè non si fa chiaro fin dove
arriva nel comportamento di certi 'politici' la loro responsabilità personale,
e fin dove la corresponsabilità governativa;finchè ci capita di incontrare
persone ad altissimo livello di responsabilità -ministri, sottosegretari,
magistrati - le quali in privato ammettono di sapere che certi loro colleghi
sono uomini della mafia (cioè appartenenti ad essa o ad essa disponibili), ma
non osano assumere posizioni aperte; finchè funzionari e parlamentari
continueranno a pretendere dalla povera gente indifesa quel coraggio che essi
stessi, sebbene protetti dal proprio mandato, non hanno; (...)finchè ogni
gruppo, ogni partito che si dice democratico, non osa sciogliere i suoi vincoli
mafioso-clientelari; finchè la maggioranza delle persone si comporta come se
questi problemi non li riguardassero affatto; finchè, ad ogni livello di responsabilità,
non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo
organizzato all'ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia - il
corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto.".
Queste parole risalgono al 1966. A me sembrano ancora attuali. Ma posso naturalmente sbagliarmi.
Francesco Virga
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