Dal sito http://rebstein.wordpress.com/2013/08/25/fantasmi-africani/ riprendo questo bel pezzo:
LUIGI SASSO - Fantasmi africani
Sin dal suo arrivo a Bamako, nel cuore della notte, lo scrittore prova un senso di sconcerto, di sbandamento, sopraffatto dalla confusione, dall’impossibilità di comprendere la lingua, le usanze del posto, di ricordarsi i nomi delle persone incontrate, dei villaggi attraversati. Il rapporto tra il viaggiatore e i luoghi si delinea già dalla prima pagina del taccuino; sarà un itinerario alla scoperta di una realtà tale da mettere in discussione, da ridefinire il profilo del soggetto e dunque i termini e il senso della scrittura. Ma non dobbiamo correre, è meglio scegliere un ritmo più lento, non cercare subito una meta, un bersaglio. Intanto: che volto ha la realtà africana conosciuta da Celati? Partiamo da qui.
Ci sono due immagini che ricorrono nelle pagine dei taccuini con una certa insistenza e sembrano accompagnare tutto lo svolgimento del viaggio. Sono due immagini molto diverse e si capisce anche perché. La prima ci mostra una nuvola di polvere, che tutto sembra avvolgere in un magma indistinto. Può cambiare il paesaggio, l’ora del giorno o la situazione, ma la polvere non smette di volteggiare, di coprire tutte le cose. Le strade, innanzitutto: «La gente si siede sui gradini, nell’aria piena di polvere». Questa sembra la fisionomia più tipica di Bamako: «Tutto per le strade va a flussi discontinui, labile indaffaramento, incontri frequenti, continue deviazioni di percorso. Movimenti affaccendati ma divaganti, nello spazio fitto di corpi umani e colori vivaci e merci ammonticchiate. Niente isolato nella sua aria, tutto avvolto dalla stessa nuvola di polvere e di odori».
Ma anche spostandosi a Ségou l’atmosfera non cambia: «Intorno strade di polvere rossa, luce abbagliante». L’immagine della polvere è importante perché è il simbolo della situazione di confusione che, almeno agli occhi di un europeo, sembra contraddistinguere tutta la realtà. Un mondo dove la distanza tra il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, le merci e la spazzatura (a volte addirittura l’unica nota caratteristica del paesaggio: «Adesso passiamo per una valle completamente coperta di sacchi di spazzatura»), viene meno, dove coordinate troppo precise, e soprattutto tarate su parametri occidentali, non servono più per comprendere ciò che circonda il viaggiatore: «Verso le sette, sfilata di ammassi di spazzatura ai bordi della strada per due o tre chilometri. Polvere dappertutto, strade sottosopra, sfilza di catapecchie e fango dove accendevano il fuoco». La polvere, anche quando si trasforma in fanghiglia, rappresenta l’emblema di una realtà magmatica e inestricabile, dove l’ordine e la logica europei appaiono molto lontani: «…e il terreno è un vasto deposito di argilla dove tutto s’impasta nel fango oggi bagnaticcio, pezzi di carta, bottiglie di plastica, un sandalo rotto, mucchietti di roba gialla, resti carbonizzati, frammenti di polistirolo». E alla fine il caos si trasforma in immobilità: «…nella nube di polvere le macchine e le biciclette s’ingrovigliano, non si riesce a passare».
Su un piano per certi aspetti opposto si colloca l’altra immagine spesso ricorrente nel testo: uno schermo di vetro. Esso separa l’occhio, o forse l’intero corpo, del turista da quanto gli sta di fronte, come se alla fine fosse impossibile venire davvero in contatto con uomini, animali, cose del mondo africano. «Ognuno di noi – Celati si riferisce ai turisti – si muove in due metri cubi di vuoto spinto, fuori dalla sostanza dei commerci quotidiani, destinato a guardare tutto come da dietro un vetro». Questa distanza è un limite, certo, ma è anche lo spazio necessario per promuovere una sequenza di riflessioni che riguardano innanzitutto proprio la condizione del viaggiatore. Egli appare come un fantasma che ciondola stranito, ma anche come un nuovo colonizzatore, una «vacca da mungere», ma nello stesso tempo un individuo la cui testa funziona a sbalzi, capace di trovare tutto meraviglioso o tutto malefico. Celati registra diversi casi di turismo africano, con personaggi che sembrano incapaci di abbandonare il ruolo, la maschera della loro vita di tutti i giorni (la moglie petulante, il marito depresso e sospiroso, l’uomo in cerca di sempre nuove esperienze sessuali), che nel nuovo contesto risultano ancora più ridicoli e insensati. Ma soprattutto lo spazio della riflessione consente di fare un po’ di luce sul significato del viaggio: la lastra di vetro non porta solo a guardare con distacco critico, ma consente di essere visti, di aprirsi allo sguardo di un altro. Allora si ha l’impressione di sfiorare il senso della vita: «In momenti del genere uno intravvede cosa avrebbe potuto essere, quali belle figure avrebbe potuto fare nella vita, se non gli fosse toccato d’essere quello che è. Per un attimo barbaglia un lucore felice, esposto al benevolo sguardo d’un altro essere umano…», o se non altro quello del viaggio: «Sentivo il sapore della vita d’ogni giorno, che non va da nessuna parte, e sta sospesa come una nuvola su un burrone. Per questo i viaggi ti ubriacano subito, si diventa assuefatti all’eccitazione degli spostamenti, allora sembra che la vita debba andare da qualche parte».
Ma anche con i limiti che si sono segnalati – la nuvola di polvere, lo schermo di vetro – il mondo africano presenta situazioni, immagini, personaggi che si stagliano nitidi allo sguardo. Ogni viaggio, infatti, è fatto soprattutto di incontri, di contatti con essere umani che si fissano nella memoria e sulla pagina per il loro volto, la loro andatura, il loro modo di essere. Celati è attratto innanzitutto dalle figure che presentano qualcosa di incongruo, di dissonante, che restituiscono un’immagine dell’Africa certo al di fuori dell’orizzonte d’attesa. A Mopti, per esempio, nella piazza del mercato «passa uno che sembra esatto Gesù Cristo, però molto dimagrito negli ultimi tempi»; a Bandiagara «andando all’ufficio postale incontriamo il marabout, che è esattamente come un parroco da noi. Indaffarato sul motorino distribuisce parole consolanti in fretta (“Courage…”), poi parte via come i nostri preti». E’ come se l’Africa, da queste prime annotazioni, apparisse popolata da personaggi non moto dissimili da quelli che si potrebbero incontrare in una città europea, Situazione che a volte produce esiti un po’ comici: «…e compaiono strani personaggi della brousse (come quel tipo di ieri con vestito di cuoio, bandoliera a tracolla, capelli lunghi, occhi da matto, che sembrava Robinson Crusoe)». E c’è spazio, tra un tuareg con i rayban e una donna che prepara la birra di miglio vestita elegante come se andasse a una festa, per le avances, formulate con voce maliarda, della «principessa nera», per i suoi movimenti imprevedibili tra i corridoi dell’hotel di Bamako, per la sua capacità di volatilizzarsi, di rendersi pressoché invisibile lasciando dietro di sé solo la scia del suo profumo: «Ieri sera ho ispezionato le prostitute del bar, lei non c’era».
Il discostarsi della realtà da quella attesa e immaginata fino a mostrarsi in alcuni casi stonata e spiacevole, si coglie forse nella maniera più evidente nell’incontro con un griot, un rappresentante degli uomini-memoria, i depositari e i narratori del sapere locale. Annota Celati: «E finalmente ho fatto la conoscenza col primo griot della mia vita, dopo aver tanto sentito parlare di questi africani cantori di genealogie». Ma l’incontro è molto deludente, il griot risulta antipatico a Celati «per le sue prediche vocianti», scambia lui e Jean per degli antropologi, deride e insulta ripetutamente i bianchi adoperando come lingua il francese per far comprendere bene le sue osservazioni sarcastiche. Quello che avrebbe dovuto essere uno degli incontri più suggestivi si rovescia in un confronto sgradevole e destinato a non lasciare significative tracce nella memoria dell’autore.
Ma ovviamente i personaggi incontrati non sono certo tutti riconducibili agli aspetti appena individuati. Vi sono quelli che colpiscono il narratore per l’eleganza, per il severo fascino dei loro gesti, anche quelli più semplici del lavoro quotidiano. «…e poi là su un piccolo rilievo due donne giovani che battono il fonio dentro il mortaio con lunghi bastoni. Mi chiedo perché sono andate a batterlo proprio in quel punto, tra nubi di sabbia rossa, per preparare il pranzo al marito. Belle ragazze giovani, hanno l’arco della schiena che va molto in dentro sopra le reni, per cui il cosiddetto sedere viene in fuori come un ricciolo. Prima di avvistare il Niger mi sono annotato le donne che vendevano limoni (sembrano limoni ma sono aranci), la loro austera bellezza»; ci sono personaggi indimenticabili per il ritmo imperturbabile, quasi una danza, della loro andatura: «Boubacar – la guida che consente a Celati e a Jean di entrare in contatto con la cultura dogon – calcola precisamente quanto ci si mette da un punto all’altro, anche se non ha l’orologio. Il suo orologio è il passo regolare, quel suo passo come un metronomo, mai un’accelerazione o un movimento brusco, uno spettacolo che mi prende ancora più del paesaggio. Stamattina gli ho detto che mi impressionava il suo modo di camminare, e lui ha risposto con distacco: “Ah, è la mia arte”».
Altri personaggi catturano l’attenzione per l’incantesimo che sono in grado di creare grazie alle loro doti di affabulatori: «Stasera Amadou ci ha fatto uno spettacolo eccezionale, recitando storie da teatro africano, casi di adulterio e di vendetta magica, donne sedotte, cacciatori della savana, mariti vendicatori, questione di parentele, omicidi terribili. Non ci abbiamo capito niente, ma lui è un vero attore». Riservato in pubblico, di una loquacità fantasiosa e debordante in privato, Amadou porta Celati a concludere: «Persona stupefacente, di umanità multipla, ribaltabile, io lo ascolterei sempre questo incantatore». Incarna, Amadou, quel gusto della narrazione orale, quella dote di affabulazione verbale che per Celati ha sempre rappresentato uno dei lati più affascinanti della comunicazione letteraria.
A guardare questi fenomeni nel loro complesso, se ne deduce che il modo di comportarsi dei neri africani lascia trasparire una diversa concezione del tempo e della vita. Ciò risulta evidente da un semplice confronto con i bianchi: i primi appaiono spesso ciondolanti, almeno in apparenza senza una direzione precisa, quasi incapaci di muoversi per vie rettilinee, ma in grado di lanciare sguardi laterali con penetrante rapidità; i secondi al contrario rigidi, sempre intenti a voler padroneggiare tutto, e alla fine goffi e inadeguati.
Se queste sono le impressioni e le riflessioni che il viaggiatore ricava dall’incontro con la popolazione, viene da chiedersi quale impressione egli possa suscitare in chi lo osserva o ha modo di parlare con lui, al di fuori delle facili categorie in cui un turista, come si è già visto, è incasellabile. Interessante è quanto accade quasi alla fine del viaggio, in un villaggio di pescatori sulle rive del Senegal, dove, almeno per un attimo, si fa chiaro che sotto la luce africana persino l’aspetto immateriale può diventare visibile. E’ l’incontro con un signore anziano, un po’ strabico, che sostiene di averlo già visto, non a St. Louis, come ipotizza il narratore, ma proprio nel villaggio, cinque anni prima: «Allora ho voluto sapere se per caso ha visto il mio spirito fuori di me, non si sa mai, perché lo spirito viaggia. Lui: “Ton esprit je le vois bien, mon ami”». Poi l’uomo strabico ha ripreso il suo cammino, lungo lo stradone.
I quartieri, spesso caotici e affollati, oppure inspiegabilmente deserti e silenziosi («nessuno in giro a quell’ora del giorno, neanche una macchina in circolazione, come un miracolo domenicale»), le vie delle città o dei villaggi, che spesso diventano il luogo in cui esercitare in tutta tranquillità l’arte della conversazione («in due stradine laterali c’erano assembramenti di sedie con persone sedute che parlavano amabilmente in mezzo alla via, in un grande sfoggio di sete e d’abiti colorati»), gli edifici, come la case de palabre o la case de passage, non di rado fatti di fango o di paglia, costituiscono la scenografia, gli spazi entro i quali si svolge la maggior parte della vita delle città e dei villaggi africani. Spesso non presentano – i quartieri, le strade, le case – niente di sorprendente o di esotico, anzi colpiscono per la loro asettica monotonia. Bamako, per esempio, è un «enorme villaggio tagliato da strade a scacchiera, invaso da sabbia rossa che il vento del deserto sparge dovunque, con un centro amministrativo dove ci sono tutti gli uffici statali e intorno quartieri fatiscenti, di qua e di là dal Niger»: una fisionomia anonima che ricorda i quartieri della periferia della Mosca sovietica.
Non è difficile racimolare impressioni analoghe. Dell’Hotel Debo, Celati sottolinea la somiglianza con una pensione della riviera adriatica; il Centro di Medicina Tradizionale nella savana, dove da anni antropologi e psichiatri europei vanno a studiare i metodi dei guaritori dogon, è paragonato a un ufficio delle imposte o tutt’al più a una USL; gli stabilimenti agricoli coloniali di Boukouto suggeriscono un’analogia con Codigoro; tutto ricorda qualcosa di già visto, di usuale. Nemmeno i granai dogon, vere e proprie piramidi di mota, impressionanti nella semiluce, riescono a cancellare il grigiore dell’ambiente («Ma così poco esotico questo posto, un’austerità così completa che viene voglia di stare immobili come i granai», tant’è vero che «visto da fuori, dal declivio, questo villaggio sembra un ammasso informe…»). L’Africa si rivela, insomma, un deposito degli scarti della civiltà occidentale, dove ogni oggetto sembra di seconda, di terza mano, ogni architettura la maldestra imitazione di una forma europea.
E tuttavia basta poco perché lo spazio acquisti una forza magnetica, la capacità di sedurre, di far presagire un’altra, una nuova dimensione. Il dettaglio apparentemente più banale ha il potere di fissarsi con prepotenza nella memoria, di scuotere l’immaginazione: «Poi un campo di calcio senza erba, ma con le righe regolamentari di asfalto, così vuoto e silenzioso che ci siamo incantati a guardarlo». I colori («la luce nei cortili, le ombre nei negozietti, il rosso della pubblicità della Marlboro, la facciata del palazzo del governo con la creta che al mattino schiarisce fino a diventare quasi rosa»), i copricapo indossati abitualmente da uomini e donne, i suoni, i versi degli animali («Così ascoltando viene notte, e quando si spengono le voci si sente l’abbaiare dei cani che si rispondono e uggiolano e fanno lunghi ululati , da una parte all’altra della savana») sono elementi capaci di determinare la fisionomia di un luogo, di far dimenticare tutto il resto, di fare per un momento desiderare di cambiare vita: «E se mi fermassi ad abitare a Bandiagara?».
E la stessa capacità di far lavorare la fantasia, come direbbe Céline, hanno le insegne lungo le strade di Mopti, «città bella, antica, da avventure di Ariosto e altre»; oppure, proprio per la sua intensità enigmatica, l’immagine còlta, verrebbe da dire fotografata, quasi casualmente a Dakar, in attesa della partenza della corriera per St. Louis: «Sulla porta del casottino di fronte, una scritta dice ICI COIFFEUR, ma dietro la porta non c’è niente, il casottino finisce lì».
Questa dimensione ambigua, a volte inquietante, si accentua nel contatto diretto con la natura. I termitai sono opere di architettura fantastica, paragonabili addirittura alle cattedrali di Monet, una dorsale di roccia «sembra la pelle rugosa d’un elefante», i Baobab assomigliano ad animali, o forse a spiriti famelici, che seguono il movimento dei due viaggiatori nella savana: «Lungo tragitto nel buio, ore e ore, con la mezza luna che brilla, i fuochi presso le capanne lungo la strada, e il senso di navigare alla cieca in una brughiera, che si è accentuato quando dopo San non c’erano più villaggi, solo baobab spettrali alla luce dei fari», quasi che il viaggio fosse l’attraversamento di un sogno.
Ma il segreto del paesaggio africano non va cercato soltanto in ciò che allo sguardo occidentale può apparire straordinariamente, e facilmente, suggestivo ed emozionante. E’ un’altra idea di rapporto con lo spazio, con i luoghi, che si respira in Africa. L’aspetto più banale, più insignificante può rivelare qualcosa di sacro, ciò che non mostra alcunché di “poetico” e di struggente può nascondere in sé la forza inesauribile di un segreto: «Siamo passati davanti a un giardino di cipolle, Jean ha tirato fuori la macchina fotografica, e subito si è levato dalla roccia un uomo a gridare. Non l’avevamo visto perché era disteso, ma il suo divieto di fotografare un posto qualsiasi mi fa pensare. Infatti per noi quello era un posto qualsiasi, all’inizio d’un valloncello come tanti altri». Ma l’uomo protestava proprio perché niente in Africa è “qualsiasi” («una pietra, un albero, un pezzo di terra può essere sacro anche senza mostrare nessuna differenza con altri)». C’è un mistero, un che di indecifrabile, in ogni cosa.
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Il saggio di Luigi Sasso è pubblicato integralmente
in Quaderni delle Officine, XXXII, Agosto 2013.
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Il saggio di Luigi Sasso è pubblicato integralmente
in Quaderni delle Officine, XXXII, Agosto 2013.
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