09 marzo 2024

ALLE ARMI!

 


Alle armi


Franco Berardi Bifo
09 Marzo 2024

Il vento europeo che soffia verso l’Ucraina chiede sempre più armi, sempre più ucraini da immolare, sempre più vittime. A nutrire quel vento ci sono tanti filosofi, a cominciare da Bernard Henry Levy, che con appassionata intensità occupano le pagine dei grandi media. Altri, decantano i valori del nazional-bolscevismo putiniano. La rancida retorica romantica dell’eroe, degli uni e degli altri, sembra non conoscere limiti. Fanno di tutto per spingere l’Europa sulla strada della guerra nucleare






Aux armes européens” (sulle note della Marsigliese) è il titolo di un articolo di Serge Juli uscito sul quotidiano Liberation a fine febbraio. Dopo avere convinto gli ucraini a farsi massacrare per gli ideali dell’Occidente nazi-liberale, i produttori di armi e giornalisti nazi-liberal-sionisti – si preparano a spingere l’Europa sulla strada che porta alla guerra nucleare.

Serge Juli è un vecchio maoista pentito, il quale sa bene che per raggiunti limiti di età non toccherà a lui combattere, ma chiama alle armi perché fa parte di un gruppo di mascalzoni che dalla fine degli anni Settanta, quando il maoismo era passato di moda, fanno tutto il possibile perché qualcuno vada a morire qualcuno in nome dei loro ideali. Gli ultimi che hanno convinto a morire per i loro ideali sono decine di migliaia di giovani ucraini, forse centomila, forse duecento, chi lo sa.

Ero un ragazzino quando lessi Le vicende del buon soldato Schveik di Jaroslav Hasek. Il romanzo inizia con l’attentato di Sarajevo. Svejk parla dell’attentato col padrone dell’osteria, e fin dalle prime battute capisci che Svejk è un po’ scemo. Oppure ci fa? Dopo avere letto quattrocento pagine il dubbio rimane. Il buon soldato Svejk viene arruolato nonostante gli acciacchi, diviene assistente di un tenente, va in giro con l’esercito asburgico di rovescio in rovescio, ma non si riesce mai a capire se sia un entusiasta patriota disposto a combattere per una causa incomprensibile ma sacra, oppure se sia un pacifista radicale che fa lo scemo per non pagare il dazio. Comunque Svejk è la prova di un fatto: chiunque ami la guerra è un idiota. Talvolta un idiota colpevole, talvolta un idiota innocente come il povero Svejk.

Il libro di Hasek è la cura definitiva per i fanatici, che talvolta si chiamano eroi. Svejk viene chiamato alla guerra mentre sta a letto malato, come spesso gli accade. Se l’Austria ha bisogno di me vuol dire che siamo messi davvero male, dice Svejk, ma non gli passa neppure per la mente di concludere che la guerra è dunque persa, che non vale la pena insistere, che non è il caso di affaticarsi, soffrire e magari morire per una causa ormai persa, e sarebbe meglio restarsene a letto.

Non ho mai avuto simpatia per i fanatici. Negli anni in cui partecipavo alle azioni del movimento autonomo, occupavo le facoltà e scrivevo volantini che parlavano di salario, di orario, di sfruttamento, e dicevano che occorre lottare uniti contro il padrone. Ho sempre cercato di evitare le frasi roboanti e le promesse di eterna fedeltà e di eroismo. Noi non ci battevamo per degli ideali, ci battevamo per degli interessi: gli interessi di molti contro quelli di pochi, gli interessi degli operai contro quelli dei padroni. Coloro che invitano alla difesa degli ideali e della nazione mi hanno sempre fatto pena, ma anche un po’ di paura.

Quando leggo Bernard Henry Levy, per esempio, oppure quando leggo Eduard Limonov (il suo gemello contrario e uguale) mi vengono in mente i versi di una poesia del 1919 scritta da Yeats:

“The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst   
Are full of passionate intensity” (The second coming)

I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità, dice Yeats. Chi sono i migliori non lo so con certezza. Ma i peggiori lo so: Limonov e Bernard Henry-Levy sono i peggiori, i più ignoranti, i più arroganti, i più ripugnanti.

Limonov, lo conoscete? Emmanuel Carrére ha scritto una sua biografia romanzata da cui esce un personaggio complesso, figlio dell’Unione sovietica, rockettaro negli Stati uniti durante la no wave musicale, avventuriero nei salotti parigini, poeta maledetto, nazional-bolscevico, combattente per la causa nazionale russa, e anche, per sintetizzare tutte queste qualità, perfetto cretino. Limonov rimprovera alla civiltà di avere cancellato l’eroismo dalla sua etica per sostituirlo con i diritti. La sua “filosofia” è una riedizione del superuomo nietzchiano, semplificato per i lettori del corriere dei piccoli, in salsa stalinista.

“Il mito dell’eroe è tra le radici più profonde e vivaci dell’umanità rimanda a una delle pulsioni più nobili della nostra specie, riconoscendo il valore eccezionale di un dato tipo umano. L’umanità accettava che alcuni uomini oltrepassassero gran parte dei propri consimili per forza fisica coraggio e intelligenza. … la disuguaglianza delle facoltà intellettuali e fisiche dei bambini emerge fin dall’asilo. L’istruzione obbligatoria e gratuita spacciata per secoli come panacea contro le disuguaglianze, in realtà non fa che accentuarle” (Grande Ospizio Occidentale, Bietti, 2023, pag 83).

A Limonov piacerebbe che la plebe stracciona non avesse accesso alle scuole, solo gli eroi come lui dovrebbero avere questo diritto. E come riconoscere l’eroe è semplice: fin dall’asilo gli uomini superiori come Limonov azzannano i loro simili ed eccellono nella corsa ad ostacoli. Cazzate, direte voi. Mica tanto, visto che questo pensiero malato guida l’economia liberista, che smantella la scuola pubblica, la sanità pubblica e tutto il resto, perché i superuomini possano eccellere creando imprese profittevoli e mettendo gli altri al lavoro per un salario di merda.

Quanto ai diritti umani, Limonov ha un’opinione molto precisa in proposito: “I diritti dell’uomo sono la carta della codardia dei Malati dell’Ospizio” (pag. 47).

Gli eroi non hanno bisogno di questa roba: dei diritti non sanno che farsene visto che quel che gli occorre lo prendono con la forza dei muscoli, delle armi, e dell’anfetamina. In nome di questi valori il prode Limonov esalta lo stalinismo e in tarda età, dopo averlo criticato, si appassiona a Putin, che rilancia i valori del nazional-bolscevismo. “Per quanto esecrato il periodo staliniano era e resta il più fecondo dello stato sovietico. La grande epoca. La Russia vi ha conosciuto una potenza senza precedenti“ (Limonov, 106).

Leggendo Limonov mi viene in mente un suo omologo occidentale, il signor Bernard Henry Levy, combattente di tutte le cause in cui qualcuno deve morire perché lui possa vibrare di eroismo letterario. Avrete sentito parlare di questo Bernard, perché fino dagli anni Settanta sfarfalla da una rivista di moda a un bollettino di guerra con la fama del nuovo filosofo.

A un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse dei “nouveaux philosophes” Gilles Deleuze un giorno rispose che non pensava niente perché del niente non si può pensare alcunché. Mi permetto di dissentire da Deleuze, se posso. Occorre infatti pensare il nichilismo, la violenza intellettuale perché di queste cose, tra l’altro, è intessuta la tragedia contemporanea. Per esempio, cosa pensare di Bernard Henry Levy? Non mi ha mai sfiorato l’idea che si tratti di un filosofo. Dai suoi libri traspare unicamente la superficialità di un dilettante entusiasta di sé. Non si può dire neppure che sia un giornalista. È un sadico. Un sadico voyeur cui piace vedere la sofferenza più brutale, cui piace l’avventura estrema con colori di tramonto sul deserto. Un Limonov versione Nato. I morti, possibilmente centinaia di migliaia, fanno parte dello spettacolo.

Non so quante sono le vittime della guerra in Siria, non lo saprà mai nessuno, ma ricordo la passione con cui l’eroe parigino si sbracciava per trasformare una rivolta popolare in una guerra sanguinosa.

Nel 2022, poco dopo l’invasione russa e l’inizio della resistenza ucraina il tenebroso parigino si recò a visitare il vice-comandante del Battaglione Azov, punta avanzata del mondo libero. Ne scaturì un emozionante articolo pubblicato in Italia da La Repubblica. Di Illya Samoilenko viene descritta innanzitutto l’omerica pallidissima bellezza. Poi si passa a sfatare la diceria che il battaglione di cui l’omerico è vice comandante sia composto di nazisti. “Siamo solamente – dice Saimolenko – nazionalisti radicali”, che è un altro modo per dire nazisti. Deciso a non abbandonare Mariupol agli invasori russi Ilya Samoilenko dichiara: “Preferiamo morire piuttosto che subire l’umiliazione di una resa. La parola resa non esiste, nel nostro dizionario”.

Per fortuna il dizionario è poi stato aggiornato e i miliziani Azov si sono arresi, sono stati arrestati, e successivamente rilasciati. Quel che mi ripugna nell’esibizione henrileviana non è l’esaltazione dei tatuati con la svastica e dell’iper-nazionalismo banderista, ma la rancida retorica romantica dell’eroe. La modernità ha impiegato cinque secoli per sostituire agli eroi pronti a morire e soprattutto a uccidere con il pacioso borghese e con lo schizzinoso intellettuale. Ha impiegato cinque secoli per ammansire l’aggressività maschile e per trasformare i barbari in cittadini. Ma a Bernard Henri Levy (e molti altri della sua generazione, che è poi anche la mia) quella vita codarda è venuta a noia.

Anche in Russia l’eroismo va per la maggiore. I Bernard Henry Levy (BHL) di quella parte scrivono poemi per cantare la ritrovata eroica anima russa. Come Ivan Okhlobystine, autore del verso sublime “Grazie a te, Ucraina, che ci hai insegnato a essere nuovamente russi”.

Talvolta Bernard si scompiglia i capelli e la bianca camicia si gonfia nel vento. In un suo libro dal titolo intrepido (Dunque la guerra, La Nave di Teseo, 2022) leggo questa densa analisi della guerra ucraina: “Credo che questa sia davvero una guerra come nessun’altra, incomparabile, fuori dal comune” (pag. 12).

È una guerra come nessun’altra, dice il damerino emozionato. Sarà. Forse dalle altezze vertiginose del pensiero henryleviano si vedono cime che noi mortali non possiamo vedere. Quello che vedo io sono centomila giovani ucraini e russi morti nelle trincee. Ma Bernard se ne frega dei morti. Tutti noi europei, spettatori paganti dello spettacolo che si svolge nelle terre orientali ce ne freghiamo se quelli muoiono. Lo fanno per i nostri ideali, quindi siamo contenti, e sventoliamo una bandiera gialla e blu.

Ma il nouveau continua i suoi vaneggiamenti filosofici: “Sento che qui c’è un avvenimento reale, cioè un punto della realtà che sta spezzando in due l’ordine della storia… Sto tornando a essere hegeliano all’improvviso? È lo spirito del mondo che vedo passare sotto la mia finestra, o dietro la feritoia di ogni Bonaparte ucraino. È per questo… che ho voluto per quanto possibile accostarmi all’Ucraina sofferente e valorosa insieme…” (pag. 12).

Capito? Nella sua insondabile vacuità Bernard è diventato hegeliano, prendete nota storici futuri della filosofia occidentale. L’hegeliano Bernard è scosso da un fremito quando guarda dalle sue finestre lo spirito del mondo che corre su un cavallo nero.

Leggere BHL è un po’ come ascoltare un colloquio tra vecchi alcolisti che si ritrovano al bar Sport per commentare le notizie della televisione dopo il quarto Pernod. Purtroppo però le sue parole prive di profondità, di erudizione e di intelligenza, ma cariche di appassionata intensità, circolano nei media. Amante delle frasi celebri Henry Levy ammonisce l’Europa incitandola a mandare molte armi perché sempre più ucraini si possano immolare per gli ideali del loro aedo parigino: “L’Europa si trova a un crocevia, il crocevia del proprio destino”.

I fanatici amano i gesti teatrali, ma la loro formazione intellettuale si fonda su letture superficiali. Prendiamo ad esempio André Glucksmann un compare di BHL: a metà degli anni Settanta lesse Arcipelago Gulag e scoprì che l’Unione sovietica era un regime totalitario che incarcerava i dissidenti o li mandava in luoghi gelidi della Siberia. Bella scoperta. Io lo sapevo da quando ero ragazzino. Quando mi iscrissi alla federazione giovanile comunista di Bologna nel 1964 già sapevo che l’Unione sovietica non corrispondeva minimamente a ciò che chiamavo “comunismo”. Sapevo che era un regime fondato sulla diseguaglianza, un regime burocratico e autoritario che imprigionava i dissidenti. Avevo quattordici anni, ma già lo sapevo. Glucksmann non ne sapeva niente. Nel 1968 era un adoratore del presidente Mao Zedong, e girava nelle aule dell’università, agitando il libretto di Mao e cercando qualcuno da mettere alla gogna, per imitare le guardie rosse (vedi in proposito Paul Berman: Sessantotto, Einaudi traduzione di A tale of two Utopias, 1996).

Nel 1969 Glucksmann pubblicò un libro dal titolo Le Discours de la guerre, nel quale pasticciava con concetti hegeliani più grandi di lui, con uno stile che consiste nel nominare i grandi filosofi in maniera allusiva, in un’insalata senza capo né coda. Quel che stupisce non è il repentino rovesciamento di prospettiva provocato dalla lettura del libro di Soljenitsin. Cambiare idea è del tutto legittimo, perfino nobile talvolta. Come no. Il problema è che Glucksmann era un fanatico assertore del comunismo più violento quando aveva venticinque anni. E divenne un fanatico assertore dell’anticomunismo più violento quando ne aveva trenta. Se nel 1969 esaltava le guardie rosse e incitava i giovani a imitarle, dopo il ’77 giunse fino ad esaltare gli armamenti atomici americani come baluardo della libertà.

Giustamente Paul Berman scrive: “Il comportamento di Glucksmann era allarmante. Negli anni Ottanta, mentre Il movimento antinucleare si diffondeva in Europa e negli Usa, egli scrisse un saggio sulla strategia nucleare a favore della politica americana, e la sua difesa traboccava di entusiasmo per le virtù delle armi nucleari. Scrisse un’invettiva contro il partito socialista francese (intitolato La bétise) per il sentimentalismo residuo nei confronti della tradizione marxista. L’idea che la sua passata stupidità politica potesse temprarlo nello stile, che la modestia potesse essergli più consona, sembrò non sfiorarlo mai” (Paul Berman: Sessantotto, Einaudi, 2006, p 187).

Glucksmann non si limitava a cambiare idea, a sostenere l’esatto contrario di quel che aveva sostenuto qualche anno prima, ma usava lo stesso tono enfatico e indignato, la stessa passione retorica per sostenere due tesi tra loro contrastanti. Qui si trova l’essenza pura del fanatismo. Il fanatico è colui che alza la voce e maledice il dubbio, poco importa di che si tratti, poco importa in quale direzione ci si diriga.

Ecco chi sono i peggiori, nel senso in cui Yeats intende la parola “peggiori”: non importa se hanno la barba del pasdaran islamico o i capelli lunghi e scompigliati del libertario parigino: essi prorompono in enunciazioni altisonanti pur di eccitare gli animi eccitabili sperando che qualcuno si faccia ammazzare.

Dalla Croazia alla Bosnia, dalla Libia alla Siria, decennio dopo decennio, i prodi combattenti parigini della libertà invitarono i loro governi a sostenere la guerra, a fomentare la guerra, a finanziare la guerra.

Alla vigilia della guerra contro l’Iraq, forse la più criminale aggressione occidentale contro un paese arabo, Alain Finkielkraut, in un’intervista al settimana Marianne, pronunciò la frase: “Give war a chance”. Naturalmente pensava di essere spiritoso. Ma la guerra irachena non fu molto divertente. Nata da una menzogna pronunciata da Colin Powell davanti all’assemblea delle Nazioni Unite, diretta a scovare armi di distruzione di massa che non furono mai trovate, la guerra distrusse un paese che aveva già subito la dittatura di un assassino, di nome Saddam Hussein, che gli stessi americani avevano finanziato e armato in precedenza (nel 1980, per la precisione) perché aggredisse l’Iran dell’ayatollah Khomeini.

Pensando a Limonov, Henry Levy, Glucksmann e Finkielkraut, non si possono non ricordare le parole di Albert Camus:

“Le idee false finiscono nel sangue ma si tratta sempre del sangue degli altri. Questa è la ragione per cui certuni filosofi si sentono autorizzati a dire quel che gli passa per la mente”.


Nessun commento:

Posta un commento