08 marzo 2024

NUOVI FEMMINISMI

 

Un murales di Orgosolo, Sardegna


ESSERE STREGHE. ANCORA, PER NOI  TUTTE

di Nicoletta Vallorani

 

“Perciò, in qualità di sorella Strega, ti chiedo di parlare alle mie percezioni”. È la conclusione di una lettera che Audre Lorde aveva mandato Mary Daly (1928-2010) – filosofa e teologa, femminista radicale, lesbica, bianca – dopo la pubblicazione di Gyn/Ecology: the Metaethics of Radical Feminism (1978). Non aveva ricevuto risposta, perciò la lettera era diventata una interpellazione aperta. Oggi la si può leggere in Sister outsider. Essays and Speeches (1984), pubblicato in Italia come Sorella outsider. Scritti politici (2014), per la cura del Gruppo Ippolita. Nel testo, Lorde rende esplicita la differenza tra femminismo bianco e nero, e contestualmente fa un punto importante: nel ragionamento sulla pratiche di pressione che caratterizzano i miti cristiani e nella conseguente rivendicazione dell’esistenza di una dea in luogo del dio padre, Daly esclude interamente il pantheon africano. Non ci sono “Afrekete, Yemanje, Oyoe, Mavulisa”, che Lorde cita esplicitamente, e le innumerevoli figurazioni femminili la cui assenza di fatto azzera l’eredità culturale e storica delle donne nere.

Eppure Daly resta una “sorella Strega”.

 

In inglese il termine usato è “hag”, che è diverso da “witch”. Esso accentua la non conformità attiva, include la furia, abbraccia la femminilità assertiva che tanto spaventa, ieri come ora. E ieri è anche l’8 marzo del 1972, quando a Campo de’ Fiori si radunano più di ventimila donne, e gridano, appunto, “Tremate, tremate, le streghe son tornate”. Il posto non è un caso: è la piazza dove l’inquisizione ha arso al rogo lo spirito ribelle Giordano Bruno, e mi pare che sia anche l’unica di Roma dove non c’è una chiesa.

 

Dunque, quel giorno, succede che le donne si (ri)scoprano sorelle, e si approprino di quella che fino a quel momento è stata una maledizione tutta femminile. Essere streghe. Tornare come streghe. Porsi cioè consapevolmente come corpi non conformi che si comportano in modo inopportuno, autodesignandosi, secondo il pensiero comune, come vittime designate. Le donne della mia generazione se lo ricordano, anche se la rivolta è sfumata pian piano, senza che ce ne accorgessimo troppo: come Atwood fa dire alla sua protagonista in The Handmaid’s Tale (1985), “I was asleep. That’s how I let it happen”. Dormivamo e abbiamo permesso che accadesse: la rivalsa del patriarcato, la riproposta delle donne come creature che “invitano” lo stupro, l’abuso, l’omicidio e quella morte lenta che è la cancellazione delle opportunità.

 

Ora invece succede che dormire non è più possibile. Il filo del tempo si riavvolge, includendo tutte le differenze di tempi e luoghi, ma anche riconoscendo le tragiche analogie che ancora segnano il destino delle donne. Lo pensavo il 26 febbraio scorso, alla prima uscita pubblica di #Unite. Azione letteraria, l’idea partita da Giulia Caminito e Annalisa Camilli dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin. Quel femminicidio è stato uno spartiacque in molti modi, nonostante l’eterno ripetersi del medesimo, inaccettabile rituale.

 

Che cosa ha fatto la differenza? Ci riflettevo mentre, il 26 febbraio, #Unite, cercavamo di dar forma a una mobilitazione condivisa  tra donne di generazioni diverse – Daria Bignardi e io, e poi le altre più giovani: Francesca Coin, Irene graziosi, Marta Perego, Ilaria Rossetti, Raffaella Silvestri, Irene Soave – raccogliendo il bandolo della matassa di considerazioni che Caminito e Camilli hanno cominciato ad avvolgere intorno e tra noi, in una tessitura di contiguità capaci di conservare preziose differenze.

 

Credo che siano state le parole di Elena Cecchettin a ridisegnare il quadro. “Bruciate tutto”: è una dichiarazione potente e rischiosa. Non so se fosse una chiamata all’azione. Per me, per certo, lo è stata.  Si è tradotta, subito, nel rifiuto del minuto di silenzio che sempre si dedica ai morti, per poi sentirsi assolti, accantonare il fatto e le cause, non fare nulla.  Da donne, in questo essere definite vittime designate, accoglienti per definizione e subalterne per natura, a volte si diventa fataliste. E, scrive Paul Gilroy riferendosi ad altre morti inaccettabili, “i fatalisti accettano che non si possa far nulla per cambiare il futuro, perciò non fanno nulla” (“Antiracism. Blue Humanism and the Black Mediterranean”, 2021).

 

Invece Elena Cecchettin non è stata fatalista; al contrario, ha richiamato l’azione e spezzato il silenzio. È stata attaccata da molte e molti per questo. Si è comportata in modo non conforme, non adeguato, inatteso e pertanto inaccettabile. Ha fatto cioè quello che facevano le streghe: non tacevano. Silvia Federici le racconta come creature nate per essere bruciate (Calibano e la strega, 2016), per poi ragionare su come si debba reagire a questa nuova ondata di violenza che ci definisce oggi (Caccia alle streghe, guerra alle donne, 2020). Le streghe sono da sempre creature inafferrabili, di fuoco e d’acqua. Un’ordalia antica prevedeva che la donna sospettata di essere un’entità malevola venisse legata a una sedia e buttata in un fiume.

Se rimaneva a galla, era una strega, e quindi veniva bruciata a morte.

Se affondava, era innocente, e da innocente moriva.

 

Fuoco e acqua erano le coordinate della pena, mortale comunque, e scritta nel corredo genetico delle donne ribelli. Credo che quello che sta prendendo forma in alcuni femminismi di oggi, e quello che è il tempo giusto per fare, sia un movimento di riappropriazione, una rinascita che si avvia a partire dagli strumenti della punizione: il fuoco e l’acqua.

 

Nell’album elettronico The Quest (1997), i Drexciya – duo di musica elettronica americano dalle intuizioni brevi e folgoranti – tornano al mare come luogo di una forma di resistenza acquatica nato dal “più grande olocausto della storia”. Nelle note di copertina si legge la visionaria ipotesi che le donne africane gravide gettate in mare durante il travaglio perché fastidiose abbiano dato alla luce bambini3 acquatic3, una nuova specie capace di sopravvivere anche all’annegamento. Alexis Paulin Gumbs, nel testo di poesia straziante e consolatoria che è Undrowned (2020), riprende il filo di questo ragionamento e rivendica la necessità di un respiro collettivo, in grado di attraversare il tempo e impegnare le donne nere di oggi a riprendersi quello che hanno perduto in un annegamento di massa mai finito, “nel quale la distanza dell’oceano significava che le persone potevano diventare proprietà, che la vita poteva essere messa in vendita”. Corpi non conformi anche oggi, le donne – e le donne nere in particolare – sono sempre costrette a respirare contro, a procurarsi aria quando essa viene negata. Parlano risparmiando il fiato, ma non si rassegnano a tacere.

 

Non tace neanche Elena Cecchettin. Parla, non flirta per il dolore e con l’oppressione, richiama l’azione. Fa lo stesso Audre Lorde quando, nel suo intervento al convegno dell’MLA lesbiche e letteratura (1977), reclama  “la trasformazine del silenzio in linguaggio e azione”.

Questo conferisce senso al nostro ritrovarci, come donne e diverse in un territorio condiviso, dentro un’azione – letteraria e non – che renda visibili il nostro non uniformarci a un sistema di aspettative per lo più mortificanti, sanzionatorie, vittimizzanti in pratica e simbolicamente.

 

In verità vi è poco di simbolico nell’ennesima morte che si verifica il giorno stesso del nostro incontro per #Unite. Maria Battista Ferreira viene uccisa dall’ex compagno nel pomeriggio inoltrato del  26 febbraio del 2024 mentre noi parliamo di violenza contro le donne. E il 27 febbraio la stessa sorte tocca a Sara Buratin.

Per questo, sempre riprendendo le parole di Lorde, “Il nostro lavoro è diventato/ più importante/ del nostro silenzio” (1978). E l’atto stesso di respirare insieme è una pratica di presenza. Perciò siamo qui, respiriamo insieme, parliamo.

E non abbiamo intenzione di andarcene.


Articolo ripreso da  https://www.leparoleelecose.it/?p=48850   8 marzo 2024


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